31 ottobre 2021 - XXXI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO B)

 

James Tissot: Mosè e i dieci comandamenti (1896-1902)

New York, Museo Ebraico

PRIMA LETTURA (Deuteronomio 6,2-6)

Mosè parlò al popolo dicendo:

«Temi il Signore, tuo Dio, osservando per tutti i giorni della tua vita, tu, il tuo figlio e il figlio del tuo figlio, tutte le sue leggi e tutti i suoi comandi che io ti do e così si prolunghino i tuoi giorni.

Ascolta, o Israele, e bada di metterli in pratica, perché tu sia felice e diventiate molto numerosi nella terra dove scorrono latte e miele, come il Signore, Dio dei tuoi padri, ti ha detto.

Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore. Tu amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze.

Questi precetti che oggi ti do, ti stiano fissi nel cuore».



SALMO RESPONSORIALE (Salmo 17)


Rit. Ti amo, Signore, mia forza.

 

Ti amo, Signore, mia forza,
Signore, mia roccia,
mia fortezza, mio liberatore.

Mio Dio, mia rupe, in cui mi rifugio;
mio scudo, mia potente salvezza e mio baluardo.
Invoco il Signore, degno di lode,
e sarò salvato dai miei nemici.

Viva il Signore e benedetta la mia roccia,
sia esaltato il Dio della mia salvezza.
Egli concede al suo re grandi vittorie,
si mostra fedele al suo consacrato.

 

 

SECONDA LETTURA ( Ebrei 7,23-28)

Fratelli, [nella prima alleanza] in gran numero sono diventati sacerdoti, perché la morte impediva loro di durare a lungo. Cristo invece, poiché resta per sempre, possiede un sacerdozio che non tramonta. Perciò può salvare perfettamente quelli che per mezzo di lui si avvicinano a Dio: egli infatti è sempre vivo per intercedere a loro favore.

Questo era il sommo sacerdote che ci occorreva: santo, innocente, senza macchia, separato dai peccatori ed elevato sopra i cieli. Egli non ha bisogno, come i sommi sacerdoti, di offrire sacrifici ogni giorno, prima per i propri peccati e poi per quelli del popolo: lo ha fatto una volta per tutte, offrendo se stesso.

La Legge infatti costituisce sommi sacerdoti uomini soggetti a debolezza; ma la parola del giuramento, posteriore alla Legge, costituisce sacerdote il Figlio, reso perfetto per sempre.

 

 

VANGELO ( Marco 12,28-34)

In quel tempo, si avvicinò a Gesù uno degli scribi e gli domandò: «Qual è il primo di tutti i comandamenti?».

Gesù rispose: «Il primo è: “Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l’unico Signore; amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza”. Il secondo è questo: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”. Non c’è altro comandamento più grande di questi».

Lo scriba gli disse: «Hai detto bene, Maestro, e secondo verità, che Egli è unico e non vi è altri all’infuori di lui; amarlo con tutto il cuore, con tutta l’intelligenza e con tutta la forza e amare il prossimo come se stesso vale più di tutti gli olocausti e i sacrifici».

Vedendo che egli aveva risposto saggiamente, Gesù gli disse: «Non sei lontano dal regno di Dio». E nessuno aveva più il coraggio di interrogarlo.



In altre parole…

 

Il volto di Mosè in questa immagine di James Tissot sembra dirci che egli è solo il tramite del Decalogo, non l’autore, e con questa consapevolezza egli si rivolge e parla al popolo. Perché la fede di Abramo, di Isacco e di Giacobbe è ormai fede di un popolo. Il suo primo richiamo è al timore del Signore, in quanto riconosciuto e sentito come “nostro Dio”: non un timore generico e impersonale di un qualsiasi Dio anonimo, ma un misurarsi umilmente col proprio Dio, quello dei Padri. E questo non come singoli, ma nella condivisione dei figli e dei figli dei figli: la trasmissione della fede è di per sé un fatto generazionale prima che diventi strettamente personale: la riceviamo e la trasmettiamo, e in questo senso va vissuta. È un dato storico ed obiettivo prima che intimo e soggettivo, qualcosa in cui siamo coinvolti, come nell’esistenza e nella cultura!

 

Il timore del Signore è una presa di contatto col nostro Dio e predispone all’invocazione, ma postula attenzione e ascolto: è adorazione del Signore in spirito e verità. Ecco allora l’invito ad Israele all’ascolto, un contatto che non è di suo esperienza di popolo. Non basta che siano promulgate le leggi e i decreti del Signore, ma è necessario che il popolo dia ascolto per metterli in pratica, per entrare numerosi nella terra dove scorre latte e miele: una pratica non solo materiale o formale, ma che scaturisce dalla comunione di amore col Signore. È questo  rapporto vissuto che ci rende Popolo di Dio, e non solo qualche appartenenza!

 

Ed ecco allora la confessione di fede, che Israele ripete a se stesso per tenerla ben fissa nel cuore e perseverare nella fedeltà.  È lo “shemà Israel” che trova la sua verità nell’affermare che il Signore è il nostro Dio e che egli è unico. Solo a partire di qui, da questa certezza e convinzione, nasce l’imperativo “tu amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze”. Il Signore, nostro Dio propone se stesso come oggetto e motivo di amore senza riserve, sia perché sommamente amabile per se stesso, e sia anche perché è la felicità o beatitudine dell’uomo: la terra promessa dove scorre latte e miele. E qui siamo in pieno Israele, da cui riceviamo tanta eredità.

 

Uno degli scribi, da buon israelita, si avvicina a Gesù probabilmente per confrontarsi con lui e questa volta non per metterlo alla prova: forse tra scribi, esperti di Scrittura e uomini di legge, si discuteva sulla gerarchia dei comandamenti e delle molte prescrizioni. Ed allora egli vuol sapere come la pensa Gesù, e va a chiedergli quale secondo lui è il primo dei comandamenti. Gesù non fa che ripetere quanto era già nella memoria di tutti e ripete lo “shemà Israel” con una sua precisazione: che l’amore vero verso il Signore Dio si esprime e passa attraverso l’amore del prossimo, due facce della stessa medaglia. Non è una subordinazione accessoria, ma amare Dio implica amare quelli che egli ama, alla sua stessa maniera.

 

Sembra proprio che lo scriba cerchi conferma della sua intima convinzione e non faccia che compiacersi con Gesù, dimostrando di condividere con lui anche la centralità dell’amore del prossimo, qualcosa che vale più di tutti gli olocausti e i sacrifici! Egli in qualche modo comprende che il comandamento dell’amore riassume in sé tutti gli altri e percepisce la novità della nuova alleanza, che rende nulli tutti gli olocausti e sacrifici. Ecco perché Gesù gli assicura che egli non è lontano dal regno di Dio, e cioè dal fatto che una nuova ed eterna alleanza tra Dio e il suo Popolo stava per essere sancita.

 

 Questa novità l’abbiamo nella mediazione o sacerdozio di Cristo che non tramonta, in quanto egli è sempre vivo per intercedere a nostro favore. Infatti, “egli non ha bisogno, come i sommi sacerdoti, di offrire sacrifici ogni giorno, prima per i propri peccati e poi per quelli del popolo: lo ha fatto una volta per tutte, offrendo se stesso”. C’è un passaggio decisivo dagli olocausti e sacrifici a colui che offre se stesso una volta per tutte; dai molti sacerdoti costituiti secondo la Legge a colui che come Figlio è costituito sacerdote dalla parola del giuramento e per mezzo del quale ci avviciniamo a Dio.

 

È la Pasqua del Signore, e di questo bisogna non solo fare memoria, ma avere viva memoria sempre, perché è su questo piano che si realizza l’esistenza cristiana come chiesa: nell’essere anche noi segno e strumento dell’intima unione con Dio e fattore di unità del genere umano: di essere perciò “Popolo sacerdotale” in unione all’unico sacerdozio di Cristo. In questo senso è da dire che non è il ministero sacerdotale ad unirci a Cristo, ma questo nasce all’interno del sacerdozio universale dei battezzati. I ministri sono interni al Popolo di Dio e non al di fuori o al di sopra: qualcosa che richiede una crescita di consapevolezza e di responsabilità di questo Popolo.

 

Forse possiamo dire – ma ce lo siamo già detto – che la convocazione di tutto il Popolo di Dio in “sinodo” altro non significa che riportarlo alla sua vocazione e dignità sacerdotale, per ritrovare anche il suo ruolo messianico e profetico nel mondo. Riduzionismi e pragmatismi pastorali non fanno che compromettere gli intenti di fondo di questa convocazione e impedire il passaggio necessario da fare, che potremmo tradurre in questi termini: passaggio dalle pratiche e tradizioni religiose convenzionali ad una coscienza ecclesiale e di fede più matura.

 

Anche senza volere, si torna allo “shemà Israel”, ascolta Israele. In effetti, la parola chiave della convocazione sinodale, di cui si parla di questi tempi, è l’”ascolto dal basso”: che non può essere semplice consultazione o raccolta di opinioni, ma deve diventare voce del Popolo di Dio in attitudine di ascolto della Parola di Dio, per poterne condividere il frutto per tutti. Deve diventare esercizio ecclesiale del “sensus fidei” dei credenti o buon senso della fede, che nasce dalla Parola di Dio e che ci fa ritrovare nell’unica fede con risonanze diverse.

 

Stiamo attenti a non intendere il Sinodo come attività esterna aggiuntiva ad opera di pochi addetti, ma a viverlo dentro di noi e attraverso una comunicazione fraterna, sincera e franca! Anche questa nostra comunicazione a distanza va vissuta con questa attitudine interiore di responsabilità e di partecipazione, e non come semplice sussidio per la comprensione delle letture via via proposte. (ABS)


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