20 settembre 2020 -  XXV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO A)

 

 

Vincent van Gogh: Il vigneto rosso (1888)

 

PRIMA LETTURA (Isaia 55,6-9)

Cercate il Signore, mentre si fa trovare,
invocatelo, mentre è vicino.
L’empio abbandoni la sua via
e l’uomo iniquo i suoi pensieri;
ritorni al Signore che avrà misericordia di lui
e al nostro Dio che largamente perdona.
Perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri,
le vostre vie non sono le mie vie. Oracolo del Signore.
Quanto il cielo sovrasta la terra,
tanto le mie vie sovrastano le vostre vie,
i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri.


SALMO RESPONSORIALE (Salmo 144)


Rit. Il Signore è vicino a chi lo invoca.

 

Ti voglio benedire ogni giorno,
lodare il tuo nome in eterno e per sempre.
Grande è il Signore e degno di ogni lode;
senza fine è la sua grandezza.

Misericordioso e pietoso è il Signore,
lento all’ira e grande nell’amore.
Buono è il Signore verso tutti,
la sua tenerezza si espande su tutte le creature.

Giusto è il Signore in tutte le sue vie
e buono in tutte le sue opere.
Il Signore è vicino a chiunque lo invoca,
a quanti lo invocano con sincerità.

 

 

SECONDA LETTURA (Filippesi 1,20-24.27)

 

Fratelli, Cristo sarà glorificato nel mio corpo, sia che io viva sia che io muoia.

Per me infatti il vivere è Cristo e il morire un guadagno.

Ma se il vivere nel corpo significa lavorare con frutto, non so davvero che cosa scegliere. Sono stretto infatti fra queste due cose: ho il desiderio di lasciare questa vita per essere con Cristo, il che sarebbe assai meglio; ma per voi è più necessario che io rimanga nel corpo.

Comportatevi dunque in modo degno del vangelo di Cristo.




VANGELO (Matteo 20,1-16)

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola:

«Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all’alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna. Si accordò con loro per un denaro al giorno e li mandò nella sua vigna. Uscito poi verso le nove del mattino, ne vide altri che stavano in piazza, disoccupati, e disse loro: “Andate anche voi nella vigna; quello che è giusto ve lo darò”. Ed essi andarono. Uscì di nuovo verso mezzogiorno e verso le tre, e fece altrettanto. Uscito ancora verso le cinque, ne vide altri che se ne stavano lì e disse loro: “Perché ve ne state qui tutto il giorno senza far niente?”. Gli risposero: “Perché nessuno ci ha presi a giornata”. Ed egli disse loro: “Andate anche voi nella vigna”.

Quando fu sera, il padrone della vigna disse al suo fattore: “Chiama i lavoratori e dai loro la paga, incominciando dagli ultimi fino ai primi”. Venuti quelli delle cinque del pomeriggio, ricevettero ciascuno un denaro. Quando arrivarono i primi, pensarono che avrebbero ricevuto di più. Ma anch’essi ricevettero ciascuno un denaro. Nel ritirarlo, però, mormoravano contro il padrone dicendo: “Questi ultimi hanno lavorato un’ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo”.

Ma il padrone, rispondendo a uno di loro, disse: “Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse concordato con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene. Ma io voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te: non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?”. Così gli ultimi saranno primi e i primi, ultimi».

 

 

 

In altre parole…

 

Un aspetto abbastanza sorprendente dei nostri giorni è il fatto che il desiderio di spiritualità porti altrove rispetto alla Parola di Dio comunque proclamata e allo stesso vangelo, troppo standardizzato su buonismo, moralismo, solidarismo e umanitarismo. Tutto quello che avviene nelle nostre liturgie come ritualità è sempre meno esperienza viva di rapporto con Dio: è atto cultuale ma non spiritualità. Della spiritualità evangelica se ne è fatto una riserva per addetti o per specialisti e non invece una fonte di vita per il Popolo di Dio, come sensibilità, come mentalità, come testimonianza. Diciamo che stiamo al nostro posto, attenti e passivi!

 

Ecco allora il profeta Isaia a ricordarci che il nostro dinamismo spirituale è ricerca e vicinanza allo stesso tempo, non solo l’una o solo l’altra. Del resto ci verrà detto che il “Regno di Dio è vicino”, ma che insieme è necessario cercarlo al di sopra di tutto. E questo comporta “conversione” dell’empio e dell’iniquo, che deve abbandonare le sue vie e i suoi pensieri per tornare al Signore, che si fa trovare con la sua misericordia e il suo perdono. Avendo sempre presente che le sue vie non sono le nostre vie e i suoi pensieri non sono i nostri pensieri: che le distanze rimangono, e se da una parte non c’è da lasciarsi incapsulare in una bolla di misticismo spersonalizzante, dall’altra è da evitare ogni facile banalizzazione della grazia di Dio a buon mercato!

 

Siamo sospesi tra due ordini di realtà e non possiamo non viverne la tensione, in un appiattimento di piani. Abbiamo visto che quando Gesù rimprovera Pietro è perché non la pensa come Dio ma come gli uomini (cfr Mt 16,23). Ci dice chiaramente che il suo regno non è di questo mondo, e agli scribi e farisei che gli presentano la donna peccatrice dichiara: “Voi siete di questo mondo, io non sono di questo mondo” (Gv 8,23). E quando noi, come suoi discepoli, ci ripetiamo di essere nel mondo ma non del mondo, bisognerebbe anche chiedersi dove questo appare e se gli altri possono rendersene conto: basta fare della chiesa un mondo religioso a sé, speculare al mondo di tutti? E se da una parte c’è una mondanizzazione del Regno di Dio, dall’altra non manca una spiritualizzazione dell’umana esperienza.

 

Volendo avere un criterio di risposta potremmo prendere le parole con cui Matteo chiude il capitolo 19 per introdurci in qualche modo alla parabola di questa domenica: “Ma molti primi saranno ultimi e molti ultimi saranno primi”. Senza escludere e discriminare nessuno, la comunità dei discepoli non può non essere “quella degli ultimi” come soggetto distinto dal mondo ma solidale col mondo di tutti, secondo quanto ci viene poi detto in Luca 22,25-26: “I re delle nazioni le governano, e coloro che hanno il potere su di esse si fanno chiamare benefattori. Per voi però non sia così; ma chi è il più grande tra voi diventi come il più piccolo e chi governa come colui che serve”. Diventare piccoli: è quanto il Maestro ci dimostra lavando i piedi ai discepoli e dicendo ad essi di fare altrettanto in memoria di lui! Non basta quindi la retorica degli “ultimi” o dichiararsi per gli ultimi, se non cominciamo a considerarci seriamente nella nostra reale condizione di fede come quei “piccoli” a cui viene rivelato il regno dei cieli. In una rinnovata dialettica tra i pensieri e le vie di Dio e le nostre posizioni.

 

E così. dopo aver sentito che “il regno dei cieli è simile a un re che volle fare i conti con i suoi servi” (Mt 18,23), ora ci viene detto che “il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all’alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna”. La carica simbolica della vigna ci è rappresentata dal vivo da Van Gogh, un simbolo che  rimane sempre eloquente, al punto di sentir dire in Giovanni 15,1: “Io sono la vera vite e il Padre mio è il vignaiolo”. In questa vigna siamo chiamati all’opera anche noi, in tempi diversi e a condizioni variabili: ci sono quelli con i quali c’è l’accordo per un denaro al giorno, i disoccupati, ai quali viene assicurato quello che è giusto; e ci sono poi altri che stavano lì oziosi perché nessuno li aveva presi a giornata, ma anche loro sono mandati nella vigna ad ora tarda, senza alcun impegno di compenso.

 

Fin qui, niente da dire sul modo di agire del padrone della vigna, che la vuole gestire al meglio e a vantaggio di tutti. La questione nasce quando tutto questo – che è poi la giustizia del regno – viene  misurato dalla nostra giustizia. Nella retribuzione non ci sono torti per nessuno, e ciascuno riceve il dovuto, ma non basta. Invece di guardare a se stessi, si guarda agli altri, e naturalmente si vuole stare al primo posto: quello che disturba è il fatto che gli altri siano trattati come noi, con la stessa misura di generosità, quando da parte nostra ci sembra di avere diritto, merito, precedenza, mentre per gli altri sarebbe tutta eccessiva gratuità indebita. Come se essere chiamati alla prima ora,  e ricevere poi quanto pattuito, non sia già grazia ma qualcosa di dovuto e di guadagnato.

 

La risposta del padrone della vigna evidenzia la sua bontà e libertà di azione, ma al tempo stesso denuncia il vizio di fondo di una giustizia intesa a proprio uso e consumo: è l’invidia, ciò per cui “la morte è entrata nel mondo” (Sap 2,24) fin dalle origini. Lo dimostra anche la parabola del figliol prodigo, in cui l’impeccabile fratello maggiore non gradisce il trattamento riservato al minore indegno, là dove dovrebbe avvenire il vero cambiamento d’ottica e arrivare a godere del bene altrui come del proprio, senza riserve ed esclusivismi! Da notare che la paga ai lavoratori viene data “incominciando dagli ultimi fino ai primi” e ci viene ripetuto ancora una volta: “Così gli ultimi saranno primi e i primi, ultimi”. È solo uno slogan ad effetto?

 

Il segreto per riuscire in questa sovrumana impresa di farsi “ultimi” – ma tutto è possibile a Dio! – ce lo rivela ancora una volta san Paolo con la sua vita prima che con la sua parola: ci fa capire con quale spirito e disinteresse, e con quanta disponibilità lavorare nella vigna, lui che è tra quelli dell’ultima ora. Così ad esempio in 1Corinzi 9,18: “Quale è dunque la mia ricompensa? Quella di predicare gratuitamente il vangelo senza usare del diritto conferitomi dal vangelo”. Quanto gli sta a cuore è che Cristo sia glorificato nel suo corpo, in vita o in morte, perché per lui “vivere è Cristo e il morire un guadagno”. Non sa lui stesso cosa meglio desiderare per se stesso, salvo far pendere la bilancia a favore di coloro per i quali è chiamato a “predicare gratuitamente il vangelo”.

 

Sappiamo che si tratta degli ultimi o degli esclusi rispetto ai figli e fratelli della promessa, l’Israele di Dio: delle genti, delle nazioni, dei popoli pagani. E sappiamo come nel conflitto che ne è nato nella chiesa delle origini si è risolta questa storia. Ma quando egli ci dice di “comportarci in modo degno del vangelo di Cristo”, richiama anche noi alla necessità di adottare il suo stile e a tenere presente la predicazione del vangelo come metro di misura di tutti i nostri comportamenti. Egli si presenta come “l'infimo degli apostoli, non degno neppure di essere chiamato apostolo” (1Cor 15,9), pronto a farsi servo di tutti, Giudeo con i Giudei, come uno che è sotto la legge, ma con “con coloro che non hanno legge come uno che è senza legge” (cfr 1Cor 9,20-23). Si può chiedere di più?

 

Sono certamente esempi e indicazioni di cosa voglia dire essere ultimi a servizio del vangelo. Ma a parte testimonianze scritturistiche e modelli storici ricorrenti, all’atto pratico, con chi e per chi farsi ed essere ultimi per quanto ci riguarda? Con chi in sostanza solidarizzare volendo fare “tutto per il vangelo, al fine di esserne partecipi insieme ad altri” (1Cor 9,23)? Buttiamo lì qualche indizio: ci sono tra di noi sempre più tanti non battezzati, che non sembrano fare e farsi problema; ci sono credenti non praticanti espatriati, che di fatto non trovano spazio in assetti di chiesa standardizzati; ci sono persone semplici tra i praticanti, che forse dovrebbero uscire dallo stato di sudditanza e di passività, per mettere la loro fede sopra il candelabro; ci sono poi i primi o i protagonisti che occupano tutta la scena e che forse hanno a noia che il vangelo sia annunziato a  parità di condizioni anche a quelli dell’ultima ora.

 

Ma quali sono i nostri pensieri e le nostre vie – i nostri strumenti – per rispondere alle chiamate di ogni ora? E dove sono operatori liberi e disponibili a tale compito al di fuori delle strutture precostituite?  Perché sembra che nella vigna del Signore conti solo l’opera di quanti sono canonicamente assunti dalla prima ora, mentre ci viene detto che anche gli ultimi hanno qualcosa da dire e da dare! A quando un rovesciamento di valori più che di posizioni? (ABS)


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