27 settembre 2020 - XXVI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO A)

Andrey Mironov (n. 1975): Parabola dei due figli

 

PRIMA LETTURA (Ezechiele 18,25-28)

Così dice il Signore:
«Voi dite: “Non è retto il modo di agire del Signore”. Ascolta dunque, casa d’Israele: Non è retta la mia condotta o piuttosto non è retta la vostra?
Se il giusto si allontana dalla giustizia e commette il male e a causa di questo muore, egli muore appunto per il male che ha commesso.
E se il malvagio si converte dalla sua malvagità che ha commesso e compie ciò che è retto e giusto, egli fa vivere se stesso. Ha riflettuto, si è allontanato da tutte le colpe commesse: egli certo vivrà e non morirà».

SALMO RESPONSORIALE (Salmo 24)


Rit. Ricòrdati, Signore, della tua misericordia.

Fammi conoscere, Signore, le tue vie,
insegnami i tuoi sentieri.
Guidami nella tua fedeltà e istruiscimi,
perché sei tu il Dio della mia salvezza;
io spero in te tutto il giorno.

Ricòrdati, Signore, della tua misericordia
e del tuo amore, che è da sempre.
I peccati della mia giovinezza
e le mie ribellioni, non li ricordare:
ricòrdati di me nella tua misericordia,
per la tua bontà, Signore.

Buono e retto è il Signore,
indica ai peccatori la via giusta;
guida i poveri secondo giustizia,
insegna ai poveri la sua via.

SECONDA LETTURA (Filippesi 2,1-11)

Fratelli, se c’è qualche consolazione in Cristo, se c’è qualche conforto, frutto della carità, se c’è qualche comunione di spirito, se ci sono sentimenti di amore e di compassione, rendete piena la mia gioia con un medesimo sentire e con la stessa carità, rimanendo unanimi e concordi.
Non fate nulla per rivalità o vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso. Ciascuno non cerchi l’interesse proprio, ma anche quello degli altri.
Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù:
egli, pur essendo nella condizione di Dio,
non ritenne un privilegio
l’essere come Dio,
ma svuotò se stesso
assumendo una condizione di servo,
diventando simile agli uomini.
Dall’aspetto riconosciuto come uomo,
umiliò se stesso
facendosi obbediente fino alla morte
e a una morte di croce.
Per questo Dio lo esaltò
e gli donò il nome
che è al di sopra di ogni nome,
perché nel nome di Gesù
ogni ginocchio si pieghi
nei cieli, sulla terra e sotto terra,
e ogni lingua proclami:
«Gesù Cristo è Signore!»,
a gloria di Dio Padre.


VANGELO (Matteo 21,28-32)

In quel tempo, Gesù disse ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo: «Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli. Si rivolse al primo e disse: “Figlio, oggi va’ a lavorare nella vigna”. Ed egli rispose: “Non ne ho voglia”. Ma poi si pentì e vi andò. Si rivolse al secondo e disse lo stesso. Ed egli rispose: “Sì, signore”. Ma non vi andò. Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?». Risposero: «Il primo».
E Gesù disse loro: «In verità io vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio. Giovanni infatti venne a voi sulla via della giustizia, e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto. Voi, al contrario, avete visto queste cose, ma poi non vi siete nemmeno pentiti così da credergli».



In altre parole…

La Parola di Dio ci ricorda di continuo che noi ci muoviamo in pensieri e vie comunque diversi da quelli che essa indica, al punto che osiamo mettere in discussione il “modo di agire del Signore”, a nostro modo di vedere non retto. È quanto questa Parola ci contesta apertamente, in termini che dovrebbero risuonarci agli orecchi, per non lasciarsi andare ad accomodamenti di comodo o di pura plausibilità che la sviliscono: “Ascolta dunque, casa d’Israele: Non è retta la mia condotta o piuttosto non è retta la vostra?”. È chiaro che preferiamo non rispondere.

Ma questa “casa di Israele o di Giacobbe” che si ritrova a “lottare con Dio” siamo noi, l’intero Popolo di Dio messo alla prova nella storia:  ma sembra che questa lotta non rientri più nel nostro rapporto col Padre di nostro Signore Gesù Cristo, che è sempre il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, ma in versione paternalistica, provvidenzialista e assistenzialistica: un padre di comodo, accondiscendente, remissivo e deresponsabilizzante. Se ad esempio nella prima lettura si parla di giusti e di malvagi, il nostro pensiero va preferibilmente a quel Padre celeste “che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti” (Mt 5,45) e sembra che tutto possa finire qui, in un buonismo indiscriminato e a senso unico.

Di qui l’immagine di un Dio elargitore di ogni bene a fondo perduto, forse a bilanciare la visione di un Dio giudice e vendicatore che ha accompagnato generazioni di cristiani nei secoli. Di qui anche l’immagine di una chiesa benefattrice e “ospedale da campo” in soccorso dell’umanità. Tutto giusto, per carità, ma meno giusto è identificare Dio e qualificare una chiesa secondo una loro particolare espressione, fosse pure quella più rassicurante e gratificante. Infatti rimane valida la misura stabilita da Paolo in 1Corinti 13,3: “Se distribuissi tutti i miei beni per nutrire i poveri, se dessi il mio corpo a essere arso, e non avessi amore, non mi gioverebbe a niente”. Non c’è totale coincidenza tra le due sfere e lo scarto non può essere ignorato!

Dunque, non è in questione la condotta del Signore nei nostri confronti, ma piuttosto la nostra nei suoi. Dal suo punto di vista, diversamente dal nostro modo di vedere, non c’è niente di definitivo quanto alla vita e alla salvezza, né per il malvagio che può tornare a compiere ciò che è retto e giusto per far vivere se stesso, ma neanche per il giusto che può deflettere dalla sua giustizia per compiere il male e per questo morire! All’origine di questo cambiamento c’è il fatto di “riflettere” e non essere superficiali e approssimativi: di rientrare in se stessi – là dove il Padre vede nel segreto (cfr. Mt 6,6) – e non lasciarsi ingannare dagli allettamenti della vita.

È qui che si innesta la provocazione che Gesù rivolge ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo col discorso dei due figli. Costoro sono gli stessi che, nel vivo del conflitto crescente dopo l’ingresso a Gerusalemme - la cacciata dei venditori dal tempio, e la guarigione sempre nel tempio di ciechi e storpi – si avvicinano a lui per chiedergli con quale autorità facesse tutto questo. Dopo averli costretti al silenzio sul Battesimo di Giovanni, vuole sapere da loro quale dei due figli avesse compiuto la volontà del padre, quello che dicendo sì poi non va a lavorare nella vigna o l’altro che, rifiutandosi a parole, poi pentitosi di fatto ci va. La risposta è obbligata e non può mancare: a compiere la volontà del padre è “l’ultimo”, il minore, il ribelle.

È chiaro che Gesù inserisce questo racconto dei due figli/fratelli nel confronto polemico per portare in qualche modo i suoi interlocutori ad esprimersi appunto su Giovanni, se il suo messaggio venisse da Dio o dagli uomini. Ed anche se a questa domanda trabocchetto essi si guardano bene dal rispondere, non possono però esimersi, come abbiamo visto, dal pronunciarsi sul comportamento dei due figli. A Gesù basta dunque poco per invitarli a riconoscersi nel primo dei fratelli, in quanto il loro atteggiamento nei confronti di Giovanni era sì di adesione formale nelle apparenze, ma praticamente di rifiuto sostanziale, perché non l’hanno preso sul serio e non gli hanno creduto. Gli hanno creduto invece i pubblicani e le prostitute, che sembravano invece contrari o estranei alla via della giustizia predicata da Giovanni. Era un dato di fatto sotto i loro occhi, ma neanche questa costatazione li ha indotti a ricredersi per credere. E pertanto sono avvertiti che i pubblicani e le prostitute entrano prima di loro nel regno di Dio, sono ai primi posti. Un principio che non ha smesso di funzionare nella nostra storia.

Il loro atteggiamento e sentimento è come quello del fratello maggiore del prodigo che, secondo lui, “ha sperperato i beni del padre con le prostitute” (Lc 15,30), e che pertanto non può essere motivo di festa, ma di chiusura e di condanna. La “Parabola dei due figli” di Andrey Mironov, in effetti, lascia intravedere questa corrispondenza tra le due coppie di fratelli: c’è quello dell’ossequio e del servizio domestico che di fatto pensa a se stesso e ai propri meriti, e c’è quello ribelle del rifiuto che però sa riconoscere il Padre e compiere il suo volere, a dimostrazione che un cambiamento di vita e di rapporti, in un senso o nell’altro, è sempre possibile. Ed è ciò per cui Gesù si adopera e spende se stesso. Non esistono categorie fisse e chiuse di peccatori e di giusti, ma ci sono quanti il Padre rende giusti e riconcilia con sé in Cristo mediante la fede.

Non si tratta quindi qui di un insegnamento morale per singoli, ma del principio vitale della stessa comunità cristiana, qualcosa da riportare al centro dell’esistenza cristiana. Quando san Paolo precedentemente ci ha detto, in Filippesi 1,27, di vivere la nostra vita di comunità in modo degno del vangelo di Cristo, ci fa capire quale dovrebbe essere il quadro in cui far rientrare tutto il resto della vita della chiesa, ad evitare che avvenga il contrario, riducendo l’incorporazione in Cristo a semplice presupposto o accessorio dell’involucro istituzionale.

Ed ecco allora ancora Paolo a dirci come proprio da questo radicamento deve scaturire la comunione della comunità con tutti i suoi frutti. Egli può permettersi di chiedere alla comunità di Filippi di rendete piena la sua gioia “con un medesimo sentire e con la stessa carità, rimanendo unanimi e concordi”. Ma questo sentire non può essere diverso da quello che è stato di Cristo, così come tutto l’inno cristologico lascia intuire. Sono parole che non dovrebbero essere solo di contorno e accarezzare per un attimo i nostri orecchi, ma dovrebbero sostanziare il nostro essere chiesa nella storia: fare da perno e da cerniera tra la nostra esistenza cristiana e l’esempio che Cristo ci ha lasciato “perché ne seguiate le orme” (1Pt 2,21). (ABS)


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