21 agosto 2022 - XXI DOMENICA DEL
TEMPO ORDINARIO (ANNO C)
Pieter Paul Rubens: Il grande Giudizio Finale (1614-1617)
Monaco di Baviera, Alte Pinakothek
PRIMA
LETTURA (Isaia
66,18-21)
Così dice il Signore:
«Io verrò a radunare tutte le genti e tutte le lingue; essi verranno e vedranno la mia gloria.
Io porrò in essi un segno e manderò i loro superstiti alle popolazioni di Tarsis, Put, Lud, Mesec, Ros, Tubal e Iavan, alle isole lontane che non hanno udito parlare di me e non hanno visto la mia gloria; essi annunceranno la mia gloria alle genti.
Ricondurranno tutti i vostri fratelli da tutte le genti come offerta al Signore, su cavalli, su carri, su portantine, su muli, su dromedari, al mio santo monte di Gerusalemme - dice il Signore -, come i figli d’Israele portano l’offerta in vasi puri nel tempio del Signore.
Anche tra loro mi prenderò sacerdoti levìti, dice il Signore».
SALMO RESPONSORIALE (Salmo 116)
Rit. Tutti i popoli vedranno la gloria del Signore.
Genti
tutte,
lodate il Signore,
popoli tutti, cantate la sua lode.
Perché forte è il suo amore per noi
e la fedeltà del Signore dura per sempre.
SECONDA
LETTURA (Ebrei 12,5-7.11-13)
Fratelli,
avete
già dimenticato l’esortazione a voi rivolta come a figli:
«Figlio mio, non disprezzare la correzione del Signore
e non ti perdere d’animo quando sei ripreso da lui;
perché il Signore corregge colui che egli ama
e percuote chiunque riconosce come figlio».
È
per la vostra correzione che voi soffrite! Dio vi tratta come
figli; e qual è il figlio che non viene corretto dal padre?
Certo, sul momento, ogni correzione non sembra causa di gioia,
ma di tristezza; dopo, però, arreca un frutto di pace e di
giustizia a quelli che per suo mezzo sono stati addestrati.
Perciò, rinfrancate le mani inerti e le ginocchia fiacche e
camminate diritti con i vostri piedi, perché il piede che
zoppica non abbia a storpiarsi, ma piuttosto a guarire.
VANGELO
(Luca
13,22-30)
In quel tempo, Gesù passava insegnando per città e villaggi, mentre era in cammino verso Gerusalemme.
Un tale gli chiese: «Signore, sono pochi quelli che si salvano?».
Disse loro: «Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, io vi dico, cercheranno di entrare, ma non ci riusciranno.
Quando
il
padrone di casa si alzerà e chiuderà la porta, voi, rimasti
fuori, comincerete a bussare alla porta, dicendo: “Signore,
aprici!”. Ma egli vi risponderà: “Non so di dove siete”. Allora
comincerete a dire: “Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza e
tu hai insegnato nelle nostre piazze”. Ma egli vi dichiarerà:
“Voi, non so di dove siete. Allontanatevi da me, voi tutti
operatori di ingiustizia!”.
Là ci sarà pianto e stridore di denti, quando vedrete Abramo,
Isacco e Giacobbe e tutti i profeti nel regno di Dio, voi invece
cacciati fuori.
Verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno e siederanno a mensa nel regno di Dio. Ed ecco, vi sono ultimi che saranno primi, e vi sono primi che saranno ultimi».
In altre parole
Quelle della prima lettura sono le parole con cui il profeta Isaia chiude il suo libro, con la visione di “Colui che viene” a radunare tutte le genti di tutte le lingue: un evento finale che non si misura col tempo e con lo spazio, ma è il riflesso di quanto è presente nella profondità dell’esistenza perché diventi sempre più “presenza” e luce. Questo qualcosa che è misura ultima di tutte le cose altro non è che la gloria di Dio, lo splendore, la manifestazione, la rivelazione del “Dio della gloria” (At 7,2). Ciò che dà il senso più vero ad una esistenza cristiana: “Il Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il Padre della gloria, vi dia uno spirito di sapienza e di rivelazione per una più profonda conoscenza di lui” (Ef 1,17). Tutta la storia della salvezza è imperniata su questo mistero della gloria, parola chiave in tutta la Scrittura e nei testi liturgici, purtroppo senza più il suo giusto peso. E questo perché, se la gloria di Dio è per natura abbinata alla pace in terra - “Gloria a Dio nell’alto dei cieli e pace in terra agli uomini” -, di fatto dobbiamo registrare una scissione tra queste due facce della stessa medaglia e un vuoto incolmabile tra queste due sfere!
L’immagine di Rubens può essere vista come ascesa ed elevazione alla gloria di corpi martoriati di una umanità perduta, e alcune parole della lettera ai Romani ne sono quasi una descrizione: “Dio, volendo manifestare la sua ira e far conoscere la sua potenza, ha sopportato con grande pazienza vasi di collera, già pronti per la perdizione, e questo per far conoscere la ricchezza della sua gloria verso vasi di misericordia, da lui predisposti alla gloria” (Rm 9,22-23). Questi “vasi” di collera e di misericordia siamo noi, pronti per la perdizione ma alla fine predisposti alla gloria!
Tornando ad Isaia, il punto focale della sua visione escatologica è appunto la gloria, che alcuni vedranno e per questo saranno mandati “alle isole lontane che non hanno udito parlare di me e non hanno visto la mia gloria; essi annunceranno la mia gloria alle genti”. Se vogliamo capire il senso profondo di quella che noi chiamiamo “evangelizzazione”, non ci sono parole più significative, che sono l’anima stessa della missione del Popolo di Dio o della Chiesa, luce delle genti. Questo mandato di ricondurre e radunare simbolicamente tutte le genti sul “santo monte di Gerusalemme” è una liturgia primaria di glorificazione: equivale ad una offerta al Signore, così come i figli di Israele portano l’offerta “in vasi puri nel tempio del Signore”. È questo il nuovo culto che dovrà dare sostanza al culto rituale: non è esagerato dire che abbiamo qui la ragion d’essere del Popolo di Dio nella storia, un Popolo che non vive per se stesso, delle proprie celebrazioni, dei propri riti e delle proprie solennità, ma per annunciare la gloria di Dio alle genti. Questa gloria non va mondanizzata e secolarizzata, ma neanche spiritualizzata e mistificata.
La prospettiva di Isaia è quella della salvezza universale: se egli ci presenta a grandi linee la comunicazione di Dio con il suo Popolo, è in Gesù che questo disegno di salvezza si concretizza, quando “passava insegnando per città e villaggi” mentre era in cammino significativamente verso Gerusalemme: come dire che il suo insegnamento preludeva a quanto sarebbe accaduto in Gerusalemme, perché tutti potessero comprenderlo. Qualcuno evidentemente aveva ascoltato le sue parole, e si pone il problema se la salvezza da lui annunciata fosse per tutti o fosse riservata solo a pochi.
La domanda è posta in termini quantitativi, ma la risposta torna sulla natura e sulle condizioni della salvezza: non smentisce l’universalità del disegno del Padre, ma ci mette davanti al rischio di rimanerne esclusi anche a non volerlo e contro le nostre stesse attese. Mentre c’è da impegnarsi a fondo per imboccare la porta stretta del “credere al vangelo”, sono molti a tentare di farlo, ma non tutti ci riescono. Tutto dipende da come questo vangelo si prende, se nel suo valore di grazia e di verità o nei suoi mille significati religiosi, ecclesiali, morali, umani, sociali di aggiustamento e di strumentalizzazione ai nostri disegni di salvezza. È qui che avviene la frattura tra “gloria di Dio” e “pace in terra”. Non è fuori luogo ricordare che questa porta stretta in ultima analisi è lo stesso uomo-Cristo-Gesù: “Allora Gesù disse loro di nuovo: “In verità, in verità vi dico: io sono la porta delle pecore” (Gv 10,7). In gioco c’è un giusto rapporto con lui per quello che è per se stesso prima che per noi e per il nostro culto.
Arriva infatti il momento in cui il padrone si alza per chiudere la porta, e noi che abbiamo sempre confidato in una salvezza quasi dovuta e di facile accesso cominciamo a bussare alla porta e ad avanzare i nostri titoli per farci aprire e superare ogni rifiuto. Non ci sembra possibile che quel padrone ci dica “non so di dove siete”, quando possiamo replicare di aver mangiato e bevuto in sua presenza e di averlo sentito parlare nelle nostre piazze. Ma ciò non ci risparmia l’allontanamento, perché forse abbiamo cercato di dare una patina di perbenismo e di religiosità alle nostre ingiustizie nei rapporti personali e sociali: alla nostra carenza di amore!
Difficile dire se ci siano passi del vangelo di tale durezza e chiarezza. Sta di fatto che nel rincrescimento più forte saremo costretti a vedere “Abramo, Isacco e Giacobbe e tutti i profeti nel regno di Dio” e noi cacciati fuori. Per capire quale sia la posta in gioco, possiamo rivedere la scena del ricco epulone e del povero Lazzaro sotto lo sguardo di Abramo: cosa è che impedisce la salvezza! Ma rimane vero quanto già Isaia ci diceva, e cioè che a mensa del Regno di Dio sederanno quanti vengono da tutte le provenienze, e quelli che si ritenevano destinati ai primi posti si ritroveranno invece ultimi, come del resto insegna la parabola degli invitati a nozze (cfr. Lc 14,9-10).
Diciamo tranquillamente che tutto questo non è automaticamente a nostra condanna, ma a nostra esortazione e correzione, certamente da non disprezzare, perché viene dal Signore, da un Dio che ci tratta come figli. Non sarebbe male se nel nostro linguaggio e nella nostra prassi reintroducessimo la categoria e la pratica della “correzione”, che sul momento “non sembra causa di gioia, ma di tristezza; dopo, però, arreca un frutto di pace e di giustizia a quelli che per suo mezzo sono stati addestrati”. Questa correzione, prima che a parole, avviene attraverso gli eventi della vita, che ci portano a raddrizzare i nostri sentieri e a ritrovare coraggio, per camminare diritti con i nostri piedi. E se nel nostro incedere siamo zoppicanti, dobbiamo stare attenti a non storpiarci del tutto, ma piuttosto guarire. Ma viene anche da chiedersi se la liturgia della Parola e le nostre considerazioni abbiano una ricaduta nella nostra vita, sapendo che “l’uomo vivente è la gloria di Dio”! (ABS)