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settembre 2023 - XXIV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO
(ANNO A)
Domenico Fetti: Parabola del servo malvagio (1620)
Dresda, Gemäldegalerie Alte Meister
PRIMA LETTURA (Siracide 27,33-28,9)
Rancore e ira sono cose
orribili,
e il peccatore le porta dentro.
Chi si vendica subirà la vendetta del Signore,
il quale tiene sempre presenti i suoi peccati.
Perdona l’offesa al tuo prossimo
e per la tua preghiera ti saranno rimessi i peccati.
Un uomo che resta in collera verso un altro uomo,
come può chiedere la guarigione al Signore?
Lui che non ha misericordia per l’uomo suo simile,
come può supplicare per i propri peccati?
Se lui, che è soltanto carne, conserva rancore,
come può ottenere il perdono di Dio?
Chi espierà per i suoi peccati?
Ricòrdati della fine e smetti di odiare,
della dissoluzione e della morte e resta fedele ai comandamenti.
Ricorda i precetti e non odiare il prossimo,
l’alleanza dell’Altissimo e dimentica gli errori altrui.
SALMO
RESPONSORIALE (Salmo 102)
Rit. Il Signore è buono e grande nell’amore.
Benedici il Signore, anima mia,
quanto è in me benedica il suo santo nome.
Benedici il Signore, anima mia,
non dimenticare tutti i suoi benefici.
Egli perdona tutte le tue colpe,
guarisce tutte le tue infermità,
salva dalla fossa la tua vita,
ti circonda di bontà e misericordia.
Non è in lite per sempre,
non rimane adirato in eterno.
Non ci tratta secondo i nostri peccati
e non ci ripaga secondo le nostre colpe.
Perché quanto il cielo è alto sulla terra,
così la sua misericordia è potente su quelli che lo temono;
quanto dista l’oriente dall’occidente,
così egli allontana da noi le nostre colpe.
SECONDA
LETTURA (Romani 14,7-9)
Fratelli, nessuno di noi vive per se stesso e nessuno muore per se
stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il Signore, se noi
moriamo, moriamo per il Signore.
Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo del Signore.
Per questo infatti Cristo è morto ed è ritornato alla vita: per
essere il Signore dei morti e dei vivi.
VANGELO (Matteo 18,21-35)
In quel tempo, Pietro si avvicinò a Gesù e gli disse: «Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?». E Gesù gli rispose: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette.
Per questo, il regno dei cieli è simile a un re che volle regolare i conti con i suoi servi. Aveva cominciato a regolare i conti, quando gli fu presentato un tale che gli doveva diecimila talenti. Poiché costui non era in grado di restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, i figli e quanto possedeva, e così saldasse il debito. Allora il servo, prostrato a terra, lo supplicava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa”. Il padrone ebbe compassione di quel servo, lo lasciò andare e gli condonò il debito.
Appena uscito, quel servo trovò uno dei suoi compagni, che gli doveva cento denari. Lo prese per il collo e lo soffocava, dicendo: “Restituisci quello che devi!”. Il suo compagno, prostrato a terra, lo pregava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò”. Ma egli non volle, andò e lo fece gettare in prigione, fino a che non avesse pagato il debito.
Visto quello che accadeva, i suoi compagni furono molto dispiaciuti e andarono a riferire al loro padrone tutto l’accaduto. Allora il padrone fece chiamare quell’uomo e gli disse: “Servo malvagio, io ti ho condonato tutto quel debito perché tu mi hai pregato. Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?”. Sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non avesse restituito tutto il dovuto.
Così anche il Padre mio celeste farà con voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello».
In altre parole…
Rancore, ira, risentimento, vendetta, odio: sono sentimenti non belli che ripudiamo, credendo perciò che non siano nostri. Ma la Scrittura ci avverte che il peccatore se li porta dentro, e magari ne fa motivo di forza e di giustizia, sentendosi così giustificato. Sta di fatto però che, nonostante tutte le idealità con cui fasciamo questo nostro mondo, sono questi sentimenti più o meno larvati a dominare la scena di un’umanità frantumata. Ma anche in questo caso, non è questione di modi di sentire e di agire individuali, quanto piuttosto di un male oscuro e insidioso di cui liberarci.
E lo possiamo fare non solo con la riprovazione o dissociandosi da comportamenti sociali insani, ma cercando una purificazione interiore e di relaziona nel proprio modo di stare al mondo: mettersi così in condizioni di poter chiedere la guarigione al Signore, perché chi “non ha misericordia per l’uomo suo simile, come può supplicare per i propri peccati?”. Siamo riportati alle parole del “Padre nostro”: volontà e invocazione di perdono sono come coordinate inscindibili. In effetti, se avessimo da noi stessi la capacità radicale di perdono, questo ci farebbe assomigliare a Dio; se invece – come è più probabile – ci affidiamo al perdono di Dio, è proprio di lì che ci viene la capacità di vincere tutti i risentimenti e trovare la via della pace.
Il punto di forza per questa liberazione è sì il pensiero della fine e della morte, così come la fedeltà ai comandamenti e al precetto dell’amore al prossimo, ma soprattutto è il ricordo dell’alleanza dell’Altissimo a farci dimenticare gli errori altrui e a darci la generosità necessaria per riguadagnare il fratello: a dare vita ad un ordine diverso di realtà e diventare “imitatori di Dio, quali figli carissimi” (Ef 5,1). Ma se oltre che dell’ira dell’uomo, noi parliamo anche dell’ira di Dio, non basta differenziare, secondo la vulgata, le immagini dell’Antico e del Nuovo testamento: di fatto di un Dio adirato se ne parla di continuo fino all’Apocalisse, per cui non ha senso contrapporre il Dio dell’ira e quello della misericordia, anche perché nella Scrittura stessa c’è questa compresenza di immagini. Isaia 12,1: “Tu dirai in quel giorno: Ti ringrazio, Signore; tu eri in collera con me, ma la tua collera si è calmata e tu mi hai consolato”.
Ma forse basta limitarsi al passo del vangelo odierno e considerare la dura invettiva che il padrone della parabola rivolge a quel servo malvagio che ha avuto in Domenico Fetti il suo illustratore: “Servo malvagio, io ti ho condonato tutto quel debito perché tu mi hai pregato. Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te? Sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non avesse restituito tutto il dovuto”. Quante volte poi nelle parabole si sente dire che ci sarà pianto e stridore di denti? L’immagine di un Dio buonista potrebbe essere un gioco psicologico alla stessa maniera in cui per altre ragioni lo è l’immagine di un Dio spietato. In un certo senso, tutto dipende da come ci rapportiamo e ci rispecchiamo noi in lui!
Come pensare che un Dio arrivi a dare sfogo a tutta la sua ira contro quanti del resto non sono minimamente sfiorati da questa sua violenza, per rimanere chiusi nella propria indifferenza e durezza di cuore? E poi, è proprio sicuro che un messaggio improntato tutto a misericordia faccia breccia sulla durezza dei cuori, se non c’è al fondo un sano timore di Dio? E quale padre, davanti a tanta intrattabilità dei suoi figli, resterebbe impassibile dimostrando solo sentimenti di benevolenza? Non possiamo dimenticare queste parole di Gesù: “A chi dunque paragonerò gli uomini di questa generazione, a chi sono simili? Sono simili a quei bambini che stando in piazza gridano gli uni agli altri: Vi abbiamo suonato il flauto e non avete ballato; vi abbiamo cantato un lamento e non avete pianto!” (Lc 7, 31-32).
Si arriverebbe a dire che l’ira di Dio è espressione della sua passione e del suo sforzo per vincere le resistenze dell’uomo, è il segno della sua impotenza e resa nei confronti di chi è sordo alla sua voce: è il pianto di Gesù su Gerusalemme! Se l‘ira, prima di ogni connotazione morale e psicologica, è quella passione che si sviluppa davanti ad ostacoli da superare, l’ira di Dio diventa il segno di un Dio che si arrende, ma che fa sentire il suo lamento per la sorte di quanti si sottraggono alla sua salvezza, magari senza sapere quello che fanno. Quasi per assurdo, l’ira di Dio è l’espressione ultima dalla sua misericordia!
La risposta che Gesù dà a Pietro in un certo senso ci fa capire che la domanda è un non-senso, soprattutto dopo che egli aveva insegnato a chiedere perdono come il pane quotidiano. Sì, la misericordia in principio e in maniera incondizionata, perché è essa stessa che alla fine diventa giudizio e rammarico: “Il giudizio sarà senza misericordia contro chi non avrà usato misericordia; la misericordia invece ha sempre la meglio nel giudizio” (Gc 2,13). La misericordia non può che essere senza misura, ma essa trova i suoi limiti proprio in chi ne è destinatario, i buoni e i malvagi, i giusti e gli ingiusti (cfr. Mt 5,45), e proprio qui è il mistero o il dramma. E quando succede che chi la riceve in abbondanza dall’alto poi la nega orizzontalmente al proprio simile anche in misura minima, di fatto la rinnega e si condanna da sé: è quando si strumentalizza il nome di Dio!
Nessuna condanna arbitraria o d’autorità, ma solo doverosa e dolorosa ratifica di situazioni date, anche se non consapevoli, come si può vedere nel giudizio finale in Matteo 25. Ed allora succede che se non facciamo nostro il modo agire di Dio, sarà lui a dover adottare il nostro modo di fare: “Così anche il Padre mio celeste farà con voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello”. Quindi tutto si gioca nella nostra esistenza quotidiana: se facciamo spazio o meno all’agire di Dio in noi, così come Gesù ha fatto ed insegnato.
Si tratta sempre di creare o ricreare una solidarietà di fondo che ci costituisce in unità prima ancora di esserne interpreti: siamo tirati fuori dall’isolamento e introdotti nella comunione “col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo” (1Gv 1,3), perché “sia che viviamo, sia che moriamo, siamo del Signore”. Se questo è strutturalmente lo stato delle cose, bisognerebbe che diventasse nostra condizione abituale e stile di comunicazione nel Popolo di Dio. “Essere in Cristo” deve ancora sviluppare tutte le sue potenzialità in noi, e a questo dovremmo principalmente dedicarci, sapendo che “Cristo è morto ed è ritornato alla vita, per essere il Signore dei morti e dei vivi”. È lui che ha ridato questa chance e ha ricreato questi spazi di esistenza nuova, che deve esprimersi non solo in senso caritativo ed umanitario, ma anche come modo di pensare e di stare al mondo con la libertà dei figli di Dio. (ABS)