4 settembre 2022 - XXIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO C)

 

Valentin de Boulogne: San Paolo scrive le sue epistole (1618-1620)

Houston (Texas), Museum of Fine Arts

 

 

PRIMA LETTURA ( Sapienza 9,13-18)


Quale, uomo può conoscere il volere di Dio?
Chi può immaginare che cosa vuole il Signore?
I ragionamenti dei mortali sono timidi
e incerte le nostre riflessioni,
perché un corpo corruttibile appesantisce l’anima
e la tenda d’argilla opprime una mente piena di preoccupazioni.
A stento immaginiamo le cose della terra,
scopriamo con fatica quelle a portata di mano;
ma chi ha investigato le cose del cielo?
Chi avrebbe conosciuto il tuo volere,
se tu non gli avessi dato la sapienza
e dall’alto non gli avessi inviato il tuo santo spirito?
Così vennero raddrizzati i sentieri di chi è sulla terra;
gli uomini furono istruiti in ciò che ti è gradito
e furono salvati per mezzo della sapienza».


SALMO RESPONSORIALE (Salmo 89)


Rit. Signore, sei stato per noi un rifugio di generazione in generazione.

 

Tu fai ritornare l’uomo in polvere,
quando dici: «Ritornate, figli dell’uomo».
Mille anni, ai tuoi occhi,
sono come il giorno di ieri che è passato,
come un turno di veglia nella notte.

Tu li sommergi:
sono come un sogno al mattino,
come l’erba che germoglia;
al mattino fiorisce e germoglia,
alla sera è falciata e secca.

Insegnaci a contare i nostri giorni
E acquisteremo un cuore saggio.
Ritorna, Signore: fino a quando?
Abbi pietà dei tuoi servi!

Saziaci al mattino con il tuo amore:
esulteremo e gioiremo per tutti i nostri giorni.
Sia su di noi la dolcezza del Signore, nostro Dio:
rendi salda per noi l’opera delle nostre mani,
l’opera delle nostre mani rendi salda.

 

 

SECONDA LETTURA (Filemone 1,9-10.12-17)

Carissimo, ti esorto, io, Paolo, così come sono, vecchio, e ora anche prigioniero di Cristo Gesù. Ti prego per Onèsimo, figlio mio, che ho generato nelle catene. Te lo rimando, lui che mi sta tanto a cuore.
Avrei voluto tenerlo con me perché mi assistesse al posto tuo, ora che sono in catene per il Vangelo. Ma non ho voluto fare nulla senza il tuo parere, perché il bene che fai non sia forzato, ma volontario.
Per questo forse è stato separato da te per un momento: perché tu lo riavessi per sempre; non più però come schiavo, ma molto più che schiavo, come fratello carissimo, in primo luogo per me, ma ancora più per te, sia come uomo sia come fratello nel Signore.

Se dunque tu mi consideri amico, accoglilo come me stesso.

 

 

VANGELO (Luca 14,25-33)

In quel tempo, una folla numerosa andava con Gesù. Egli si voltò e disse loro:

«Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo.

Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo.

Chi di voi, volendo costruire una torre, non siede prima a calcolare la spesa e a vedere se ha i mezzi per portarla a termine? Per evitare che, se getta le fondamenta e non è in grado di finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, dicendo: “Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro”.

Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? Se no, mentre l’altro è ancora lontano, gli manda dei messaggeri per chiedere pace.

Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo».

 

In altre parole

 

Le considerazioni del libro della Sapienza seguono la preghiera di Salomone che invoca il dono della sapienza con queste parole: “Perché mi assista e mi affianchi nella mia fatica e io sappia ciò che ti è gradito” (Sap 9,10). Infatti: “Quale uomo può conoscere il volere di Dio? Chi può immaginare che cosa vuole il Signore? I ragionamenti dei mortali sono timidi e incerte le nostre riflessioni”. Veniamo dal mondo delle “magnifiche sorti e progressive” e viviamo nel mondo della tecnologia, da cui l’uomo si lascia dominare pensando di essere lui a dominare. Ma tutto questo non impedisce agli interrogativi di sempre di riproporsi eternamente nel tempo. E se da una parte non c’è da sottrarvisi, magari ritenendoli privi di senso, dall’altra c’è la necessità di non ridurli a pura retorica, come se già conoscessimo il volere di Dio e i nostri ragionamenti e le nostre riflessioni non fossero esenti da timidezze e incertezze.  Come se la nostra non fosse una mente piena di preoccupazioni e di ombre. Se ci ritroviamo con tutta la nostra incapacità e fatica di comprendere anche le cose a portata di mano, quanto più impegnerebbero le cose del cielo!

 

È strano come ci rendiamo conto della nostra incapacità di compiere il bene, ma al tempo stesso presumiamo o ci illudiamo di aver compreso la verità e di poter decidere di essa con tanta sicurezza! Potremmo ricordare il rimprovero di Gesù a Nicodemo: “Se vi ho parlato di cose della terra e non credete, come crederete se vi parlerò di cose del cielo?” (Gv 3,12). Forse un po’ più di umiltà e di desiderio riguardo alla conoscenza delle cose del cielo non sarebbe fuori luogo, sapendo che abbiamo estremo bisogno di una sapienza che viene dall’alto. E rendendoci conto che “così vennero raddrizzati i sentieri di chi è sulla terra; gli uomini furono istruiti in ciò che ti è gradito e furono salvati per mezzo della sapienza”. Non ci mancano sentieri da raddrizzare e vie da scegliere per la salvezza, ma preferiamo affidarci a soluzioni tecniche ed immediate, non mettendo minimamente in conto che solo la sapienza che viene dall’alto ci può salvare. Quando si dice che “la bellezza salverà il mondo” sarebbe puro estetismo se non la si intendesse come espressione di sapienza.

 

Del resto è a questo unico scopo che Gesù continua ad essere in mezzo a noi: per narrarci il Padre e farcelo conoscere nel suo volere verso di noi e nella sua giusta luce. Noi siamo quella folla numerosa che va dietro a lui con questo desiderio di salvezza. Ma è ancora a noi che egli si rivolge con molta franchezza per farci capire ancora una volta che è lui in ultima analisi quella porta stretta da imboccare di cui ci ha già parlato. Ed allora eccolo di nuovo a dirci senza mezzi termini: “Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo”.

 

C’è poco da disquisire, ma solo da prendere atto e stringerci a lui come pietra viva, sapendo che siamo come tralci nella vite e che senza di lui non possiamo far nulla (cfr. Gv 15,5). E sapendo che il nostro attaccamento non è solo per un imperativo morale, per ragioni di devozione o di culto, ma per dedizione di amore, nel senso in cui dell’amore ci parla Paolo in 1Cor 13, e cioè come coinvolgimento e immedesimazione totale di vita: un amore che “non gode dell'ingiustizia, ma si compiace della verità”, quella verità che libera e salva. Quando diciamo che Cristo è via e vita, sappiamo in qualche modo cosa voglia dire. Ma che senso ha per noi che egli si presenti anche come “verità”, e quindi come significativo indistintamente per il mondo e per la storia e non solo per chi crede in lui?

 

Se una evangelizzazione non nascesse da qui, sarebbe solo proselitismo, adescamento, conquista alla propria causa e non liberazione: tutto allora potrebbe andare alla perfezione per noi stessi quanto ad appartenenza religiosa e confessionale, ma non si decollerebbe mai quanto a luce del mondo! Questo vuol dire che nei confronti di Gesù tutto è sempre da vedere, e che amarlo perfino più della propria vita è la condizione per diventare suoi discepoli. Si può essere suoi seguaci per mille ragioni, ma quanto ad essere suoi discepoli è possibile solo se si porta la propria croce  e si sta dietro a lui per quello che egli è, non per come lo possiamo vedere noi. Questo vuol dire in sostanza mettere da parte tutti i propri beni e le proprie sicurezze per stargli dietro senza altre preoccupazioni se non le sue per la salvezza di tutti e di ciascuno. Questa condizione radicale è posta per tutti, anche se storicamente alcuni ne hanno fatto una “chiamata” a parte, creando forme di vita e istituzioni apposite che spesso sono la controfigura di una vita evangelica e la riproduzione di istituzioni umane!

 

Davanti a questa necessità di lasciare tutto e tutti, fino a “perdere” la propria vita, bisogna stare attenti a non contentarsi delle mezze misure, perché “nessuno che ha messo mano all'aratro e poi si volge indietro, è adatto per il regno di Dio” (Lc 9,62).  Forse è una radicalità che non riusciamo a vivere fino in fondo, ma questo non vuol dire adattarla alle nostre misure e rinunciare a pensarla per quello che è, lasciando scadere tutto. Sì, si tratta di edificare una torre, una casa o una comunità, di ricostituire la stessa famiglia umana, e quindi c’è da calcolare se ce la sentiamo di intraprendere e portare in fondo l’opera. Si tratta anche di sostenere una lotta non facile, nella quale bisogna misurare le proprie forze, e nella incertezza di potercela fare si richiede la saggezza di venire a patti con l’avversario, perché ci sia pace. Radicali sì, intransigenti e ostinati no, purché domini la passione giusta di raggiungere l’obiettivo da non mancare: diventare discepoli e fare discepoli!

 

San Paolo che scrive le sue epistole è l’icona vivente di questa passione di comunicare il suo vangelo alle genti. E la lettera più breve scritta di suo pugno, quella a Filemone,  è in tal senso la più densa di verità: è un concentrato esemplificativo di cosa significhi diventare discepoli, fare discepoli, vivere uniti come discepoli. Non ci sono qui dottrine da apprendere o da difendere, ma c’è uno spaccato di chiesa in atto che bisognerebbe tenere presente come stile di esistenza nella diaspora: Filemone è a Colossi, lo schiavo fuggitivo Onesimo raggiunge Roma e non si sa come si ritrova presso Paolo che è lì in carcere, dove dice di averlo generato come figlio nelle catene per il vangelo. E se da una parte convince Onesimo a tornare da Filemone di cui era schiavo, dall’altra esorta questo padrone ad accoglierlo di nuovo, ma in maniera diversa.

 

Apparentemente tutto sembra tornare come prima, quasi un riconoscimento della schiavitù. Ma tutto in realtà cambia dall’interno, in un coinvolgimento di fede che trasforma i rapporti umani in una fraternità inedita e dà nuova luce ai momenti e ai tempi della vita: “Per questo forse è stato separato da te per un momento: perché tu lo riavessi per sempre; non più però come schiavo, ma molto più che schiavo, come fratello carissimo, in primo luogo per me, ma ancora più per te, sia come uomo sia come fratello nel Signore. Se dunque tu mi consideri amico, accoglilo come me stesso”.

 

Se questo è il modo di vivere come discepoli in diaspora, c’è per noi un messaggio preciso da cogliere da quanto questa lettera trasmette: e cioè la possibilità di creare spazi reali di comunione e di fraternità anche a distanza e nelle condizioni umane più impensate. Siamo autorizzati a pensare che anche questo nostro modo di comunicare non è da finalizzare a qualcosa di formalmente riconosciuto, ma è già in atto la possibilità di vivere insieme la fede che ci fa vivere. (ABS)


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