4
luglio 2021 - XIV
DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO B)
Michelangelo Buonarroti: Il Profeta Ezechiele (1511 circa)
Città del Vaticano, Cappella Sistina
PRIMA LETTURA (Ezechiele
2,2-5)
In quei giorni, uno spirito entrò in me, mi fece alzare in piedi e io ascoltai colui che mi parlava.
Mi disse: «Figlio dell’uomo, io ti mando ai figli d’Israele, a una razza di ribelli, che si sono rivoltati contro di me. Essi e i loro padri si sono sollevati contro di me fino ad oggi. Quelli ai quali ti mando sono figli testardi e dal cuore indurito. Tu dirai loro: “Dice il Signore Dio”. Ascoltino o non ascoltino - dal momento che sono una genìa di ribelli -, sapranno almeno che un profeta si trova in mezzo a loro».
SALMO RESPONSORIALE (Salmo 122)
Rit. I nostri occhi
sono rivolti al Signore.
A
te alzo i miei occhi,
a te che siedi nei cieli.
Ecco, come gli occhi dei servi
alla mano dei loro padroni.
Come gli occhi di una schiava
alla mano della sua padrona,
così i nostri occhi al Signore nostro Dio,
finché abbia pietà di noi.
Pietà di noi, Signore, pietà di noi,
siamo già troppo sazi di disprezzo,
troppo sazi noi siamo dello scherno dei gaudenti,
del disprezzo dei superbi.
SECONDA LETTURA (2Corinzi
12,7-10)
Fratelli, affinché io non monti in superbia, è stata data alla mia carne una spina, un inviato di Satana per percuotermi, perché io non monti in superbia.
A causa di questo per tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me. Ed egli mi ha detto: «Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza».
Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo.
Perciò mi compiaccio nelle mie debolezze, negli oltraggi, nelle difficoltà, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: infatti quando sono debole, è allora che sono forte.
VANGELO (Marco
6,1-6)
In quel tempo, Gesù venne nella sua patria e i suoi discepoli lo seguirono.
Giunto il sabato, si mise a insegnare nella sinagoga. E molti, ascoltando, rimanevano stupiti e dicevano: «Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi come quelli compiuti dalle sue mani? Non è costui il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle, non stanno qui da noi?». Ed era per loro motivo di scandalo.
Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua». E lì non poteva compiere nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi malati e li guarì. E si meravigliava della loro incredulità. Gesù percorreva i villaggi d’intorno, insegnando.
In altre parole…
Michelangelo ci presenta il profeta Ezechiele in tutto il suo vigore e il suo coraggio, mentre sembra rivolgersi ad un popolo sordo e ribelle. Ma la sua immagine induce a ripensare la figura stessa del profeta, troppo spesso integrata e addomesticata al sistema esistente. Si dimentica facilmente che un profeta è mandato ad un popolo da risvegliare e da riportare a consapevolezza e fedeltà. Il suo è un compito improbo, se in Luca 10,3 si sente dire: “Ecco, io vi mando come agnelli in mezzo ai lupi”. Soffriamo di un depotenziamento della profezia come voce di Dio al Popolo, e questo si riflette anche sul nostro modo di considerare la Parola di Dio: più come alimento del sentimento religioso, come guida spirituale o insegnamento morale, e non invece come “più affilata di qualunque spada a doppio taglio” (Eb 4,12). Qualcosa che spinge ad uscire da ogni status quo per superare noi stessi e trovare la giusta tensione che ci libera e ci libra verso le cose future, che sono in gestazione nel presente.
Quel futuro verso il quale noi pensiamo di poter andare con i nostri tempi e i nostri calcoli, mentre è necessario che uno spirito ci entri dentro, ci faccia alzare e ci dia il coraggio di indirizzare al popolo questo avvertimento: “Dice il Signore Dio. Ascoltino o non ascoltino - dal momento che sono una genìa di ribelli -, sapranno almeno che un profeta si trova in mezzo a loro”. Un richiamo significativo per il profeta prima ancora che per quanti lo dovrebbero ascoltare, perché è sempre un rapporto difficile. Per la verità, noi non facciamo altro che edificare sepolcri a tanti profeti per farsi grandi di loro e magari dispensarsi da quanto essi hanno dovuto patire a causa della Parola di Dio viva ed efficace. Non si può pensare di farsi seguaci di profeti se non si porta la loro stessa croce. Essi non trovano ascolto nel loro presente, ma non sono graditi neanche a quanti si aspettano rosei futuri. Essi soffrono dentro il travaglio di un futuro tutto da partorire: sono i testimoni della differenza irriducibile della Parola di Dio, che rende estranei anche a quelli della propria casa. Essi denunciano proprio ogni forma di contraffazione della Parola di Dio e per questo vanno incontro ad ogni forma di persecuzione.
È la storia quotidiana di Gesù, che deve districarsi tra opposizioni, dissensi, intolleranze, insofferenze: basterebbe rileggere Luca 4,16-28, quando si presenta nella sinagoga di Nazaret, e i suoi concittadini lo cacciano fuori; e perfino il vero israelita Natanaele si permette di chiedersi: “Può forse venir qualcosa di buono da Nazaret?” (Gv 1,46). È un po’ lo stesso interrogativo degli abitanti di Nazaret riportato da Marco, che probabilmente narra lo stesso episodio di Luca. Sono domande abbastanza articolate, che certamente riferiscono gli umori della gente, ma al tempo stesso documentano quali fossero le perplessità, i dubbi che inducevano a gridare allo scandalo e al rifiuto.
Egli sta insegnando nella sinagoga e non possono certamente obiettare su quello che dice, che però non rientra nei loro schemi mentali e trovano ogni pretesto per non dare ascolto e per disfarsi di lui: il fatto che non fosse istruito; il fatto che operasse prodigi altrove ma non nella sua patria; il fatto di sapere di lui vita morte e miracoli e di che famiglia fosse. Tutto insomma deponeva a suo sfavore agli occhi di gente abituata ad aspettarsi la manifestazione della Parola di Dio in maniera altisonante o magniloquente. Non era possibile che uno qualsiasi di loro dicesse o insegnasse le cose di Dio, non poteva essere credibile. A meravigliarsi a questo punto è lo stesso Gesù, ma della loro incredulità, o meglio di una fede fondata sul meraviglioso e sul miracoloso, che per lui era mancanza di fede che gli impediva di compiere qualunque prodigio, salvo guarire qualche malato per sua autonoma iniziativa.
Non sono solo episodi più o meno edificanti, ma sono la prova di una esistenza profetica allo sbaraglio, nel senso di una precarietà e insicurezza totale, se Gesù arriva a dire: “Le volpi hanno delle tane e gli uccelli del cielo dei nidi, ma il Figlio dell'uomo non ha dove posare il capo” (Lc 9,58). Non solo insicurezza di luogo ma inaffidabilità umana. Perché allora pensare ad un Gesù tirato fuori dalla sua esistenza reale, dai suoi rapporti fortuiti, per farne icone religiose o storiche di superiorità inaccessibile? Sì, la sua superiorità è innegabile, ma risalta dentro l’assoluta aleatorietà del suo stare al mondo come semplice Figlio dell’uomo: un netto contrasto tra la fragilità umana e la forza dello Spirito, che si evidenzia nel Verbo fatto carne, venuto “ad abitare in mezzo a noi; e noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità” (Gv 1,14).
Prima di essere un dogma di fede e un articolo del Credo, il mistero della Incarnazione è la irradiazione e rivelazione progressiva e piena di Dio nelle fattezze e nelle debolezze umane di Gesù: “Dio nessuno l'ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato” (Gv 1,18). E se questo vale per Gesù nei confronti del Padre, è vero anche per Paolo nei confronti di Gesù, perché incarna e rivela in sé il rapporto della propria debolezza e della potenza di Cristo nell’esercizio del suo ministero apostolico, con parole così lapidarie: “Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo”.
Dopo aver osato vantarsi o fatto valere nei confronti degli Israeliti e dei ministri di Cristo che lo osteggiavano, ridimensiona se stesso e riporta tutto nelle giuste dimensioni. Quando dice della spina nella carne o dell’inviato di Satana, quale che ne sia l’esatta interpretazione, è chiaro che si riferisce alle sue debolezze, sofferte negli oltraggi, nelle difficoltà, nelle persecuzioni, nelle angosce a causa di Cristo. Desidera e prega di essere liberato da questi intralci, ma viene rassicurato che non saranno questi ad impedire alla grazia di fare il suo corso, come Gesù non è stato impedito a compiere la sua missione dal calice che ha dovuto bere.
Viene da chiedersi quanto la chiesa accetti le sue debolezze per puntare tutto sulla grazia del Signore senza proprie dimostrazioni di potenza; e quanto nell’esercizio del suo ministero apostolico sappia far tesoro delle sue fragilità perché risalti la potenza di Cristo. Tutto questo come fatto strutturale e modo di essere nel mondo e non solo come intima spiritualità dei singoli. Come si spiega che tanta ricchezza interiore si risolva in se stessa come fatto interiore e non modifichi e modelli stili e prassi ecclesiali e di vita cristiana ispirati per lo più ad atteggiamenti di superbia, di superiorità, di grandezza, di dominio e di potenza? Dove è quella “Chiesa dei poveri” rilanciata dal Vaticano II?
Alcune parole di Giuseppe Barbaglio possono suggerire qualche risposta ai nostri interrogativi: “A Corinto gli oppositori di Paolo ritenevano che il messaggero dovesse garantire il messaggio evangelico con le sue esibizioni e ostentazioni di ‘personalità’ in vista. Ma egli ha rovesciato il rapporto: l’umile e dimesso messaggero dà risalto all’eccellenza del messaggio. Ancora una volta si deve far riferimento alla categoria di ‘servizio’ sottolineata in 2Cor: il servitore è a servizio del messaggio, non mette il messaggio a suo servizio. In questo senso possiamo rileggere 2Cor 4,5: ‘Non predichiamo noi stessi, bensì Gesù Cristo come Signore’” (1-2 Corinti, Queriniana 1989, p.137). (ABS)