5 febbraio 2023 - V DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO A)

 

Károly Ferenczy: Discorso della montagna (1896)

Budapest,  Galleria Nazionale Magiara

 

PRIMA LETTURA (Isaia 58,7-10)

Così dice il Signore:
«Non consiste forse [il digiuno che voglio]
nel dividere il pane con l’affamato,
nell’introdurre in casa i miseri, senza tetto,
nel vestire uno che vedi nudo,
senza trascurare i tuoi parenti?
Allora la tua luce sorgerà come l’aurora,
la tua ferita si rimarginerà presto.
Davanti a te camminerà la tua giustizia,
la gloria del Signore ti seguirà.
Allora invocherai e il Signore ti risponderà,
implorerai aiuto ed egli dirà: “Eccomi!”.
Se toglierai di mezzo a te l’oppressione,
il puntare il dito e il parlare empio,
se aprirai il tuo cuore all’affamato,
se sazierai l’afflitto di cuore,
allora brillerà fra le tenebre la tua luce,
la tua tenebra sarà come il meriggio».


SALMO RESPONSORIALE (Salmo 111)

Rit. Il giusto risplende come luce.

 

Spunta nelle tenebre, luce per gli uomini retti:
misericordioso, pietoso e giusto.
Felice l’uomo pietoso che dà in prestito,
amministra i suoi beni con giustizia.

Egli non vacillerà in eterno:
eterno sarà il ricordo del giusto.
Cattive notizie non avrà da temere,
saldo è il suo cuore, confida nel Signore.

Sicuro è il suo cuore, non teme,
egli dona largamente ai poveri,
la sua giustizia rimane per sempre,
la sua fronte s’innalza nella gloria.

 

 

SECONDA LETTURA (1Corinzi 2,1-5)

Io, fratelli, quando venni tra voi, non mi presentai ad annunciarvi il mistero di Dio con l’eccellenza della parola o della sapienza. Io ritenni infatti di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e Cristo crocifisso.

Mi presentai a voi nella debolezza e con molto timore e trepidazione. La mia parola e la mia predicazione non si basarono su discorsi persuasivi di sapienza, ma sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza, perché la vostra fede non fosse fondata sulla sapienza umana, ma sulla potenza di Dio.

 

VANGELO (Matteo 5,13-16)

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:

«Voi siete il sale della terra; ma se il sale perde il sapore, con che cosa lo si renderà salato? A null’altro serve che ad essere gettato via e calpestato dalla gente.

Voi siete la luce del mondo; non può restare nascosta una città che sta sopra un monte, né si accende una lampada per metterla sotto il moggio, ma sul candelabro, e così fa luce a tutti quelli che sono nella casa. Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli».



In altre parole…

 

Ascoltare e considerare insieme nel tempo quanto “lo Spirito dice alle chiese”, suscita sentimenti di solidarietà e comunione silenziosa tra di noi. Ma alla fine ci richiede di fare un passo avanti ed un salto di qualità in risposta ai tempi: ci spinge ad essere e volersi soggetto di interlocuzione e di attuazione della Parola di Dio come terreno buono in cui è seminata. Se poi tentiamo di identificarci in quanto soggetto unitario “di fede” - e quindi come comunità di credenti – il primo dato che ci qualifica come uditori della Parola è ”dono e chiamata”. Possiamo senz’altro dire di vivere una comunione che ci fa chiesa, anche se “invisibile” o priva di strutture canoniche di riconoscimento, pur essendo inquadrati nelle strutture esistenti. E se questa è per noi una base di partenza, è però anche un punto di arrivo, nel senso che a questo nucleo di fede  dovremmo riportarci nel nostro modo di essere e soprattutto nel nostro modo di proporci e di rapportarci ad extra, liberandoci da tutte le superfetazioni storiche e culturali significative solo ad intra. Si tratta in sostanza di diventare Popolo di Dio come dignità e come coscienza!

 

Questa premessa per dire che siamo quelli che si ritrovano intorno al Maestro (ci possiamo riconoscere nel dipinto di Károly Ferenczy!), per ascoltare il suo Discorso della montagna, che in qualche modo racchiude la Legge e i Profeti. Ma soprattutto siamo lì come base di partenza, per mettersi in cammino e in azione e dare così corpo a quanto egli ci trasmette. Perché non si tratta di dottrine morali e spirituali a cui attenersi, ma di Parole che sono spirito e vita, che producono in noi quanto significano. Siamo cioè abilitati ad essere il soggetto portante della Parola del Signore, in stato sinodale originario, anche se non formalmente “in Sinodo”. Ed eccoci allora chiamati a rispondere al desiderio del Signore, che ci chiede di fare agli altri quello che noi ci aspettiamo che lui faccia a noi: che ci dia il pane quotidiano, che ci accolga nella sua casa, che ci rivesta come i gigli del campo. Ci richiede di entrare nella sua ottica e di agire come egli fa con noi, se glielo consentiamo.

 

In questo modo non possiamo non riflettere la sua luce e la sua gloria, e mentre egli non ci fa mancare il suo aiuto e ci viene incontro, da parte nostra non possiamo non togliere di mezzo l’oppressione e il puntare il dito, e cioè vivere le Beatitudini, perché brilli fra le tenebre la nostra luce e la tenebra sia come il meriggio! Se ci mettiamo su questa strada, non c’è bisogno di “spiritualità” accessorie e attrattive, e quando abbiamo fatto quanto ci è dato e richiesto non ci rimane che dichiararci servi ancora disponibili, perché la sua Parola si compia in noi prima che compierla noi. Di conseguenza, quel Gesù che da semplici pescatori ci ha fatto pescatori di uomini, ora ci promuove ad essere il sale della terra: a dare senso, significato e sapore  alla vita degli uomini. Siamo però anche avvertiti, perché se paradossalmente il sale non insaporisse più,  sarebbe inutile  e verrebbe disprezzato dalla gente.

 

È lo stesso richiamo fatto con la metafora della luce: sì, siamo chiamati ad essere la luce del mondo. Ma se così è la luce non può rimanere nascosta e non la si può tenere al di fuori del mondo che deve esserne illuminato. Il sale e la luce, per loro natura, esistono  in funzione d’altro e acquistano valore solo attraverso ciò a cui danno rilievo. Un vangelo separato dal mondo è destinato ad essere vanificato, mentre deve apparire per quello che è solo in quanto fa risplendere la vita con la vittoria sulla morte. E questo non diversamente da come si rivela in noi e nel nostro agire. Perché  attraverso ogni manifestazione di bene il mondo sia indotto a rendere gloria al Padre che è nei cieli. Dovremmo essere laicamente rivelazione di Cristo come egli è rivelazione del Padre nella sua umanità.

 

Ci dice niente tutto questo per quella che siamo soliti chiamare “evangelizzazione”? Come intenderla e come operarla? Essa dovrebbe scaturire dalla nostra stessa esistenza di credenti, come “profumo di Cristo”! (cfr. 2Cor 2,14-15). Il fatto è che questa capacità è stata intesa come ruolo per pochi “specializzati”, e al popolo cristiano è riservato solo qualche sottoprodotto. La semplicità e il trasporto del credere è stato surrogato dal semplicismo sentimentale di devozione, che può soddisfare il proprio sentimento religioso, che può solo cooptare ma non trasmettere la verità della fede,  che quindi diventa insignificante.  È da evitare perciò l’introversione pietista che risolve tutto in se stessa senza vie di uscita, mentre è da coltivare un'esistenza di fede che è passione di verità e deve diventare cultura  di vita aperta  a quanti hanno fame e sete di giustizia.

 

Quando Gesù parla di sale della terra e di luce del mondo forse vuole farci capire qual è il suo modo di annunciare a tutti il vangelo del Regno con la sua stessa persona, ciò che sostanzia la sua predicazione prima e il suo insegnamento poi: non si tratta di attività specifica di ammaestramento o di moralizzazione, ma è partecipazione, condivisione, solidarietà, empatia, osmosi di “compassione” in senso evangelico. Quanto egli fa e insegna esprime prima di tutto la sua persona ed il suo modo di essere nel mondo; e se ci chiama è per associarci a lui nel servizio del suo vangelo prima che per ogni altro ministero. Il primato della Parola non può essere solo di valore quanto alla sua ricezione, ma deve diventare effettivo come annuncio, cosa che non risulta nell’attuale assetto di chiesa.

 

Non è questione di affidarsi ad abbellimenti attrattivi e ad argomentazioni convincenti, ma di annunciare “il mistero di Dio”, coscienti “di non sapere altro… se non Gesù Cristo, e Cristo crocifisso”. Questa radicalità testimoniata da Paolo dovrebbe diventare la regola della nostra predicazione, non basata su discorsi persuasivi di sapienza umana,  “ma sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza”: quanto appunto si riscontra nella predicazione di Gesù e quanto dovrebbe scaturire per noi dalla conoscenza di lui. Tutto questo però non sembra essere il tratto dominante del nostro essere chiesa, ed allora si spiega come la fede dei “praticanti” sia all’acqua di rose, con una plausibilità sociale sempre più scarsa, priva della potenza di Dio. È qui il salto di qualità che dovremmo riuscire a fare come credenti, “perché appaia che questa potenza straordinaria viene da Dio e non da noi” (2Cor 4,7). Il sale perderebbe il suo sapore quando rendessimo vana la croce di Cristo, la fede in lui e la predicazione da cui questa fede dovrebbe nascere. (ABS)


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