17 maggio 2020 - VI DOMENICA DI PASQUA (ANNO A)

 

 

Giovanni Battista Barbieri detto il Guercino: San Pietro  (1648)

PRIMA LETTURA (Atti degli Apostoli 8,5-8.14-17)

In quei giorni, Filippo, sceso in una città della Samarìa, predicava loro il Cristo. E le folle, unanimi, prestavano attenzione alle parole di Filippo, sentendolo parlare e vedendo i segni che egli compiva. Infatti da molti indemoniati uscivano spiriti impuri, emettendo alte grida, e molti paralitici e storpi furono guariti. E vi fu grande gioia in quella città.

Frattanto gli apostoli, a Gerusalemme, seppero che la Samarìa aveva accolto la parola di Dio e inviarono a loro Pietro e Giovanni. Essi scesero e pregarono per loro perché ricevessero lo Spirito Santo; non era infatti ancora disceso sopra nessuno di loro, ma erano stati soltanto battezzati nel nome del Signore Gesù. Allora imponevano loro le mani e quelli ricevevano lo Spirito Santo.

 

 

SALMO RESPONSORIALE (Salmo 65)


Rit. Acclamate Dio, voi tutti della terra.

 

Acclamate Dio, voi tutti della terra,
cantate la gloria del suo nome,
dategli gloria con la lode.
Dite a Dio: «Terribili sono le tue opere!

A te si prostri tutta la terra,
a te canti inni, canti al tuo nome».
Venite e vedete le opere di Dio,
terribile nel suo agire sugli uomini.

Egli cambiò il mare in terraferma;
passarono a piedi il fiume:
per questo in lui esultiamo di gioia.
Con la sua forza domina in eterno.

Venite, ascoltate, voi tutti che temete Dio,
e narrerò quanto per me ha fatto.
Sia benedetto Dio,
che non ha respinto la mia preghiera,
non mi ha negato la sua misericordia.

 

 

SECONDA LETTURA (1 Pietro 3,15-18)

Carissimi, adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi.

Tuttavia questo sia fatto con dolcezza e rispetto, con una retta coscienza, perché, nel momento stesso in cui si parla male di voi, rimangano svergognati quelli che malignano sulla vostra buona condotta in Cristo.

Se questa infatti è la volontà di Dio, è meglio soffrire operando il bene che facendo il male, perché anche Cristo è morto una volta per sempre per i peccati, giusto per gli ingiusti, per ricondurvi a Dio; messo a morte nel corpo, ma reso vivo nello spirito.

 

 

VANGELO (Giovanni 14,15-21)

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Se mi amate, osserverete i miei comandamenti; e io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre, lo Spirito della verità, che il mondo non può ricevere perché non lo vede e non lo conosce. Voi lo conoscete perché egli rimane presso di voi e sarà in voi.

Non vi lascerò orfani: verrò da voi. Ancora un poco e il mondo non mi vedrà più; voi invece mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete. In quel giorno voi saprete che io sono nel Padre mio e voi in me e io in voi.

Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama. Chi ama me sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui».

 

 

In altre parole…

 

Osservando il cammino della prima comunità cristiana ai suoi primi passi, non dobbiamo affidarci al miracolismo, quasi che tutto fosse prestabilito e irripetibile: ogni minima informazione è invece emblematica della vita della chiesa nel tempo. Filippo, di cui ci parlano gli Atti, è uno dei sette uomini degni di reputazione proposti ed eletti per occuparsi delle mense, e così venire a capo del dissidio tra membri della comunità di diversa provenienza, giudei ed ellenisti. Ma non è detto che si trattasse della sola gestione dei pasti, quanto piuttosto di orientamenti diversi.

 

Già Stefano infatti, uno dei sette, disputava con quelli della Sinagoga, “ma non riuscivano a resistere alla sapienza ispirata con cui egli parlava” (At 6,10), tant’è che lo lapidarono. Anche a causa della persecuzione verso gli ellenisti, Filippo è il primo ad uscire dalla cerchia di Gerusalemme, dove restano gli Apostoli, per recarsi in una città della Samarìa, dove “predicava loro il Cristo”. Questo fatto per noi è quasi  scontato e non ci dice più nulla, ma riportiamoci a quel momento di forti tensioni e riscopriamo il dramma di scelte obbligate e di decisioni creative: si trattava semplicemente di “predicare Gesù”, che però trovava folle attente alle parole di quello sconosciuto. Diciamo che Cristo non fa più notizia, mentre sembra farla Maometto!

 

Per noi “predicare Gesù” è quanto di più scontato e sbiadito ci possa essere, e i prodigi che dovrebbero scaturirne – quelli che accompagnavano la predicazione di Filippo - hanno trovato altri interpreti e altri luoghi fuori dal mondo normale, in santuari o guaritori che spesso poco o nulla hanno a che fare col vangelo di Cristo! Teniamo ben presente che il segno che si trattava di buona notizia per il popolo non è stata la corsa su questo o su quel monte (qualche Garizim!), ma il fatto che “vi fu grande gioia in quella città”, perché sappiamo che fin dalle origini c’è l’annuncio di una grande gioia che “sarà di tutto il popolo” (Lc 2,10). Sarà ancora possibile che il vangelo sia vangelo, annuncio e motivo di gioia?

 

Il fatto che “le folle, unanimi, prestavano attenzione alle parole di Filippo” fa notizia, tanto che arriva a Gerusalemme, dove sorprende e mobilita gli stessi apostoli che non restano indifferenti, perché è veramente qualcosa di nuovo. Pietro e Giovanni corrono a sincerarsi dell’accaduto e sono pronti a sostenere l’iniziativa di Filippo, non facendo altro che assecondare l’opera dello Spirito. Era questo il loro compito di Pastori come continuatori dell’azione del primo Paraclito, il Cristo Risorto: “confermare” i credenti col “sigillo e la caparra dello Spirito Santo impressi nei loro cuori” (2Cor 1,22), favorire e comunicare l’azione di Dio in loro. Possiamo ancora sentire Paolo in 2Cor 1,24: “Noi non intendiamo far da padroni sulla vostra fede; siamo invece i collaboratori della vostra gioia, perché nella fede voi siete già saldi”.

 

La loro azione non è altro che compimento della promessa e della consegna di Gesù. Come abbiamo visto, nel “Discorso del cenacolo” o di addio, egli aveva detto: “Chi crede in me, compirà le opere che io compio e ne farà di più grandi, perché io vado al Padre”. Quello che opera a Samaria Filippo sta a dimostrarlo: “predicare il Cristo” è farlo agire insieme a noi, creare le condizioni perché si realizzi la sua richiesta al Padre di donare lo Spirito Santo come nuovo Paraclito, che rinnovi la sua presenza e completi la sua opera: c’è come un passaggio di consegne grazie al fatto che egli torna al Padre, evento decisivo di salvezza: credendo in lui siamo introdotti anche noi nel seno del Padre; si apre una nuova via di comunicazione, “questa via nuova e vivente che egli ha inaugurato per noi attraverso il velo, cioè la sua carne” (Eb 10,20).

 

Questa polarità verso il Padre si stabilisce dunque attraverso l’amore di Gesù, amore che è fede in lui vissuta in maniera totale e incondizionata: quando si parla di fede si può anche dire che è di tutti, in quanto indica in generale il movimento verso Dio o verso il Cristo a senso unico (“Credete in Dio, credete anche in me”); se si parla di amore non può non esserci reciprocità inter-personale, e non può non esserci osservanza della Parola ricevuta: in fedeltà al suo insegnamento e al suo mandato, a ciò che ci affida con i suoi comandamenti.

 

Amare Gesù attira su di noi lo Spirito del Padre così come era disceso su di lui, qualcosa che “il mondo non può ricevere perché non lo vede e non lo conosce”, qualcosa cioè che non rientra nella nostra condizione naturale. E questo ci fa gravitare nel raggio di irradiazione che si crea tra il Figlio e il Padre, mentre non può non esporci al soffio del loro Spirito. Tanto da sentirsi dire: ““Perché io vivo e voi vivrete“, lui che è “il primogenito di coloro che risuscitano dai morti” (Col 1,18). Ma che ne è in pratica di tutto questo flusso di vita?  

 

In linea teorica e nel nostro immaginario religioso noi ammettiamo tranquillamente questa comunione col Padre, col Figlio e con lo Spirito Santo, e ce lo sentiamo ripetere di continuo nelle formule liturgiche; ma di fatto essa per noi non è qualcosa di reale: forse la riteniamo riservata ad alcuni mistici ma lontana da noi. C’è da dire anche che siamo assuefatti a parlare di “presenza reale” del Cristo solo in riferimento al “santissimo sacramento dell’altare”, una presenza tutta concentrata nel segno e nel mezzo, dimenticando però che la sostanza – la  res – risiede nel Corpo di Cristo che siamo noi, che è la chiesa. Siamo così portati ad esteriorizzare e materializzare questa presenza, invece di metabolizzarla e personalizzarla come pienezza di grazia e di verità.

 

Sembra contare poco che lo Spirito di verità rimanga con noi e che Gesù ci dica: “In quel giorno voi saprete che io sono nel Padre mio e voi in me e io in voi”, perché non vuole lasciarci orfani. Non dico come sentimento individuale, ma come sensibilità ecclesiale sembra tutto una bella favola che ci raccontiamo in momenti particolari (vedi la cresima), per poi lasciar cadere tutto! Senoché, continuando il suo discorso, dopo poco Gesù torna a ripeterci: “Chi ama me sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui”. Si potrebbe essere più chiari e più concreti, per introdurci in questo mistero di comunione? Eppure noi restiamo a guardare, come se la cosa non ci interessasse o fosse legata a momenti celebrativi particolari!

 

C’è senz’altro una correzione da fare nella mentalità e nella prassi di vita cristiana per passare dal prevalente culto dei simboli e dei riti alla loro verità, “la gloriosa ricchezza di questo mistero in mezzo ai pagani, cioè Cristo in voi, speranza della gloria” (Col 1,27). Certamente simbolo e verità, figura e realtà sono aspetti speculari di cui uno non esclude l’altro, come è nel Verbo di Dio fatto carne. Ma ci sono a volte accentuazioni eccessive da una parte o dall’altra che creano squilibri. Mi domando, ad esempio, con tutta franchezza: tanta devozione per “Gesù eucaristico” davvero è amore per il “Cristo totale” della fede e dei vangeli, tale da renderci capaci di testimoniarlo in quanto Popolo di Dio al mondo?  Non succede a volte di sequestrarlo dentro una particolare spiritualità tutta intimista che lo rende inaccettabile ai più?

 

L’immagine del Guercino di un Pietro che guarda in alto e si porta la mano al cuore (“Pietro mi ami tu?”) non fa che anticipare visivamente le parole che egli ci dice nella sua lettera: “Carissimi, adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi”. L’amore di Cristo nasce dal cuore, ma spinge a “comportarsi come lui si è comportato” (1Gv 2,6) “con dolcezza e rispetto, con una retta coscienza”, soffrendo pur operando il bene, “giusto per gli ingiusti”, e questo “per ricondurci a Dio; messo a morte nel corpo, ma reso vivo nello spirito”.

 

È questa la sequela pasquale da vivere prima di ogni altro atteggiamento e comportamento religioso gratificante e dimostrativo. Forse, se fosse stata questa coscienza pasquale a dominare in questo travagliato periodo, ci saremmo risparmiati smarrimenti, conflitti, prese di posizione e polemiche fuori luogo; e ci saremmo dedicati di più ad adorare il Signore, Cristo, nei nostri cuori, per darne testimonianza anche in tempo di digiuno eucaristico. Non possiamo dimenticare infatti che l’uomo vive di ogni Parola che esce dalla bocca di Dio! (ABS)


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