27 febbraio 2022 - VIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO C)

            Pieter Bruegel il Vecchio:  La Parabola dei ciechi (1568)

Napoli, Museo nazionale di Capodimonte

 

 

PRIMA LETTURA (Siracide 27,5-8)

Quando si scuote un setaccio restano i rifiuti;
così quando un uomo discute, ne appaiono i difetti.
I vasi del ceramista li mette a prova la fornace,
così il modo di ragionare è il banco di prova per un uomo.
Il frutto dimostra come è coltivato l’albero,
così la parola rivela i pensieri del cuore.
Non lodare nessuno prima che abbia parlato,
poiché questa è la prova degli uomini.


SALMO RESPONSORIALE (Salmo 91)


Rit. È bello rendere grazie al Signore.

 

È bello rendere grazie al Signore
e cantare al tuo nome, o Altissimo,
annunciare al mattino il tuo amore,
la tua fedeltà lungo la notte.

Il giusto fiorirà come palma,
crescerà come cedro del Libano;
piantati nella casa del Signore,
fioriranno negli atri del nostro Dio.

Nella vecchiaia daranno ancora frutti,
saranno verdi e rigogliosi,
per annunciare quanto è retto il Signore,
mia roccia: in lui non c’è malvagità.

 

SECONDA LETTURA (1Corinzi 15,54-58)

Fratelli, quando questo corpo corruttibile si sarà vestito d’incorruttibilità e questo corpo mortale d’immortalità, si compirà la parola della Scrittura:
«La morte è stata inghiottita nella vittoria.
Dov’è, o morte, la tua vittoria?
Dov’è, o morte, il tuo pungiglione?».
Il pungiglione della morte è il peccato e la forza del peccato è la Legge. Siano rese grazie a Dio, che ci dà la vittoria per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo!
Perciò, fratelli miei carissimi, rimanete saldi e irremovibili, progredendo sempre più nell’opera del Signore, sapendo che la vostra fatica non è vana nel Signore.


VANGELO (Luca 6,39-45)

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli una parabola:

«Può forse un cieco guidare un altro cieco? Non cadranno tutti e due in un fosso? Un discepolo non è più del maestro; ma ognuno, che sia ben preparato, sarà come il suo maestro.

Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello e non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio? Come puoi dire al tuo fratello: “Fratello, lascia che tolga la pagliuzza che è nel tuo occhio”, mentre tu stesso non vedi la trave che è nel tuo occhio? Ipocrita! Togli prima la trave dal tuo occhio e allora ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello.

Non vi è albero buono che produca un frutto cattivo, né vi è d’altronde albero cattivo che produca un frutto buono. Ogni albero infatti si riconosce dal suo frutto: non si raccolgono fichi dagli spini, né si vendemmia uva da un rovo. L’uomo buono dal buon tesoro del suo cuore trae fuori il bene; l’uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae fuori il male: la sua bocca infatti esprime ciò che dal cuore sovrabbonda».

 

In altre parole…

 

Quando si ascolta o si predica la Parola di Dio non è da escludere che si verifichi un inconveniente: che il punto più rilevante delle letture attiri tutta l’attenzione e diventi unico motivo di approfondimento. Può succedere così nel caso del cieco che guida un altro cieco, scena in primo piano sapientemente illustrata da Pieter Bruegel il Vecchio: per dirci che non bisogna presumere di fare da guida e da maestri agli altri, ma occorre impegnarsi a farsi condiscepoli. Ognuno è chiamato a ben disporsi e prepararsi, lasciandosi guidare interiormente dall’unico maestro: “E non fatevi chiamare "maestri", perché uno solo è il vostro Maestro, il Cristo” (Mt 23,10 cfr )… ”e voi siete tutti fratelli” (Mt 23,8).

 

Quanto ci sarebbe da interrogarsi sulle nostre pretese di farla da maestri, di dettar legge, di ostentare certezze, di sentirsi assolutamente sicuri di sé, ecc…, mentre si manca della necessaria umiltà, docilità e desiderio di verità, ricordando che la carità autentica “non si rallegra dell'ingiustizia, ma congioisce della verità” (1Cor 13,6). Forse abbiamo perso il gusto di condividere la verità, che è quanto di più necessario ci possa essere come base di comunione: “Vivendo secondo la verità nella carità, cerchiamo di crescere in ogni cosa verso di lui, che è il capo, Cristo” (Ef 4,15).

 

Anche qui è da chiedersi quanto una dimensione di verità strutturi la nostra fede, ridotta a sentimento religioso, a spiritualismo, ad intimismo, a devozionismo, a ritualismo, ma carente della sua reale forza interiore: “In verità vi dico: chi dicesse a questo monte: Lèvati e gettati nel mare, senza dubitare in cuor suo ma credendo che quanto dice avverrà, ciò gli sarà accordato” (Mc 11,23). È qui la vera sfida prima di tutto a noi stessi: la luce della fede!

 

E allora potremmo leggere la parabola del cieco che vuole fare da guida ai ciechi come forte richiamo a ritrovare la fonte della luce interiore – là dove abita la verità – che ci può rendere luce del mondo. Anche le nostre opere buone devono irradiare questa luce, e non basta che siano prova di sola buona volontà: “Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al vostro Padre che è nei cieli” (Mt 5,16). Purtroppo siamo vittime di un facile dogmatismo di comodo, che lascia credere di conoscere tutto della fede, e magari di insegnarla sulla base del classico catechismo categorico, o con forme di comunicazione a carattere psico-sociologico di facile consumo. Ci poniamo il problema della trasmissione della fede in termini tecnici, ma non ci chiediamo se sia una fede viva e diffusiva.

 

Se questo può essere il punto focale di riflessione per la liturgia della Parola, tutto il resto aiuta a riportarci alla radice stessa della comunicazione: quando nel discutere, nel modo di ragionare si rivelano i pensieri del cuore, così come il frutto dimostra la qualità dell’albero e il parlare è la prova degli uomini. C’è da star attenti non solo a non giudicare ma anche a non lodare qualcuno prima che abbia parlato. Si capisce allora il valore delle parole, che non andrebbero sprecate invano e che non vanno moltiplicate neanche per pregare: “Sia invece il vostro parlare sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno” (Mt 5,37).

 

Altra forte spinta verso questa fonte luminosa interiore, ad evitare di essere ipocriti, è il detto sulla pagliuzza e sulla trave: ci vuole uno sguardo libero e sgombro da ogni senso di superiorità e da pregiudizi che viziano alla radice i rapporti umani. Torna a proposito l’immagine dell’albero che deve essere sano e buono in se stesso per dare frutti buoni, e che non può ingannare nessuno sulla sua qualità. A parte dare o non dare frutti naturali buoni, ci viene detto anche di non aspettarsi fichi dagli spini e uva dai rovi, gentilezze e carezze da persone ruvide e scostanti: sapere cosa aspettarsi dagli altri.

 

Uscendo da ogni metafora, in gioco c’è il tesoro del cuore, buono o cattivo, da cui esce il bene o il male, che ha radici più profonde dei semplici comportamenti, corretti o meno che siano: ciò che conta nei rapporti umani è sentimento che emana dagli uni verso gli altri e che rende comunicativi prima ancora di esprimersi: “la bocca infatti esprime ciò che dal cuore sovrabbonda”. Tutto sta a vedere su quale asse ci muoviamo nel nostro sentire, nei nostri pensieri e nelle nostre parole: se la luce del cuore si riflette nel nostro agire, o se le nostre azioni cercano di coprire le ombre del nostro cuore.

Siamo richiamati a stare attenti a noi stessi: “Bada dunque che la luce che è in te non sia tenebra” (Lc 11,35). Si tratta in ultima analisi di lottare contro forze di accecamento e di morte, per alimentare invece la luce interiore accesa dal fuoco e dalla luce del Cristo risorto. Ciò che porta Paolo a parlare di incorruttibilità e di immortalità come compimento della parola della Scrittura e quasi a sfidare la morte. La nostra lotta allora è contro il pungiglione della morte, che è tenebra, ma anche per la liberazione dalla Legge, quando questa non fa più da pedagogo ma si frappone alla fede: “Così la legge è per noi come un pedagogo che ci ha condotto a Cristo, perché fossimo giustificati per la fede in Cristo” (Gal 3,24).

 

Viene da chiedersi se la spiritualità corrente nella nostra chiesa abbia questa struttura, al punto da poter esclamare insieme: “Siano rese grazie a Dio, che ci dà la vittoria per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo!”. E di poterci dire tra di noi di rimanere “saldi e irremovibili, progredendo sempre più nell’opera del Signore, sapendo che la (nostra) fatica non è vana nel Signore”. Auguriamocelo e preghiamo gli uni per gli altri. (ABS)


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