Koinonia Novembre 2023


Leggendo l’ultimo libro di Anna Marina Storoni Piazza

 

A proposito dell’aldilà

 

L’ultima soglia, origine del concetto di aldilà nella Grecia arcaica (Mimesis, Milano-Udine 2023) è la più recente, in ordine di tempo, tra le fatiche letterarie di Anna Marina Storoni Piazza, che si occupa da molti anni di approfondire momenti salienti del pensiero filosofico, delle istituzioni socio-politiche, delle testimonianze, che l’Ellade ci ha lasciato.

Il testo, di cui ci occupiamo ora, ha come tema dichiarato il concetto di aldilà nella Grecia arcaica, ma, leggendo le pagine che lo compongono, si ricava un quadro completo di tutti gli aspetti più peculiari della vita pubblica e, per alcuni aspetti, di quella privata del periodo arcaico: attraverso, infatti, il pensiero e le opere dei Maestri dell’Ellade, Omero ed Esiodo, entriamo nel mondo degli eroi dell’epopea troiana con il primo, e nella quotidianità della gente comune, piegata sotto il peso del lavoro dei campi, con il secondo.

L’autrice presenta, poi, il lento formarsi della coscienza di sé nei sec. VIII-VI a.C. istituendo una sorta di parallelo cronologico e geografico tra i lirici greci e le scuole sapienziali, che in quegli stessi luoghi si andavano formando e consolidando.

Ella non passa sotto silenzio neppure la genesi della πόλις con il suo corpus legislativo, la condizione della donna nella realtà urbana di Atene e Sparta, con riferimenti anche all’educazione dei figli e l’importanza sociale, politica e religiosa del mito con tutte le sue liturgie. Alla formazione di una così multiforme coscienza di sé contribuiscono anche le religioni delle civiltà limitrofe, in particolare egizia, iranica e indiana.

Questo viaggio nell’Ellade è costellato di testimonianze testuali e riferimenti storici, che lo rendono non certo un viaggio nell’immaginario mitico, bensì un percorso di formazione del lettore che, grazie al modo in cui vengono chiaramente evidenziati i passaggi salienti, può cogliere lo sviluppo spazio-temporale del pensiero greco e rendersi conto di quanto ancora oggi gli siamo debitori.

Il tema dell’aldilà desta indubbiamente interesse in moltissime persone o per curiosità, o, all’opposto, per scetticismo, o per una recondita speranza. Da pochi mesi anche noi, amiche di vecchia data dell’autrice, abbiamo pubblicato un testo sullo stesso argomento[1], centrato sulla struttura della persona umana, sulle testimonianze mistico-letterarie dei sec. XI-XIV, sulle Near Death Experiences e sulle possibilità interpretative del multiverso, che la fisica di ultima generazione sembra suggerire. In una conversazione con Marina Piazza abbiamo discusso di possibili punti di contatto tra i due libri: possibili, direi, perché le ottiche dalle quali l’oltre-vita viene preso in esame sono diverse. Marina punta, soprattutto, su una focalizzazione antropologica, Angela Ales su quella filosofica, scientifica e religiosa, Anna Sciacca sulla rappresentazione letteraria e mistica della vita oltre la morte: ottiche diverse, sì, ma utili tutte insieme a seguire come, attraverso il tempo e gli spazi geografici, l’uomo non abbia mai smesso di pensare a ciò che può esserci oltre la Soglia.

Tracciando un’ideale linea del tempo, su cui segnare come punto 0 il momento della diffusione del Cristianesimo, potremmo dire, in estrema sintesi, che prima di quel punto l’oltre non riguardava il morto, almeno nel mondo occidentale, mentre dopo il punto 0 il defunto diviene protagonista assoluto di un nuovo percorso. Vediamo il senso di quest’affermazione attraverso le pagine del libro di Marina Piazza.

Nella descrizione che Omero ci fornisce degli Inferi, superata la soglia e della vita e dell’Ade, non ci sono altro che ombre dimentiche di sé e dell’esistenza che hanno vissuto, sono vane parvenze, esangui: è interessante e calzante questo termine, in quanto, solo quando qualcuna di esse riesce a bere il sangue delle vittime offerte durante i Nequia, le cerimonie di commemorazione, allora ottiene il ricordo di sé, di chi è stato, di cosa ha fatto, ma solo per un breve torno di tempo, tanto che Achille, l’eroe che Ulisse incontra nella sua discesa agli Inferi, baratterebbe volentieri la fama acquisita in vita, pur di tornare alla luce del sole, magari come servo di un qualsiasi sconosciuto agricoltore, per godere ancora dei colori e del calore dell’esistenza.

Dunque, che ne è della “bella morte”, cui ambisce l’eroe, che si sacrifica gloriosamente per la patria?

A ben pensare, la “bella morte” riguarda i vivi, non i trapassati: la fama acquisita con nobili imprese concede il ricordo di chi non c’è più, ma ai vivi, non di certo ai simulacra che si aggirano vanamente nell’Ade. Per Omero, quindi, la riflessione sull’oltretomba è un incentivo per i viventi ad adottare un comportamento eroico: “A egregie cose il forte animo accendono l’urne dei forti…” ricordava Foscolo[2] nei Sepolcri, ma non porta alcun conforto al defunto.

Anche l’altro grande maestro dell’Ellade, Esiodo, il poeta agricoltore, come ce lo presenta l’autrice, tutto intriso di concretezza e realismo, definisce la morte annientamento totale. Rispetto ad Omero mi sembra che egli abbia fatto un passo ulteriore verso un tragico pessimismo. Sia nella Teogonia che nelle Opere e Giorni, i due testi presi in esame, tutto appare destinato all’annientamento: non solo il singolo uomo, che non è altro che un elemento dell’umanità, indistinto dagli innumerevoli altri, specie esistente al pari di animali e piante, ma tutto il cosmo, dei compresi. La progressiva degradazione, fino al trionfo del male, richiama alla mente il Ragnarök, il crepuscolo degli dei, come viene definito nell’antica mitologia nordica narrata nell’Edda Poetica. Per Esiodo avverrà al termine dell’età del ferro, quando trionferà la ύβρις, la tracotanza violenta, che vedrà la lotta di tutti contro tutti.

Non a caso gli uomini sono sottoposti, sempre secondo Esiodo, a due forme di contesa: quella che si combatte in battaglia e quella che ha luogo ogni giorno nel duro lavoro dei campi, ma, mentre il tempo della natura è ciclico, quello degli dei e degli uomini è lineare, e corre veloce verso l’annientamento, verso θάνατος. Nella Teogonia, che narra la genealogia degli dei, questa tremenda divinità sta a sinistra del limite di bronzo, fra le potenze negative generate da Caos e figlie di Erebo e Notte, che con le loro tenebre rappresentano il male assoluto. Le forze divine positive sono a destra del limite: sono parallele alle prime ed antagoniste, derivate tutte da Gaia, la Terra.

In questa genealogia duale, la morte si tiene fuori dalle vicende umane, è una potenza a se stante e non può essere combattuta, è ineliminabile e segna quel confine oltre il quale non c’è nulla.

Eppure, in tanta negatività anche Esiodo cerca di salvare qualcosa, “ciò che inferno non è”, per dirla con una famosa espressione di Italo Calvino nelle Città Invisibili: infatti, ci presenta l’Isola dei Beati, inaccessibile agli uomini comuni, ma destinata ad alcuni eroi benemeriti; immagina anche l’esistenza di divinità tutelari, che altro non sono se non uomini dell’età dell’oro e dell’argento, ritenuti degni di assurgere a tale rango. Si tratta solo di un vago accenno nel pensiero esiodeo, che l’autrice presenta come semplice auspicio senza possibilità di sviluppo, eppure, se è vero che beati e divinità tutelari non hanno la forza di scalfire il tragico destino del cosmo, per il fatto stesso di essere citati come possibilità esistenziali, potrebbero essere interpretati come una vaga έλπίς, una speranza: dal nostro punto di vista, “speranza” è da considerarsi un moto dello spirito positivo, ma Esiodo non è d’accordo. Infatti, nell’interpretazione del mito di Prometeo, έλπίς era contenuta nel vaso di Pandora insieme a tutti gli altri mali; quindi, essa era un male, perché, protesa in una passiva aspettativa del futuro, fa perdere all’uomo il “momento opportuno”, che è l’unico criterio di convenienza, cui l’uomo deve attenersi nel lavoro quotidiano.  έλπίς, dunque, è ambivalente: è l’illusione che permette di sopravvivere alle delusioni, per Foscolo è “l’illusion che, spento, pur lo sofferma al limitar di Dite”[3].

La soglia di Dite sarà oltrepassata, sì, ma perché toglierci la speranza di essere ricordati, di non morire del tutto nella mente dei propri cari? Seppure “anche la Speme, ultima dea, fugge i sepolcri”[4], perché privarsi di quell’illusione che ci permette di accettare titanicamente il nostro destino?

E Leopardi? “Quando sovviemmi di cotanta speme…. O natura, O natura, perché non rendi poi quel che prometti allor[5]?” Al contatto con la realtà tutte le speranze svaniscono, le ragioni del cuore si trasformano in delusioni per opera delle ragioni della mente: la natura quasi gode a far soffrire le sue creature, donando loro la ragione, che svela l’inganno della speme, eppure è nel ricordo di essa che l’uomo trova la forza di resistere al destino di morte ineluttabile.

Se torniamo alla nostra ideale linea del tempo, prima di oltrepassare il punto 0, oltre il quale il campo d’azione del defunto s’illumina di una luce nuova in una vita nuova, c’è ancora molto cammino da fare sulla via dell’acquisizione di una sempre più sicura coscienza di sé e del proprio destino. Su questa strada s’incontra la schiera dei poeti lirici e, parallelamente, dei sapienti, coevi alla diffusione della scrittura e, di conseguenza, della lettura di una tradizione sapienziale finora solo orale, s’incontra il grandioso sviluppo della πόλις e del suo corpus legislativo, i problemi legati alla condizione della donna e all’educazione dei figli, i rapporti con i popoli e le culture mediorientali.

Questo grandioso movimento di evoluzione storica, sociale, culturale, religiosa è seguito dall’autrice con dovizia di testimonianze e fonti documentarie nell’arco di tempo tra i sec. VIII e VI. Tuttavia, per ancorarci strettamente al tema dell’aldilà, facciamo riferimento a quanto Marina Piazza ci spiega circa le religioni che possono aver influenzato l’occidente culturale nell’elaborare una visione della morte più a misura di defunto, per così dire, in cui, cioè, egli sia parte attiva in un percorso di formazione in fieri, non più ombra inconsistente. Si allude alla religiosità egizia, vedica, mazdeista e ai culti misterici.

L’Egitto è vissuto per millenni in una sorta di immobile autosufficienza, fino al sec. VII a.C., quando iniziano contatti veri e propri con la Grecia. Sugli usi e costumi egizi, metempsicosi compresa, Erodoto mostra una buona dose di disprezzo: tutto ciò che greco non è, va preso con le pinze!

Ad esempio, i rapporti col defunto: i Greci celebravano i loro riti funebri, Antesteria e Genesia, in forma pubblica e collettiva con lo scopo principale di tenere i trapassati lontani dal mondo reale, perché essi avevano un’aura negativa, destavano timore. Per gli Egizi, invece, il defunto non reca alcun danno al vivente, in quanto la morte è il superamento di una soglia oltre la quale c’è una nuova esistenza, più ricca e vivida, in cui avviene la trasformazione del mortale in immortale.

Da qui l’imponenza e la dovizia delle tombe nilotiche: suppellettili utili alla sopravvivenza, cibi, pitture, arredi e la Falsa Porta, che permetteva di passare in entrambi i sensi di marcia. Il Libro dei morti, raccolta di formule rituali atte a rendere il defunto degno dell’intervento di Osiride, signore dell’aldilà, è costellato di verbi come entrare, passare uscire, varcare: è necessario, quindi, che ci sia qualcosa su cui compiere tali azioni, la soglia, appunto.

Anche il mazdeismo, la religione ufficiale degli Arii, impero persiano ed India, che trova il suo profeta in Zarathustra ed ha come libro liturgico l’Avesta, crede fermamente che l’uomo continui la sua crescita spirituale anche dopo la morte, fino alla vittoria finale del bene sul male.

Compito del fedele, così dice Zarathustra, è curare la propria spiritualità, tenere sempre acceso il fuoco che è in lui, cercando di migliorare se stesso: solo in tal modo potrà arrivare al cielo attraverso il ponte che lo congiunge alla terra. Per chi avrà commesso il sommo peccato, l’accidia, sarà “pianto e stridore di denti”: così si legge nei Frammenti di Nask, tardi, certo, dei sec. III-VII d. C., ma tant’è!

I rapporti dei Greci con la religione vedica furono pochi a causa dell’enorme distanza, eppure i testi sacri indiani, Rgveda, Veda, Upanišad, presentano affermazioni e concetti, che costituiscono evidenti coincidenze con i frammenti di Eraclito, in particolare, ma anche di Parmenide.

Mi permetterei di aggiungere anche Platone, per quel che riguarda la dottrina dell’immortalità dell’anima, della metempsicosi, dell’illusorietà del reale ed anche per la tecnica compositiva delle Upanišad, costituita da domanda e risposta tra maestro e allievo, proprio come nei dialoghi platonici.

Ma i filosofi delle scuole sapienziali, come anche Platone, erano con molta probabilità iniziati ai culti misterici, cui si ricollega l’iniziazione indiana, culminante con la ri-nascita dell’allievo in brahmano, attraverso un percorso educativo, in cui il pensiero deve farsi parola, non quella convenzionale dei segni fonici, bensì il verbum, quello cioè che attua il concetto che esprime.

L’iniziazione indiana presenta notevoli punti di contatto coi culti misterici, diffusi già prima del sec. VI a. C. in Grecia e conviventi pacificamente con la religione olimpica, almeno in un primo momento. Solo più tardi si sviluppa la conflittualità, legata alle insanabili differenze fra la ritualità collettiva e la partecipazione personale, il sacrificio cruento e il vegetarianismo, la ciclicità liturgica e il percorso dell’adepto da un initium ad un oltre, che continua dopo il fine-vita. Non va dimenticata, inoltre, l’ostilità della religione ufficiale, razionale, misurata, solare, nei confronti di riti orgiastici, mistico-ascetici, notturni.

Fine ed approfondita è l’analisi che l’autrice ci propone dei culti di Demetra, Dioniso e Orfeo e questo ci permette di puntualizzare alcuni elementi.

Lo stato di estasi, indotto nei riti misterici, tende alla presa di coscienza esistenziale e alla conoscenza del post-mortem. A questo punto è lecito domandarsi cosa sia capitato al famoso soldato Er, citato da Platone nel l. X de La Repubblica: una volta morto in battaglia, era resuscitato dopo alcuni giorni ed aveva raccontato dove le anime si muovano nel regno ultraterreno, come subiscano il giudizio e si avviino a reincarnarsi, scegliendo la nuova esistenza in base alle esperienze pregresse. È un caso di estasi o, come direbbe la medicina attuale, di Near Death Experience, legata ad uno stato di coma, protrattosi per più giorni? Non lo sapremo mai, ma è un’ipotesi suggestiva!

Certo, stiamo parlando di miti, racconti costruitisi attraverso il tempo in luoghi diversi, favole a sfondo rituale, ma, a ben riflettere, tra i vari riti si riscontrano molte affinità, alcune azioni si ripetono in contesti differenti, eppure il loro valore simbolico e significante è il medesimo: Dioniso, Osiride, Orfeo sono fatti a pezzi e poi ricomposti, in un alternarsi di nascita, morte, rinascita. È sempre una figura femminile, che raccoglie i disiecta membra. Persefone, Orfeo, Ulisse, Ercole scendono nell’Ade e ne fanno ritorno in una sorte di morte e rinascita. Demetra in contrasto con Metanira, Orfeo con Proserpina indicano la mancanza di fiducia negli dei e ciò genera la violenta reazione punitiva da parte della divinità. Demetra perde la figlia Kore, Dioniso la madre Semele, Orfeo la moglie Euridice: dalla privazione della donna amata scaturisce l’azione di rivalsa. Elemento sempre ricorrente, poi, è l’ambiguità del racconto stesso.

Ma come potevano i greci arcaici, popolo ipercritico, credere ai miti? Certo, non avendo conoscenze scientifiche, spiegavano molti fenomeni naturali con l’impulso divino: il terremoto è Poseidone che scuote il tridente, il fulmine è l’intervento di Zeus, l’avvicendarsi delle stagioni è Proserpina che va e viene dall’Ade e così via.

E ancora, il disvelamento di verità altre, la compartecipazione collettiva, il canto e la danza che rendono protagonisti della vicenda i partecipanti: tutto ciò fa sì che, pur travolti dal dubbio, si lascino convincere dalle parole del veggente e si sentano parte attiva della liturgia religiosa, laddove religio è ciò che lega l’uno all’altro, l’uomo al sacro, al divino.

Il libro di Marina Piazza si chiude con notizie sul papiro di Derveni e le lamine auree, testimonianze ulteriori, oltre alla lunga lista già citata, che invitano, l’uno, all’ascolto puro della verità profonda, non con le orecchie della percezione, bensì con quelle interiori, le altre, poste sul cuore della salma, costituiscono una guida per il defunto nell’aldilà: chi ha orecchi per ascoltare, ascolti (Lc 8,4).

In questa nostra conversazione avevamo tracciato una linea del tempo, riguardo allo sviluppo dell’idea di aldilà: alcuni segmenti sono stati già riempiti, come si è visto, altri restano da completare: chi si vuole cimentare, prima che “Grazia esperienza serbi”, per usare le parole di Dante[6]?

 

Anna Maria Sciacca

 

 

Alla presentazione del libro di Marina Storoni Piazza, scritta da Anna Maria Sciacca vorrei aggiungere una mia riflessione su un aspetto centrale della trattazione, peraltro già accennato, riguardante quelli che tradizionalmente sono chiamati “filosofi presocratici” e che dall’Autrice sono definiti più propriamente “sapienti”. La terza parte del libro, infatti, intitolata “La rivoluzione ionica” è dedicata alla descrizione minuziosa delle scuole sapienziali e, in particolare, a quattro sofoi: Pitagora, Empedocle, Parmenide e Eraclito. Essi vivevano tra loro lontani, nei punti nevralgici del vasto ambito culturale greco che ormai aveva superato i confini della madrepatria, tre di loro abitavano in quella che sarà  poi l’Italia e il quarto sulle coste dell’odierna Turchia, rispettivamente a Crotone, Agrigento, Elea ed Efeso.

L’interpretazione proposta dall’Autrice del loro contributo filosofico meriterebbe una trattazione ampia, perché si discosta per alcuni aspetti fondamentali da quella ormai consolidata da una lunga tradizione, ma tutto ciò supera i limiti di questo scritto. Tuttavia, vorrei sottolineare che la novità consiste nella lettura del loro debito nel confronti altre culture, alle quali Anna Maria Sciacca ha già fatto riferimento: quella egiziana, quella persiana e quella vedica. Non solo i sapienti furono influenzati dai popoli che si affacciavano sul Mediterraneo, come gli Egizi, ma dalla cultura del vicino e dell’estremo oriente. Questo è un aspetto originale della ricerca di Anna Marina Storoni. Ella, nelle quasi cento pagine dedicate al confronto fra i sapienti greci e gli Egizi, i Persiani e gli Indiani, offre prove convincenti di tale influenza.

In quelle culture il momento religioso è trascinante e costituisce un materiale straordinario per la formazione di quella visione dell’esser umano che noi continuiamo a considerare fondamentale ai nostri giorni e per la delineazione di una visione di ciò che sta oltre la soglia, più raffinata  di quella che aveva caratterizzato la Grecia arcaica.

 Il merito dei sapienti è di aver compiuto quell’operazione di approfondimento critico che chiamiamo filosofia, la quale, alla lontana, si fonda sull’esperienza religiosa, ma che, prendendo spunto da essa, procede ad una razionalizzazione, mostrando la validità della visione dell’essere umano e del divino, facendo leva, appunto, sull’evidenza intellettuale. Dagli Egiziani, i Sapienti, i Greci assumono l’idea della morte come “… superamento di una soglia che divide la vita terrena da una nuova esistenza, più ricca di significato della prima e immortale” (p. 261). Dal Mazdeismo, la religione professata dall’impero iranico, quella nota per la figura di Zarathustra, l’elaborazione della distinzione fra due mondi, quello materiale e quello spirituale: in tal modo si forma l’idea di “anima” come “ … “parte spirituale” dell’essere umano, che sopravvive alla morte del corpo e che è responsabile dell’agire umano” (p.302). La religione indiana vedica, infine, attraverso la nozione di metempsicosi, rafforza l’idea secondo la quale la morte “…non viene vista come un fine, ma piuttosto come una soglia…”, così afferma  Raimon Panikkar (p. 324). 

Questo mi sembra il contributo originale di Anna Marina Storoni Piazza alla ricostruzione della genesi del pensiero filosofico greco, contributo che aggiunge un tassello fondamentale al valore  complessivo del libro da lei scritto.   

 

Angela Ales Bello

 

 



[1] Angela Ales Bello-Anna Maria Sciacca, Ti racconto l’aldilà, fenomenologia della persona umana ante mortem e post mortem, Castelvecchi, Roma 2023

[2] Foscolo, Sepolcri, v. 151

 

[3] Foscolo, Sepolcri, v. 24-25

 

[4] Foscolo, Sepolcri, v. 16-17

 

[5] Leopardi, Idilli, A Silvia, vv.32-37

 

[6] Dante, Paradiso I, 73