Koinonia Novembre 2023


IL CIBO OGGI: TRA FAME E SPRECO (II)

 

Parte seconda: “Beato chi prenderà cibo nel regno di Dio!” (Lc 14,15)

 

Come si è già detto, dietro la fame nel mondo non c’è l’incapacità di produrre ma l’ingiustizia, la signoria del potere e del denaro, delle speculazioni finanziarie in mano a gente senza scrupoli a danno dei più deboli e dei più poveri. Ma ci si sta sempre più accorgendo che coi nostri stili di vita siamo al capolinea e che senza i vantaggi che il progresso degli ultimi cento anni ci ha procurato, a sopravvivere sul pianeta sarebbero solo quel miliardo di poveri già costretti a vivere ogni giorno col pochissimo che hanno.

A saper considerare le cose con un certo distacco, ci accorgeremmo di abitare in un pianetino di fuoco con una superficie esterna di suolo, vegetazione, e grandi masse d’acqua, cosparso di creature umane voraci che si sono moltiplicate a dismisura, aumentando in numero di oltre sei volte nell’arco dell’ultimo secolo, raggiungendo, al tempo stesso, un grado altissimo di consumo di risorse primarie come non si era mai visto prima sulla faccia della terra. Negli ultimi decenni abbiamo addirittura iniziato a calcolare l’Overshot day, il giorno in cui in anticipo si sono già consumate tutte le risorse che il pianeta è in grado di darci per un anno intero e nel quale siamo perciò costretti a mettere mano a quelle dell’anno successivo. Quest’anno, per esempio, quel giorno è corrisposto al 2 di agosto, e appena lo scorso anno corrispondeva al 28 di luglio, giusto per renderci conto della velocità con cui procediamo in avanti anziché darci una regolata. 

Forse mai come ora può diventarci chiaro quanto disse Gesù riguardo al “giudizio” per cui è “venuto in questo mondo”, quello attraverso il quale acceca coloro che hanno la pretesa di vedere (Gv 9,39). E fa pensare quanto disse Pascal già più di quattro secoli fa, non ieri: “Noi corriamo spensierati verso il precipizio, dopo esserci messi dinanzi agli occhi qualcosa che ci impedisca di vederlo” (Pensieri, 367).

Il sistema poi è diventato tale che ognuno di noi, senza saperlo, può diventarne parte anche semplicemente mettendo i propri risparmi a disposizione di certe banche. Sì, oltre a invadere tutto la potenza del denaro e degli strumenti che ci spingono ad avidità e consumo sembra essere diventata incontrastabile e del tutto fuori controllo. “Non si dà vita vera nella falsa”, forse mai ci è d’aiuto come oggi questo pensiero che Adorno scrisse un’ottantina d’anni fa (Minima Moralia).

E il problema è tale che non può nemmeno essere affrontato dal solo punto di vista etico. Se sono “beati” i “poveri” – come dice Gesù – è perché saranno saziati nel “regno di Dio” (Lc 6,20-21), non perché essendo tali sarebbero per questo migliori degli altri. L’affamato non è di per se buono, anzi, la fame non fa che aumentare la sua avidità e il suo conflitto con chi gli sta intorno. Nei campi di sterminio ci sono stati casi in cui i figli rubavano il pane al proprio padre indebolito per non morire di fame: la regola resta quella del mors tua vita mea, c’è poco da fare. Chi è vittima della fame vuol mangiare e basta, come accade ai cani: si provi a portare da mangiare a due cani affamati sulla stessa ciotola e si vedrà cosa succede.

Paolo VI nella Populorum progressio già nel 1967 ebbe l’audacia di dire che “il giudizio di Dio e la collera dei poveri” hanno “conseguenze imprevedibili” (49). Per conoscere qualcosa in profondità in tal senso, basterebbe anche soltanto leggere Il sangue del povero di Léon Bloy. Al povero va dato il pane non un buffetto sulla guancia con rinvii consolatori all’aldilà: nel regno di Dio si entra se hai dato il pane a chi ha fame perché ad avere fame in quell’affamato è Dio stesso. Dio soffre la fame in ogni bambino che in ogni cinque secondi muore di fame nel mondo. E soffre a causa della sua impotenza, come sulla croce. Ma la nostra impotenza, si badi, è ben superiore alla sua e guai a non dire, dopo avere fatto tutto ciò che si doveva fare: “Siamo servi inutili” (Lc 17,10).

E se pensiamo poi a quanto sta davvero a cuore alla salvezza cristiana, che in tanti purtroppo hanno dimenticato, non ritroviamo forse queste stesse dinamiche? Nel cristianesimo è fondamentale credere che Dio, il Creatore di tutto ciò che esiste, ad un certo punto della storia è diventato non soltanto un bambino, un uomo come tutti noi, un uomo semplice che ha vissuto fino a circa trent’anni nascosto nella vita di un villaggio, e che di seguito, nei suoi circa tre anni di vita pubblica si è mosso in un territorio molto ristretto tra lago, campi e villaggi, portando un messaggio straordinario di salvezza per il mondo e la storia intera, una notizia (Vangelo significa ‘Buona notizia’) mai udita prima. E senza scrivere nulla, se non qualcosa un giorno “col dito per terra” (Gv 8,6).

Un Dio fatto uomo che proprio poco prima di essere ammazzato come un delinquente, dalla sera dell’ultima cena, ha detto di non avere più la possibilità di stare a tavola con noi come avrebbe voluto. E però parlò anche di un nuovo, futuro appuntamento: “Io vi dico che d’ora in poi non berrò più di questo frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo con voi, nel regno del Padre mio” (Mt 26,29). Da allora ogni comunità cristiana è tale soltanto se è capace di riunirsi facendo memoria di questo arrivederci, nell’‘attesa’ della sua ‘venuta’.

Ecco lo straordinario del nostro Dio: già Creatore di cielo e terra per salvarci diventa uomo in carne e ossa venendoci incontro per stare in nostra compagnia, per dirci quanto ci vuole bene. Un giorno su una montagna, radunando i suoi discepoli si mise a fare un discorso di questo tipo: “Non preoccupatevi per la vostra vita, di quello che mangerete  o berrete…; la vita non vale forse più del cibo?... Guardate gli uccelli del cielo: non seminano e non mietono, né raccolgono nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non valete forse più di loro?” (Mt 6,25-26).

E però sappiamo che le cose non sono così semplici, che non solo molti uccelli muoiono di fame e di freddo, ma anche molti bambini nel mondo, e non sempre per colpa dell’uomo: il male va al di là delle nostre colpe, la maledizione del “sudore” necessario per mangiare il nostro “pane” viene da lontano (Gen 3,19). Paolo fu esplicito: “Chi non vuole lavorare, neppure mangi” (2Ts 3,10).

 Ma non capiremmo nulla di quanto Gesù disse quel giorno sulla montagna, se non tenendo conto della diversità del piano entro il quale egli si muoveva: il piano della salvezza messianica attesa come imminente. Infatti subito dopo nel suo discorso ci dirà di cercare “anzitutto, il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte” le altre cose ci sarebbero “date in aggiunta”. E di non preoccuparsi per il “domani, perché il domani si preoccuperà di se stesso. A ciascun giorno basta la sua pena” (Mt 6,33-34). Questo era il punto decisivo, questo è il compito di quella fede che forse Gesù non troverà più nel giorno del suo ritorno “sulla terra”, una fede che chiede e resta in attesa, esattamente come resta in attesa la “vedova” della parabola da lui raccontata che chiede con insistenza: “Fammi giustizia!” (Lc 18,3). Il poco che si riesce a fare non deve nasconderci il tanto che resta ancora da fare e che soltanto Dio alla fine potrà fare.

Una terra in cui alcuni sprecano mentre altri muoiono di fame è una terra colma d’ingiustizia destinata a “finire”: noi, grazie a quanto ci è stato promesso “aspettiamo nuovi cieli e una terra nuova, nei quali abita la giustizia”. E ci è addirittura detto che proprio nel modo sincero e autentico con cui aspettiamo ci è dato persino di affrettare “la venuta del giorno di Dio”  (2Pt 3,11-13).

Lì, più nessuno patirà ingiustizia e fame anzi, come hanno detto le labbra santissime di Maria, nel mondo che verrà “i potenti” saranno rovesciati dai troni e “gli umili” innalzati, “gli affamati” saranno ricolmati di beni e “i ricchi” rimandati “a mani vuote” (Lc 1,51-53). Parole che molto assomigliano a quelle del Manifesto del Partito Comunista di Marx ed Engels pubblicato a Londra nel 1848, ma con tanta discrezione in più, provenendo da un’umile “serva” tutta tesa non a quanto faremo noi, ma a quanto farà Dio “Onnipotente e Santo” (Lc 1,49).

Si racconta che un giorno Gesù “si recò a casa di uno dei capi dei farisei per pranzare”. Ad un certo punto, notando tra gli invitati la mania di scegliersi “i primi posti” disse due cose. La prima a chi era invitato: scegliere di mettersi sempre “all’ultimo posto” in modo che sia eventualmente chi ci ha invitato a dirci di andare più avanti. La seconda a chi aveva invitato: invitare non i ricchi e i potenti, quelli che possono a loro volta ricambiarci, ma “poveri, storpi, zoppi, ciechi” e attraverso di essi essere “beato”. E perché? Che beatitudine sarebbe quella? Presto detto: “Perché non hanno da ricambiarti”. Tutto qui? No, certamente, la beatitudine è futura: “Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti”. Ma non finisce ancora qui. A quel punto “uno dei commensali, avendo udito questo, gli disse: ‘Beato chi prenderà cibo nel regno di Dio!’”. Certi spiritualisti si precipiterebbero a dire: ma che cibo, che cibo, nel paradiso nessuno più mangia né beve, le anime non ne hanno bisogno! E invece no, Gesù prospetta la speranza della risurrezione dei corpi, corpi che continueranno a mangiare e bere nel concretissimo mondo nuovo promesso. Piuttosto Gesù si preoccupa della mancanza di interesse da parte nostra riguardo a quel banchetto che ci sta preparando: la salvezza infatti sarà concreta, come il pane e il vino, come i nostri corpi di carne e ossa.

Ed è molto significativo che in quella parabola, in cui Dio ci rivela che a quella “grande cena” che sta preparando, nessuno di quelli che considerava più vicini e che aveva invitati per primi, ebbero tempo e voglia di andare, avendo cose secondo loro più interessanti di cui occuparsi, tanto che quell’uomo sarà alla fine costretto a rimediare facendo entrare poveri, storpi, ciechi e zoppi, o addirittura a costringere gente trovata “per le strade e lungo le siepi” pur di non mandare a male la cena già pronta e rifiutata proprio da quelli “che erano stati invitati” (Lc 14,7-24).

È da notare che non a caso Gesù cita per ben due volte queste quattro categorie: “poveri, storpi, zoppi, ciechi”, erano le stesse che non potevano nemmeno accedere negli spazi del Tempio, perché considerate impure. Ebbene, pare che siano proprio questi a rimanere alla fine a far compagnia a Dio nel suo regno, perché gli altri non avranno voluto saperne, essendo troppo presi dai loro affari: campi da vendere, cose da comprare eccetera. Insomma, Dio sarà alla fine costretto ad accontentarsi di ciò che il mondo ha rifiutato, scartato, sprecato. Straordinaria l’intuizione di Charles de Focauld: “Noi possiamo prendere ormai solo il penultimo posto, perché l’ultimo è già occupato dal Signore, in modo tale che nessuno potrà mai ripigliarglielo!”.

Altre fedi parlano del Paradiso, del giorno della salvezza, come un giorno in cui mangeremo e berremo ottime bevande insieme a Dio a tavola, ma solo il cristianesimo dice che a quel banchetto sarà il Signore stesso che si “stringerà le vesti ai fianchi”, che ci “farà mettere a tavola e passerà” a servirci (Lc 12,37). Dio, oltre a essere “un salvatore potente”, è un pazzo d’amore che esulterà per noi “con grida di gioia” (Sof 3, 17), vedendoci stare bene insieme a lui e tra noi per sempre. I primi cristiani avevano la forza di dire: sia presto quel giorno, venga il tuo regno! Ma noi?

Che la nostra bocca oltre a occuparsi di cibo possa, ancora oggi, avere la forza - magari con un semplice Padrenostro prima di sederci a tavola - anche di occuparsi di questa invocazione di salvezza.

 

Daniele Garota

(2. fine)