Koinonia Gennaio 2022


 

 

CAMMINARE INSIEME

LINEE PROGRAMMATICHE PER UNA PASTORALE DELLA CHIESA TORINESE

 

Carissimi

1. Nella conclusione del convegno dei Consigli Pastorale, Presbiteriale e dei Vicari zonali, tenuto a S. Ignazio nell’agosto scorso, mi è stato richiesto di proporre a tutta la comunità diocesana, in una lettera pastorale, un programma d’azione che traduca in linee operative il risultato delle consultazioni condotte per vari mesi in numerosi gruppi e già prese in esame nel convegno ora menzionato. Tale richiesta, che mi è stata rinnovata nella riunione del 4 novembre, mi è sembrata pienamente giustificata. Essa corrisponde a un’esigenza cosi formulata in un recente documento di Paolo VI a proposito dell’impegno della Chiesa in campo sociale, ma valida per tutta l’azione pastorale: «Spetta alle comunità cristiane analizzare obiettivamente la situazione del loro paese, chiarirla alla luce delle parole immutabili del Vangelo, attingere principi di riflessione, criteri di giudizio e direttive di azione all’insegnamento sociale della Chiesa... Spetta alle comunità cristiane individuare - con l’assistenza dello Spirito Santo, in comunione con i vescovi responsabili, e in dialogo con gli altri fratelli cristiani e con tutti gli uomini di buona volontà - le scelte e gli impegni che conviene prendere per operare le trasformazioni sociali, politiche e economiche che si palesano urgenti e necessarie in molti casi» (1).

I contributi emersi dal lavoro a cui ho accennato mi sono di aiuto prezioso, in quanto mi consentono di partire da una intesa di base già raggiunta in certa misura. Questa intesa dovrebbe favorire l’impegno comune sul piano operativo.

Una difficoltà e un rischio

2. Sarà bene tuttavia far presente fin da principio una difficoltà e un rischio. Com’era prevedibile nella trattazione di argomenti attuali e talvolta brucianti che si possono vedere sotto angolature diverse, nel corso delle discussioni svolte sui grossi temi: povertà, libertà, fraternità, si sono manifestati pareri diversi, talora opposti. Sarebbe evidentemente impossibile elaborare una sintesi organica di tutti questi pareri e trame delle indicazioni pratiche che rispecchino veramente un pensiero condiviso da tutti o quasi. È chiaro che non si chiede al vescovo di fare un lavoro di contabile, calcolando il numero dei pareri espressi per accettare senz’altro il voto della maggioranza. Giustamente, in questo senso, nel convegno del 4 novembre, è stato deciso di presentare al vescovo non solo la «mozione sintesi» e gli emendamenti approvati a maggioranza, ma tutti gli emendamenti proposti in quanto anche da essi è possibile attingere validi contributi.

Tuttavia rimangono, dicevo, una difficoltà e un rischio. Se il vescovo fa sue delle proposte avanzate da una maggioranza, e non ad unanimità, - come avverrà necessariamente in molti casi - c’è pericolo che appaia ad alcuni come uomo di parte. Il rischio sembra ancora più grave se per caso il vescovo giudica di doversi attenere al parere d’una minoranza. Non mancano poi coloro che rifiutano di riconoscere qualsiasi valore sia alla maggioranza che alla minoranza, squalificando in partenza qualsiasi sforzo teso a interessare la Diocesi al dialogo sui problemi della vita cristiana e della pastorale.

Ma c’è qualcosa di più grave. Come ebbi occasione di rilevare nel convegno dei parroci tenuto a Pianezza il 12 ottobre 1971 (2), è abbastanza diffusa l’opinione che il vescovo sia dominato da un «partito» o da un «gruppo di pressione». Un’idea del genere non è certo fatta per alimentare quella fiducia senza la quale non si vede come il vescovo possa essere effettivamente il «visibile principio e fondamento di unità» nella Chiesa particolare (3).

Se si tiene conto di altri motivi di sfiducia, fin troppo evidenti nei rapporti fra preti e preti, fra preti e laici, fra preti, laici e vescovo, bisogna constatare che è ben difficile attuare nella diocesi quel comportamento e quella pastorale di comunione che sola risponde all’anelito di Cristo e che rende credibile la sua missione di Salvatore (4).

Leggendo queste considerazioni, qualcuno mi accuserà forse di pessimismo. Risponderò con S. Massimo, che cosi si rivolgeva agli ecclesiastici di Torino dopo averli duramente rimproverati: «Ma io, fratelli, non parlo di tutti. Alcuni certamente sono impegnati, ma altri sono negligenti. lo non nomino nessuno; ciascuno interroghi la sua coscienza!» (5).

3. Di fronte a questa realtà che penso di dover constatare obiettivamente, che cosa può fare il vescovo se non rivolgere a tutti un appello alla fiducia, chiedendo che si creda al suo senso di responsabilità e alla sua volontà di mantenere e promuovere la comunione nella verità e nella carità? È proprio necessario dichiarare che il vescovo, mentre ascolta con attenzione e con gratitudine quanti lo aiutano esprimendo suggerimenti, critiche, proposte, ritiene suo dovere conservare la libertà di giudizio e di decisione che è richiesta dalla sua missione di pastore, di ministro di Cristo e di testimone del Vangelo (6)?

Posso sperare che venga raccolto il mio appello, che il popolo di Dio pellegrinante in Torino possa camminare nella pace, nella concordia e nella comunione insieme col pastore mandato da Cristo a servirlo «col cuore, con la voce, con gli scritti» (7)?

D’una cosa, ad ogni modo, sono certo. Che Gesù Salvatore nostro, il quale ha dato la sua vita per raccogliere in unità i figli di Dio dispersi, ascolta la preghiera che Gli ho rivolto poco fa in particolare per la Chiesa torinese: «Signore Gesù, che hai edificato la tua casa sulla roccia, conferma la tua Chiesa in una salda fede, in una incrollabile fiducia... Signore Gesù, che col Padre stabilisci la tua dimora in coloro che ti amano, rendi perfetta la tua Chiesa nell’amore divino» (8).

Preghiamo, preghiamo, fratelli carissimi, perché sempre nella nostra Chiesa regni la pace e la carità!

Lo scopo di questa lettera

4. Alla chiusura dei lavori di S. Ignazio, ho comunicato all’assemblea il risultato delle mie riflessioni, portate avanti per mesi e maturate ulteriormente in quei giorni nell’ascolto delle relazioni e di vari interventi nei gruppi a cui avevo potuto partecipare. Invece non mi era stato possibile, per ragioni di tempo, tener conto della mozione conclusiva (del resto riconosciuta subito come provvisoria e incompleta). Per questo motivo ho preferito che non si pubblicasse il mio intervento, sembrandomi più utile riservare l’espressione più impegnativa del mio pensiero alla lettera pastorale che, come ho detto, mi era stata richiesta, e che mi proponevo di preparare quando gli organismi competenti avessero portato a termine il loro lavoro (ciò che è avvenuto nella giornata del 4 novembre). Comunque, riprendo qui alcuni pensieri espressi in quel discorso completandoli con l’esame della mozione di sintesi approvata il 4 novembre e degli emendamenti presentati in quell’occasione.

5. Richiamandomi alle constatazioni fatte sulle divisioni che travagliano la Chiesa torinese, vorrei riaffermare molto chiaramente il mio proposito di dire solo e tutto ciò che mi suggerisce la mia coscienza di vescovo. Non posso dimenticare il monito di S. Paolo: «Se cercassi di piacere agli uomini, non sarei servo di Cristo» (9). Non m’interessa guadagnare il favore di questa o quella corrente, di destra o di sinistra; nemmeno potrei propormi la linea di un «giusto mezzo», nel senso di cercare un compromesso a qualsiasi costo.

Non m’illudo di poter soddisfare tutti, nemmeno presumo di saper proporre una soluzione sicura di tutti i problemi che sono in giuoco. Ma è mio dovere, tenendo ben presenti i contributi offerti nel corso delle discussioni, dare quelle indicazioni pastorali che ritengo necessarie o utili per la nostra diocesi. E poiché evidentemente la diocesi ha bisogno di camminare insieme, attuando una pastorale comune per ciò che riguarda gli elementi di fondo, debbo chiedere a tutti i diocesani l’adesione volenterosa e operosa al programma che si propone. La chiedo anche a coloro che, avendo presentato idee e proposte, pensassero di aver motivo di lamentarsi per non vederle accolte in questo mio scritto. Ciò può essere avvenuto o per l’impossibilità, a cui accennavo, di far mie idee e proposte fra loro contrastanti, o in quanto ho ritenuto che vari argomenti trattati nel corso dei lavori, o anche nella sintesi conclusiva, non potessero essere affrontati qui, sia perché non strettamente pertinenti al tema sia perché meritano d’essere ripresi più ampiamente nella sede opportuna.

Quando, per iniziativa del Consiglio Pastorale Diocesano, si è cercata una base per formulare un programma impegnativo per tutta la diocesi, si è proposta la scelta di tre valori di fondo: povertà, libertà, fraternità. Evidentemente la scelta poteva essere formulata in altri modi; ma poiché una scelta bisognava farla, e questa ha raccolto il consenso praticamente unanime, mi pare giusto partire di qui. Del resto, si tratta di valori talmente essenziali nella visione cristiana della vita e talmente attuali in rapporto alla realtà sociale in cui viviamo, che vale ben la pena d’impegnare gli sforzi di tutta la diocesi per tradurli fedelmente nella pratica.

Tutto nella fede e nell’amore

6. Un’osservazione preliminare mi sembra necessaria. Qualsiasi valore venga proposto al cristiano dev’essere visto e presentato nella luce della fede e in ordine all’adempimento del precetto primario dell’amore.

La fede ci presenta una visione integrale della vita, nella quale l’esistenza terrena, dono di Dio e valore da riconoscere e promuovere in me e negli altri con gene- roso impegno individuale e sociale, non è conclusa in se stessa, ma ordinata alla vita eterna. L’amore ha Dio come oggetto, o, meglio, come dialogante assolutamente primario; in Dio e per Dio amerò il mio prossimo, e se non amo il prossimo non amo Dio. Se si dimentica questo, si rischia di presentare dei valori contraffatti o comunque accettabili solo sul piano naturale (anche se in sé degni della massima considerazione), mentre il cristiano è chiamato a illuminarli e perseguirli secondo l’insegnamento della parola di Dio e valendosi dei sussidi offerti dalla grazia.

L’attuazione di questi valori esige una conversione personale e comunitaria per realizzare una Chiesa più autentica, fedele alla parola di Dio e attenta alle esigenze degli uomini in mezzo ai quali vive, che sia segno del primato assoluto di Dio e del suo regno. D’altra parte, è la conversione personale che fa maturare contemporaneamente una crescita, nella stessa linea, della comunità, così da offrire una esplicita testimonianza di Chiesa, comunione di corresponsabili.

Perciò rimane sempre fondamentale il dovere e la necessità dell’evangelizzazione, della preghiera, della liturgia vissuta autenticamente come riconoscimento del primato di Dio e come mezzo principe per attingere alle sorgenti della grazia, senza la quale non è possibile realizzare alcun valore veramente cristiano. Perciò rimane fermo che la diocesi dovrà continuare e approfondire l’impegno di evangelizzazione e di catechesi nei vari settori e per mezzo delle varie iniziative su cui da tempo si vanno concentrando o dovrebbero concentrarsi gli sforzi comuni. Questa esigenza è stata ben presente nello studio condotto sui documenti proposti dal Consiglio Pastorale. Con molta frequenza ritornano, negli interventi dei gruppi, i richiami alla necessità di caratterizzare il lavoro di evangelizzazione con il rispetto dei valori di libertà, povertà e fraternità e con la volontà effettiva di promuoverne l’attuazione.

Nessun timore, quindi, che il programma di cui qui ci occupiamo debba inceppare l’attività pastorale quotidiana. Piuttosto questa dovrà tener conto di questi valori, come di elementi destinati a purificarne e arricchirne la pastorale, a costo di liberarsi da incrostazioni ormai anacronistiche. 

Uno sguardo alla situazione

7. Non mi riferisco a tutti gli aspetti della realtà in cui viviamo, nella quale, accanto ad elementi positivi che sono motivo di riconoscenza al Signore e d’incoraggiamento a chiunque opera per l’attuazione del regno di Dio, dobbiamo constatare lacune e deviazioni estremamente preoccupanti. Se è impossibile giudicare le coscienze, che Dio solo conosce, quanto ci è dato vedere ogni giorno intorno a noi fa pensare all’interrogativo posto dal Signore. «Ma il Figlio dell’uomo, alla sua venuta, troverà ancora fede sulla terra?» (9bis). Quali segni di fede possiamo ravvisare in moltissimi cristiani - cristiani perché battezzati - che vivono in un ateismo pratico e non di rado, specialmente fra giovani e ragazzi, anche teorico, in moltissime famiglie che prescindono totalmente nell’opera educativa - se ancora si può chiamare tale - dai princìpi cristiani che ignorano, in quanto considerano normale la ricerca del guadagno e del piacere al di fuori di qualsiasi norma morale? Basti questo accenno per renderci conto del compito immane che impegna l’opera dei pastori e di tutti i fedeli che sentono la loro corresponsabilità. Qui intendo limitarmi, come ho fatto a S. Ignazio, a qualche considerazione sulla situazione attuale della nostra diocesi, situazione sociale e in particolare situazione ecclesiale, in rapporto al programma indicato in queste tre parole: povertà, libertà, fraternità.

Riferendomi alla situazione sociale in genere, si può dire che in teoria questi valori sono riconosciuti e ampiamente proclamati. Nella pratica noi sappiamo come essi sono spesso dimenticati e conculcati, sia nei rapporti tra persone sia nelle strutture sociali. Troppe volte le strutture sociali non rispettano l’uomo, non lo riconoscono quale valore primario. Parlo delle « strutture » in se stesse e degli uomini che vi operano facendole servire, nel campo politico e in quello economico, all’egoismo delle persone e dei gruppi.

Questa realtà va tenuta ben presente perché altrimenti, io credo, le nostre considerazioni non si fondano abbastanza su realtà concrete. È facile appellarsi a leggi economiche come se le leggi economiche fossero assolutamente immodificabili dall’intervento dell’uomo, come se l’uomo che può salire sulla luna fosse legato senza rimedio a quelle leggi economiche o dette tali che portano all’oppressione dell’uomo da parte dell’uomo. Il Concilio ammonisce che «l’attività economica è da realizzare secondo le leggi e i metodi propri dell’economia, ma nell’ambito dell’ordine morale, in modo che così risponda al disegno di Dio sull’uomo» (10).

Nella vita della Chiesa, poi, dobbiamo constatare spesso un comportamento che si potrebbe dire caratterizzato dall’anonimato, nel senso che manca un rapporto con le persone. Questo può avverarsi a tutti i livelli. Ci sono le strutture che qualche volta fanno dimenticare le persone; così nella predicazione, nella celebrazione dei sacramenti, nella attività organizzata è giusto che ci domandiamo se la persona ha sempre il primo posto, o se qualche volta non si lavora come certe strutture o certe attività tradizionali ci suggeriscono o ci impongono senza la debita attenzione alle persone.

C’è nella nostra situazione una carenza, più volte rilevata, in relazione al mondo operaio, che pure ha nella nostra società un peso preponderante per il numero e per il senso di solidarietà che lo anima, mentre è in grandissima parte assente dalla Chiesa. Dobbiamo riconoscere che sono troppo scarsi da parte della comunità ecclesiale quei contatti che sarebbero necessari per conoscere a fondo il lavoratore e per aiutarlo a sentirsi Chiesa e vivere nella Chiesa. C’è difficoltà da parte di molti, sacerdoti e anche laici, e per tante cause, a investirsi dei problemi reali dei lavoratori. C’è una certa paura di compromettersi di fronte a rivendicazioni espresse talvolta in forma discutibile, ma spesso pienamente giustificate. Penso a una parola detta da P. Loew, che fece per più anni lo scaricatore nel porto di Marsiglia, negli esercizi tenuti in Vaticano nel 1970: il povero è colui che ascolta tutti, ascolta il suo caporeparto in officina, ascolta il deputato che fa il comizio, ascolta il sindacalista, alla fine deve ancora ascoltare sua moglie quando torna in casa la sera, ascolta il parroco quando va in chiesa, e non è ascoltato da nessuno. Manca troppo spesso l’impegno dell’ascolto.

Quello che ho detto del mondo operaio vale per altri ambienti della nostra società, che si trovano in situazioni di sofferenza non abbastanza conosciute e valutate, mentre sarebbe grave e urgente dovere sociale venire incontro alle esigenze di queste categorie: ammalati anziani, bambini orfani o abbandonati, immigrati, handicappati o disadattati.

Sempre in tema di rilievi negativi, e senza voler indulgere al pessimismo, poiché si tratta di difetti in cui facilmente cadono gli uomini, credo necessario richiamare l’attenzione su altre due carenze. Mi riferisco a un certo efficientismo, da non confondersi con la legittima e doverosa ricerca dell’efficienza, cioè di un risultato concreto del nostro lavoro per il regno di Dio. Questa ricerca dell’efficientismo può facilmente favorire la tendenza a imporsi agli altri, ad agire con un autoritarismo che non rispetta la libertà del fratello e le tappe del lavoro della grazia, che troppo facilmente sostituisce l’azione dell’uomo all’azione di Dio.

Ritengo poi che convenga stare in guardia da una certa nota di individualismo e di egoismo che spesso accompagna il nostro lavoro nella Chiesa, nel modo di agire, nello stile di vita, in una certa volontà di difendere a ogni costo la propria posizione, i propri gusti e i propri privilegi, in una resistenza, forse inconsapevole ma ostinata, a quegli imperativi di fraternità, di perequazione anche economica, che si pongono con un’urgenza indilazionabile.

È appunto questa tendenza individualistica una delle ragioni di quelle divisioni che, come ho già detto, sono serio motivo di preoccupazione per tutta la vita e la pastorale diocesana. <…>

 

Torino, Festa dell’Immacolata Concezione 1971

 

* Michele Card. Pellegrino, arcivescovo

 

Note

1 Octogesima adveniens, n. 4.

2 «Rivista Diocesana Torinese », n. 11, novembre 1971, pp. 377-384.

3 Lumen gentium, n. 23.

4 Cf. Gv. 17.

5 Serm. CXXIX.

6 Cf. Lumen gentium, n. 21.

7 S. Agostino, Confessioni, IX, 37.

8 Dal Comune della Dedicazione della chiesa, preci del Vespro.

9 Gal. l,10.

9bis Lc. 18,8.

10 Gaudium et spes, n. 64.

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