Koinonia Gennaio 2022


GESÙ IL PROFETA CHE SALVA (II)

 

Parte seconda: La dolce quanto terribile ‘logica di Gesù’

 

Il profeta non cerca il consenso degli uomini, anzi, secondo le parole di Gesù deve addirittura temerlo: “Guai, quando tutti gli uomini diranno bene di voi. Allo stesso modo infatti agivano i loro padri con i falsi profeti” (Lc 6,26). E racconta la parabola secondo la quale è proprio dopo avere sopportato l’uccisione di tutti i profeti che alla fine Dio invia l’unico “figlio amato … dicendo: ‘Avranno rispetto per mio figlio!’”. E sappiamo purtroppo com’è andata: “dissero tra loro: ‘Costui è l’erede. Su, uccidiamolo e l’eredità sarà nostra,” (Mc 12,1-7). La speranza profetica è proprio quando è fiduciosa in Dio e nelle sue promesse che tende a prendere dovute distanze da ciò che fa e pensa l’uomo. E tale diffidenza non ha nulla a che fare col pessimismo, ha a che fare piuttosto col realismo, con la nostra fatica a cogliere la miseria umana dirottando perciò ogni speranza alle cose grandiose che ha promesso Dio e che solo Dio può compiere.

All’inizio del suo vangelo Giovanni ci dice che “molti, vedendo i segni che egli compiva, credettero nel suo nome. Ma lui, Gesù, non si fidava di loro, perché conosceva tutti e non aveva bisogno che alcuno desse testimonianza sull’uomo. Egli infatti conosceva quello che c’è nell’uomo” (Gv 2,23-25). Il timore di Gesù era quello di essere frainteso, di indicare cose riguardanti il regno di Dio a gente incapace di alzare la mente e lo sguardo oltre il mondo e le sue logiche. E per comprendere davvero le cose promesse da Dio è anche necessario tenere gli occhi bene aperti su quanto di terribile è capace di compiere l’uomo e che la Bibbia non esita a rivelarci, fino alla crocifissione e alla morte di Gesù.

In quanto credenti si dev’essere molto attenti alle insidie di male di fonte alle quali ci troviamo in ogni momento esposti noi e il mondo intero. “Liberaci dal male”: così si conclude l’unica preghiera che Gesù ci ha insegnato (Mt 6,13). Pensiamo anche soltanto alla potenza di distruttività mai vista prima sulla faccia della terra e che cova nascosta negli arsenali militari del mondo, o alle grandi emergenze ecologiche globali che ci stanno portando sull’orlo di catastrofi irreversibili. E poi le ingiustizie sociali, quelle di cui noi appartenenti al mondo dei ricchi sempre più ricchi facciamo fatica ad accorgerci del numero sempre più grande dei poveri sempre più poveri. Mentre infatti, “coloro che fruiscono del ‘mondo moderno’ vivendo al ‘piano superiore’ – ha detto già molti anni fa Jurgen Moltmann - temono che il mondo finisca, quelli che invece soffrono al ‘piano terra’ lo sperano. Per gli uni il termine ‘apocalisse’ sta a significare catastrofe del loro mondo, per gli altri invece disvelamento della realtà e quindi verità che viene finalmente a galla e che significa liberazione” (L’avvento di Dio). Se sono beati i poveri e coloro che soffrono, come diceva Gesù nel suo discorso sul monte, è perché dalla loro condizione di sofferenza e anelito vedono e sentono ciò che vede e sente Dio, fino a invocare con il loro stesso bisogno ciò che Dio ha promesso, costi quel che costi.

 

Possiamo trovare due esempi molto espliciti per comprendere questo, entrambi caratterizzati da una forte tensione rivolta alla salvezza promessa da Dio. Il primo tratto dal più antico degli scritti del Nuovo Testamento, la prima Lettera ai Tessalonicesi: “Sapete bene che il giorno del Signore verrà come un ladro di notte. E quando la gente dirà: ‘C’è pace e sicurezza!’, allora d’improvviso la rovina li colpirà, come le doglie una donna incinta; e non potranno sfuggire” (5,2-3). Paolo mette in guardia dal sonno che ci fa stare tranquilli, fino a diventare facili prede del potere delle “tenebre” e della “notte”. I “figli della luce”, da parte loro, devono infatti tenere gli occhi bene aperti per non lasciarsi accecare “la mente” dal “dio di questo mondo” (2Cor 4,4). Essi sanno che la salvezza verrà solamente dal Signore che in ogni momento potrebbe tornare e che irromperà nel cuore della notte, quando nessuno se l’aspetta.

Ma c’è un secondo esempio, che troviamo nel Vangelo di Luca e che mette in evidenza il diverso modo di porsi dei credenti di fronte alla terribilità degli eventi che precederanno la venuta del Signore. È lo Gesù stesso a metterne in luce la differenza: “Vi saranno segni nel sole, nella luna e nelle stelle, e sulla terra angoscia di popoli in ansia per il fragore dei mari e dei flutti, mentre gli uomini moriranno per la paura e per l’attesa di ciò che dovrà accadere sulla terra”. E c’è poi l’invito ai credenti a reagire invece in tutt’altro modo: “Quando cominceranno ad accadere queste cose, risollevatevi e alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina” (Lc 21,25-28). Da una parte dunque l’angoscia di coloro che appartengono invece alle logiche di questo mondo, dall’altra la speranza di coloro che appartengono alle logiche di Gesù e della sua salvezza. È quando gli altri moriranno per la paura e ficcheranno, per così dire, la testa sotto la sabbia per non vedere ciò che sta realmente accadendo, che quelli che desiderano la salvezza alzano fiduciosi il capo percependo la loro liberazione vicina. È questa audacia di fronte a ciò che di terribile accade a caratterizzare la fede che sa ascoltare e accogliere la potenza profetica di Gesù, un’audacia che scaturisce dal desiderio e dalla gioia che si ha di stare dalla parte del Signore, accada quel che accada, fosse anche la crocifissione stessa di lui o del mondo intero.

Ma vi è un terzo passo che forse ancor di più rivela la logica della profezia di Gesù. È nel Vangelo di Marco, là dove viene toccato il vertice della terribilità della situazione e, al tempo stesso, della debolezza e dell’impotenza di Dio. Ed è molto significativo che l’evangelista ancora dopo decenni dalla morte di Gesù abbia voluto sottolineare proprio questo particolare per dare coraggio ai credenti. Era “mezzogiorno”, dunque il momento della massima luce solare, quando ad un tratto “si fece buio su tutta la terra fino alle tre del pomeriggio”. Non era il buio provocato da un cielo semplicemente nuvoloso o un buio sceso su un monte nei pressi di Gerusalemme, era piuttosto il buio che aveva finito per invadere la terra intera, un buio che stava per soffocare la fede di coloro che fin lì avevano creduto. Lassù, sul monte, stava appeso e agonizzante  il corpo di un uomo crocifisso percosso a sangue, il corpo di colui che era già in principio “presso Dio”, di colui che “era Dio” e senza il quale “nulla è stato fatto di ciò che esiste” (Gv 1,1-3). Dunque il corpo di colui che avrebbe dovuto salvare il mondo. Ebbene proprio da quel corpo, muto e agonizzante per tre ore di seguito, sul quale nessuno avrebbe ormai più scommesso un centesimo, a un certo punto esplode una domanda gridata verso il cielo, verso Dio. Non verso un Dio qualsiasi ma verso il suo Dio, il suo babbino, il suo Abbà, e ogni padre sa quanto costa veder soffrire il proprio figlio che direttamente chiama, anche magari soltanto da un letto d’ospedale, figuriamoci da un patibolo. Qui riguarda infatti il dolore di un giovane uomo trattato come un delinquente dal potere politico e religioso insieme, sebbene fosse del tutto innocente, di uno tradito e abbandonato persino dai suoi amici. Ed è proprio questo che l’evangelista vuole a quel punto sottolineare: “Gesù gridò a gran voce: ‘Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?’”. Ma nessuno ci fu a rispondere. E mentre quelli che si trovavano lì intorno si agitavano impauriti senza comprendere nulla, “Gesù, dando un forte grido, spirò”.

E fu a quel punto, quando lo scandalo della crocifissione e del silenzio di Dio si fecero enormi che accadde l’assurdo, l’umanamente inconcepibile. Accadde cioè, dice Marco, che proprio “il centurione”, non un uomo qualsiasi o un discepolo, ma un soldato dalla pelle dura, uno che poco prima aveva a sangue freddo dato ordine di procedere alle operazioni della crocifissione, di inchiodare cioè al legno le mani e i piedi del condannato che sanguinava e gridava. Uno dunque che a crocifissione conclusa era solito dire tra sé: anche questa è fatta! Ebbene, proprio lui fu invece lì a dire quello che ognuno di noi dovrebbe dire davanti alla terribile realtà della croce del Signore e che però non riuscirà mai a dirlo come l’ha detto lui. “Il centurione, che si trovava di fronte a lui, avendolo visto spirare in quel modo, disse: ‘Davvero quest’uomo era Figlio di Dio’” (Mc 15,33-39).

Cosa sarebbe il cristianesimo senza l’esplodere della risurrezione? Eppure la vera professione di fede la si incontra, paradossalmente, in bocca a un pagano e nell’inimmaginabile quanto terribile momento della sconfitta e della croce. In quanto sconfitto, crocifisso e morto “in quel modo”, Gesù dona speranza, Gesù è il salvatore del mondo, Gesù è Dio. E da quel momento soltanto colui che sarà in grado di credere portando come lui e con lui “la propria croce” (Lc 14,27) sarà salvo.

Lontanissimo da tutto questo lo stesso Pietro quando non capisce nulla di quanto Gesù gli ha appena detto e dice “Non sia mai!”, quando non pensa “secondo Dio ma secondo gli uomini”, quando vuol mettersi davanti non dietro al Cristo, quando anziché rinnegare se stesso prendendo la propria “croce” per seguirlo, pensa piuttosto a “guadagnare il mondo intero”, una condizione che costringerà Cristo stesso a vergognarsi di lui “quando verrà nella gloria del Padre suo” (Mc 8,31-38).

Anche oggi ognuno di noi è chiamato a portare la propria croce per seguire Gesù, per non lasciarlo solo nella sua agonia fino alla fine del mondo, come intuì Pascal. La logica di Gesù è opposta a quella umana. Paul Ricoeur sottolinea che portare la propria croce oggi “significa rinunciare alla rappresentazione di Dio come luogo del sapere assoluto, garanzia di tutti i miei saperi, e accettare di non sapere che una cosa su Dio, e cioè che si è identificato con l’uomo Gesù crocifisso… Portare la croce di Gesù, per me, membro di una comunità del sapere, è abbassare il mio sapere avido di prove e garanzie, dinanzi a questa necessità, superiore a ogni necessità logica: era necessario che il Figlio dell’uomo soffrisse e fosse crocifisso (cf Lc 24,7.26). Dalla sua onni-potenza Dio ci dà solo il segno della sua onni-debolezza, quella del suo amore”. Per entrare nella logica di Gesù è necessaria quell’“intelligenza della fede” che permette di “accettare che Dio sia pensabile solo attraverso il simbolo del servo sofferente”, della “croce di Gesù” (La logica di Gesù).

        

 

Alla domanda gridata del crocifisso corrisponde l’incessante invocazione di giustizia della “vedova” nella parabola che Gesù racconta per tratteggiare il carattere di una fede che teme di non trovare più “quando verrà” sulla terra (Lc 18,1-8); e corrisponde l’altrettanto incessante invocazione delle “anime di coloro che furono immolati a causa della parola di Dio e della testimonianza che gli avevano reso”. Anime che da sotto l’altare – come ci rivela il libro dell’Apocalisse - “gridarono a gran voce: ‘Fino a quando, Sovrano, / tu che sei santo e veritiero, / non farai giustizia / e non vendicherai il nostro sangue / contro gli abitanti della terra?’” (Ap 6,9-10).

Parole terribili così come terribili saranno il lungo “silenzio nel cielo”, all’apertura del settimo sigillo, e gli avvenimenti che accadranno al suono delle “sette trombe”. Soltanto alla fine la “Gerusalemme nuova” scenderà “dal cielo, da Dio” e si aprirà il tempo nuovo senza “più la morte, / né lutto, né lamento, né affanno, / perché le cose di prima sono passate” (Ap 21,1-4).

La profezia di Gesù, che sigilla il testo sacro da duemila anni, è promessa che dice “Sì, vengo presto!”. Ma tale promessa deve ancora compiersi e credere e sperare in essa invocando: “Vieni Signore Gesù” (Ap 22,20), pur sapendo che egli è con noi “tutti i giorni fino, alla fine del mondo” (Mt 28,20), è sempre più difficile, fino ai limiti dell’impossibile, quelli in cui i bisogni di Dio e dell’uomo tragicamente si toccano.

 

Daniele Garota

(2. fine)

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