Koinonia Agosto-Settembre 2021


 

 

UNA RIFLESSIONE IN MARGINE

AL MOTU PROPRIO DI PAPA FRANCESCO

TRADITIONIS CUSTODES

 

La rivoluzione forse più grande

Ognuno di noi

Lasciare socchiusa la porta.

         (Pierangelo Innocenti)

 

Come ha ricordato recentemente anche G. M. Vian, “è molto significativo che le traduzioni delle Scritture sacre segnino l’inizio delle diverse letterature cristiane, se non addirittura, in alcuni ambiti linguistici, della stessa produzione letteraria scritta: il caso più antico è quello della versione gotica, a metà del IV secolo, e il più celebre quello della traduzione in slavo antico, iniziata nel IX secolo, per le quali vengono appunto creati i rispettivi alfabeti, dal vescovo Ulfita, evangelizzatore dei goti, e dai due “apostoli degli slavi”, i fratelli Costantino (chiamatosi da monaco Cirillo) e Metodio” .

Ma del resto l’atto iniziale della predicazione apostolica, per come è narrata negli Atti, si concretizza proprio nella facoltà – trasmessa dallo Spirito Santo – di esprimersi e di essere compresi “in lingue diverse”.

Del resto “il fenomeno delle traduzioni è una delle caratteristiche culturali più interessanti nell’ambito del cristianesimo, come risalta con chiarezza soprattutto dalla storia delle molteplici versioni bibliche, ma anche degli altri testi cristiani, la cui circolazione ne viene ovviamente molto facilitata” .

Le comunità cristiane dei primi tempi, Paolo, in particolare, che risulta il più instancabile dei predicatori e degli annunciatori della “Buona Novella”, utilizzano lo strumento linguistico più adeguato, lasciando l’aramaico e l’ebraico, e passando al greco, la lingua ormai “comune”, diffusa e compresa in tutte le regioni gravitanti sul Mediterraneo, cioè, potremmo dire, in tutto il mondo allora noto.

L’utilizzo poi del latino nella liturgia e nella letteratura cristiana è subentrato al greco alla fine del secondo secolo su impulso di papa Vittore, per altro probabilmente di origine africana…

Gioverà poi ricordare che la traduzione della Bibbia in latino, operata da S.Girolamo alla fine del IV secolo, la cosiddetta Vulgata, il testo rimasto praticamente fino ai nostri giorni come unica versione autorizzata circolante nei paesi di lingua latina prima e poi di lingua neolatina e germanica, ebbe non poche resistenze e opposizioni nei primi anni, in particolare da parte di s.Agostino, che temeva che il nuovo testo, proveniente dall’originale ebraico e non dalla traduzione greca dei Settanta , comportasse un distacco del mondo cristiano occidentale rispetto a quello orientale di lingua greca.

Aggiungerò che i cristiani furono i primi a utilizzare la nuova e inusuale forma di libro strutturato come “codice” che andava a sostituire il tradizionale “rotolo” di papiro; “non sappiamo  dove e da chi sia stata messa in pratica questa idea per la prima volta, ma sappiamo ora che la nuova forma è direttamente connessa con i primi tempi del Cristianesimo e che l’inventore può essere veramente stato un cristiano”. 

Per pura curiosità, possiamo aggiungere che si è congetturato che il motivo che spinse i cristiani ad adottare questa nuova tipologia libraria, fu la necessità di poter rapidamente rintracciare nel testo i passi della Scrittura, durante le dispute teologiche: il codice consentiva questo con una estrema facilità, rispetto all’ingombrante e poco maneggevole rotolo.

Tutto questo per dire che fin dall’inizio la preoccupazione di chi si impegnava a diffondere il nuovo Verbo cristiano, era rivolta a rendere più comprensibile il messaggio e a farlo arrivare a più destinatari possibili. L’ecumenismo, a fronte del nazionalismo che invece ha sempre caratterizzato l’ebraismo, è stata da subito, pur con qualche legittimo tormento, la cifra della nuova dottrina.

Appare pertanto anzitutto antistorico, per rimanere su un terreno culturale, l’atteggiamento di chi vorrebbe conservare o addirittura riproporre l’utilizzo della lingua latina nella Messa.

Io non trascurerei anche un elemento esistenziale non marginale che esalta la potenzialità della traduzione della liturgia nelle lingue volgari: mi riferisco alla straordinaria opportunità di realizzare pienamente se stessi che viene offerta dalla consapevolezza che la propria esperienza di vita, anche quella religiosa, può essere vissuta in tutta la sua pienezza nella propria lingua d’origine .

Siamo in verità ben consapevoli che dietro questa annosa querelle si nasconde molto altro: ben più che una disputa linguistica e filologica è quella che divide anime e sensibilità diverse all’ interno della cristianità, del resto lo scisma che sancì la frattura tra la chiesa d’oriente e quella d’occidente nel 1054 partiva e ruotava attorno ad un “cavillo filologico”, il famosissimo filioque per certi versi risibile, se non avesse procurato lotte sanguinarie e guerre epocali.

Le vicende novecentesche dell’Unione Sovietica, le dispute letterarie che nel corso degli anni hanno periodicamente visto il coinvolgimento diretto e spesso tragico dei leader politici che si sono succeduti alla guida dell’URSS, confermano che molto spesso le aperture e le chiusure – determinate dalle alternanti stagioni politiche – in ambito letterario ed artistico, ma significativamente non in ambito storico e filosofico, dove il controllo deve essere assoluto, hanno costituito il segnale sintomatico di strategie sociali ed economiche in mutamento.

Insomma la disponibilità dei regimi cosiddetti “autoritari” a concedere una maggiore o minore libertà di espressione in ambito letterario ed artistico era il prodromo di ulteriori e ben più significativi mutamenti di indirizzo in ambito sociale ed economico. Segnali.

Segnali dunque anche quelli relativi alla questione di cui ci occupiamo ovvero il superamento (definitivo) o meno del Messale Romano.

La vera questione è inevitabilmente la direzione in cui la Chiesa del terzo millennio è incamminata.

Una oltranzista difesa di una tradizione secolare, o una progressiva apertura verso tutti i popoli?

Come credo dimostrino sufficientemente i riferimenti storici sopra richiamati, la “tradizione” della liturgia latina non ha alcun fondamento archetipico, è solo il prodotto di una evoluzione storica, in cui le esigenze e le contingenze maturate nella progressiva espansione del messaggio cristiano hanno richiesto l’utilizzo di un più efficace strumento linguistico di diffusione; l’obbiettivo è sempre stato quello di comunicare di farsi capire da più persone possibili.

Questa, della ecumenicità, è semmai la “tradizione” originariamente cristiana da difendere e perpetuare, sulle orme di Paolo e non solo, favorendo in ogni modo la diffusione e la partecipazione attiva dei fedeli e di tutti gli uomini e le donne al progetto di salvezza inaugurato da Gesù di Nazareth.

 

La (ri)costruzione della Chiesa non può essere la costruzione di un recinto all’interno del quale raccogliere i ‘salvati’ per riservarli ad un destino diverso dai pagani: è l’arca che cammina con il popolo, portata dal popolo in marcia verso la salvezza, e non certo il popolo trasportato all’interno dell’arca.

Non si tratta pertanto di ampliare il perimetro della Chiesa o di sostituirla con una struttura alternativa; si tratta di immaginare un popolo costantemente in cammino che raccoglie e raduna con l’annuncio della salvezza tutti gli esseri umani che incontra nel suo cammino.

L’appartenenza al progetto Dio, non può essere condizionata da accettazione di riti e strutture o riconoscimenti di gerarchie: Gesù non ha annunciato questo: è l’accettazione dell’offerta che Gesù ha fatto che di per sé diventa promessa e garanzia di salvezza: si fa parte del progetto credendo in esso. E mettendosi in cammino.

La nostra ricerca interiore deve mirare al raggiungimento di una capacità di essere al massimo grado quello che ci contraddistingue come cristiani, che ci fa diversificare dagli altri, quello che connota specificamente la nostra natura di cristiani: “amatevi l’un l’altro come io ho amato voi. Da questo conosceranno tutti che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni verso gli altri” .

Non ha indicato Gesù altre caratteristiche necessarie per appartenere alla sua schiera: solo il principio dell’amore è quello che discrimina.

Su questa base il primo impegno è a realizzare dentro di noi questa specificità che non né semplice né scontata: amare implica una responsabilità, una capacità di auto dominio, una disponibilità a superare egoismi ed egocentrismi, che richiede un esercizio su di sé costante e impegnativo.

A completamento di questo percorso dobbiamo pensare ad una Chiesa universale che comprenda tutti coloro che si riconoscono nel fondamento dell’amore.

Non si tratta di sostituire una gerarchia con un’altra, di modificare i criteri che determinano l’appartenenza e l’esclusione: si tratta di andare oltre ogni perimetro, ogni confine finora immaginato: una Chiesa senza confini, che abbia come unico segno di riconoscimento quello indicato da Gesù .

È difficile stabilire se questo mutamento possa avvenire per una iniziativa dall’alto (un nuovo concilio?) oppure per una implosione, in parte già in atto, delle strutture esistenti, con conseguente esondazione della cristianità.

Così come è difficile dire quanto sia per il cristiano auspicabile il deragliamento delle strutture attuali come configurato nella seconda ipotesi, né quanto sia legittima l’attesa ormai pluridecennale di una rimessa in modo della macchina conciliare; credo tuttavia che questa possibilità sarebbe comunque condizionata da un inevitabile (almeno data la situazione presente) controllo dall’alto della spinta innovativa. “Le rivoluzioni non piovono dal cielo”: quanto vale per la dimensione politica non può non valere, a fortiori, per i movimenti spirituali; l’immagine di un popolo in cammino, l’idea di un esodo, di una uscita dall’Egitto, mi pare quella più rispondente al bisogno attuale di visualizzare ciò che siamo e ciò che ci sforziamo di diventare.

Credo inoltre che dobbiamo progressivamente liberarci da residui di ebraismo ancora fortemente condizionanti la nostra dimensione cristiana. In questo senso il costante richiamo a S. Paolo deve costituire una significativa presa di coscienza ed una importante attualizzazione delle nostre radici: il processo di sradicamento del cristianesimo dall’alveo - certo importante – dell’ebraismo, deve essere compiuto proprio in questa direzione: superare la visione limitativa di una particolare caratteristica – etnica? sociale? culturale? devozionale? -  che determini a priori l’appartenenza alla comunità di eletti.

Gesù è di tutti, è per tutti coloro che lo accolgono e lo amano.

Amare significa realizzare compiutamente la propria esperienza di vita, esaltarla nelle sue più peculiari singolarità facendone un inno di ringraziamento e di lode al Signore: e questo non può essere fatto “sotto dettatura”; non si può amare a comando, in base a regole precise: si ama gridando ognuno con la voce che ha. E da quel coro di voci discordanti, dissonanti, disorientanti, ma convergenti verso la gioia di essere tutti diversamente e originalmente figli di Dio, nasce la comunità di pace di un popolo in cammino che non si riconosce in un percorso-itinerario comune, ma semplicemente nel desiderio, nella gioia di camminare: dove? Dove la strada ci guida, dove le nostre capacità, sogni, esperienze, casualità ci conducono: è la strada che determina il percorso, la meta è Dio.

 

Ezio Dolfi

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