Koinonia Agosto-Settembre 2021


UNA LETTERA DI MARIO BENCIVENNI

 

Carissimo Alberto,

in questa mia prima parte della giornata dedicata allo “spirito” quindi alle parole in forma di “preghiera”, anche se non è facile a causa delle notizie dell’ennesima tragedia umana che si sta perpetrando in Afghanistan e quello che è ancora più grave in nome di un Dio o del suo sinonimo islamico Allah, trovo finalmente risposta ad alcune delle tante stimolanti considerazioni contenute nelle tue “in altre parole”. Ti volevo comunicare solo due riflessioni suscitate dagli ultimi tuoi invii, scusandomi per la schematicità, ma prendile come testimonianza delle scintille che le parole possono provocare nello spirito di ciascuno di noi.

 

1. Fra i testi da te commentati per la XIX domenica del t.o. (8 agosto 20219) il brano di esordio tratto dal libro de I Re, dove si descrive il soccorso divino ad Elia che sta morendo di fame nel deserto mi ha colpito molto e mi ha riportato in mente un altro brano che avevo utilizzato per un incontro domenicale alla Comunità dell’Isolotto e che qui ti riporto (si tratta del noto passo dal libro di Genesi 25, 24-34):

Quando poi si compì per lei il tempo di partorire, ecco due gemelli erano nel suo grembo. Uscì il primo, rossiccio e tutto come un mantello di pelo, e fu chiamato Esaù. Subito dopo, uscì il fratello e teneva in mano il calcagno di Esaù; fu chiamato Giacobbe. Isacco aveva sessant’anni quando essi nacquero. I fanciulli crebbero ed Esaù divenne abile nella caccia, un uomo della steppa, mentre Giacobbe era un uomo tranquillo, che dimorava sotto le tende. Isacco prediligeva Esaù, perché la cacciagione era di suo gusto, mentre Rebecca prediligeva Giacobbe. Una volta Giacobbe aveva cotto una minestra di lenticchie; Esaù arrivò dalla campagna ed era sfinito. Disse a Giacobbe: «Lasciami mangiare un po’ di questa minestra rossa, perché io sono sfinito». Per questo fu chiamato Edom. Giacobbe disse: «Vendimi subito la tua primogenitura». Rispose Esaù: «Ecco sto morendo: a che mi serve allora la primogenitura?». Giacobbe allora disse: «Giuramelo subito». Quegli lo giurò e vendette la primogenitura a Giacobbe. Giacobbe diede ad Esaù il pane e la minestra di lenticchie; questi mangiò e bevve, poi si alzò e se ne andò.

 

Nel leggere mettere a confronto questi due brani mi è venuto subito in mente come l’amore divino soccorre chi sta morendo nel deserto sopraffatto da un compito che evidentemente viene giudicato sovrumano, e come invece l’uomo dimenticandosi anche i vincoli di fratellanza utilizzi lo stremo delle forze del fratello per ottenere in cambio di un piatto di minestra qualcosa che vale molto di più. Forse esegeti dell’Antico Testamento possono dare anche altre interpretazioni plausibili dell’acquisto della primogenitura da parte di Giacobbe (i valori del mondo dell’agricoltura su quelli della caccia, il legame con la madre e quindi l’affermarsi di una linea matriarcale/femminile di contro alla linea dominante del patriarcato/maschile). Tuttavia anche se si volesse dare un significato positivo alla presa di potere nel suo clan da parte di Giacobbe mi sembra indubbio che tutto ciò abbia in origine un grave vizio: la pratica di uno scambio ineguale, qui fra l’altro aggravato dalle gravi condizioni di necessità di uno dei contraenti.

Questa tremenda aporia che caratterizza il genere umano mi sembra trovi una soluzione solo nella predicazione e nella prassi di Gesù riferita nel Vangelo Nel Vangelo appunto Gesù diventa verbo di nuova novella che ha come elemento costante un completo ribaltamento dei principi dell’etica tradizionale per sostituirli con un concetto di bene che ha come fondamento l’uomo e non la legge degli uomini. Centro di questo ribaltamento è contenuto nel concetto di prossimità chiaramente espresso nella parabola del buon Samaritano e soprattutto nelle beatitudini enunciate nel discorso della montagna.

In questa direzione una chiesa che vuole essere comunità, sposa di Gesù, può vivere, esistere, crescere per prefigurare una salvezza che deve, e può, essere conquistata “in hac vita”.

Capisco che il tema è grossissimo e di non facile soluzione come dimostrano tante oscillazioni che scandiscono la vita di due millenni della chiesa che si richiama a Gesù, tuttavia perché non capire che una vera stagione sinodale sulla scia della prospettiva indicata dal Vaticano II non possa ripartire anche da una ripresa di conoscenza, consapevolezza anche critica, approfondimento di questi elementi di ribaltamento continuo del nostro modo di essere comunità/ecclesia che oltre a riconoscere la verità e il modo sempre nuovo di manifestarsi dello spirito, provi a vivere queste anche parziali ma fondamentali consapevolezze in una prassi conseguente? Forse se alle giuste e importanti difficoltà che la nostra ragione sa così bene mettere a fuoco ci affidassimo anche alla straordinaria potenza di un amore divino che ci incita al bene attraverso la forza della caritas e quindi alla speranza di poter vivere le beatitudini del discorso della montagna forse faremmo un piccolo, o enorme, passo avanti  come ecclesia/comunità come sposa fedele di Gesù.

 

2. In merito poi alle tue giustissime considerazioni fatte in occasione della domenica che celebra l’Assunzione in cielo di Maria. Condivido in pieno gli interrogativi circa la riproposizione di un modo sbagliato di porre la questione di Maria nel dibattito che su di lei ha sviluppato la Chiesa anche dopo il Concilio Vaticano II. Vorrei aggiungere solo due brevi e forse non significative considerazioni. Giustamente ricordi come nel Vangelo non si parli mai di assunzione di Maria e spieghi bene in che contesto ciò sia avvenuto. Nel Vangelo a mio avviso la figura di Maria è veramente l’altra grande figura che accompagna quella di Gesù: cioè sono le due figure complete in cui si incarna compiutamente la possibilità e necessità nella prospettiva di una vera salvezza, dell’umano e del divino, del corpo e dello spirito. E credo che sia essenzialmente questo il motivo per cui per esempio nella Commedia Dante indichi Maria come l’elemento fondamentale della sua salveza e quindi della salvezza degli uomini: come figura che più compiutamente con Gesù esprime il potere salvifico dell’amore divino che si manifesta con la carità e la speranza. Non è un caso che infatti Dante attribuisca a Maria un ruolo decisivo, sia all’inizio (Inferno, II) che alla conclusione (Paradiso, XXXIII), del percorso di salvazione  narrato nel suo poema: è Maria colei che nei cieli si muove a compassione  per lo stato di smarrimento di Dante e invita altre due donne  celesti (S. Lucia e  Beatrice) ad intervenire per trarlo fuori dalla selva oscura e avviarlo verso un viaggio di salvazione; ed è sempre Maria che intercederà alla fine di questo viaggio perché Dante possa contemplare il mistero della Trinità. E anche in questa rappresentazione  niente di edulcorato, ma un’ ineffabile bellezza piena di poesia che apre ad una prospettiva che riporta Dante di nuovo in terra in hac vita per iniziare quella salvezza finalmente possibile grazie alla buona novella pronunciata per tutti gli uomini dal frutto del suo ventre.

Scusandomi per la frammentarietà e la debolezza delle mie parole, e invitandoti a prenderle come un fraterno atto di prossimità e condivisione a quelle che settimanalmente ci regali, ti saluto fraternamente

 

tuo Mario

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