Koinonia Settembre 2019


(In margine all’articolo di Daniele Garota, Pregare Dio: perché?, Koinonia, 7-8/2019, pp. 28ss.)

 

Il bisogno di Dio

 

L’espressione è leggibile in due sensi, a seconda del valore che diamo al genitivo ‘di Dio’: se lo consideriamo soggettivo, allora ci riferiamo al bisogno che Dio ha (di noi?); se lo pensiamo oggettivo, allora è il bisogno che noi abbiamo di Dio.

Nel nostro caso l’ambiguità è voluta e necessaria perché la preghiera è motivata proprio in ragione di questo duplice bisogno: il nostro di ricorrere all’aiuto di Dio, in quanto incapaci con le nostre forze umane di risolvere i nostri bisogni e, aggiungerei, quelli degli altri; ma nella dinamica del pregare  interviene ed è determinante anche il bisogno che Dio ha di essere richiesto del Suo intervento perché la Sua incidenza nella storia non sia atto arbitrario, ma risposta ad una chiamata dei figli.

Il bisogno di Dio è quello di essere chiamato in causa, di vedere abdicato l’orgoglio dell’autosufficienza, di riconoscere che per sradicare le storture della storia, gli inciampi che ostacolano il realizzarsi della giustizia, i soli sforzi degli uomini non sono bastati e non bastano.

La devastazione che l’umanità, la parte ricca e prepotente dell’umanità, alla fin fine una minoranza, ha operato sul pianeta attivando un processo di degrado forse ormai irreversibile, esige una ribellione diffusa, capillare che imponga l’intervento di Dio, a fianco dei ribelli, per invertire o per lo meno bloccare questo sfrenato banditismo verso le più fragili e indifese delle cose e dei viventi.

Una parte di responsabilità in questo sfruttamento indiscriminato e finalizzato al dio profitto va attribuito anche a quelle autorità religiose che hanno favorito, nel corso del tempo, l’allontanamento del Regno di Dio dalla immanenza terrena per relegarlo nei confini del Cielo. Così la terra non più ‹casa di Dio› è divenuta oggetto di immondo mercimonio giacché, in quanto profana, profanabile.

Perché pregare Dio?  La preghiera è il territorio non contaminato in cui è ancora possibile passeggiare in compagnia di Lui: è il sentiero in cui è verificabile l’incontro con l’Altro.

L’Altro diverso da ciò che noi abbiamo ridotto, non solo in senso materiale, lo spazio – e il tempo – del nostro vivere.

La preghiera è margine che ci consente una riappropriazione del tempo e dello spazio liberati dalla contingenza: non è rifugio, non è alienazione, bensì la presa di coscienza del ‹bisogno› a cui deve seguire la ‹chiamata alle armi›. L’avvertimento del bisogno e la piena consapevolezza delle forze in campo ci deve indurre a richiedere l’aiuto dell’Altro: con le parole di Barth, citate da Garota, « a far vibrare in noi il sospiro di quello Spirito che non è il nostro spirito».

Dare l’assalto al cielo! Come i comunardi nella Parigi del 1871.

Dare l’assalto al cielo! Ecco dove deve mirare la preghiera! La preghiera! Con essa possiamo dare l’assalto al cielo!  E fare finalmente la rivoluzione!

Come si fa a pregare, cosa è la preghiera, a cosa serve?

Il punto di partenza di questo percorso può considerarsi, banalmente, la «fuga dal mondo» in quanto il mondo è “distrazione da Dio”. Il primo passo consiste nell› attingere al ricordo di Dio: poi si può andare oltre, cioè a Dio stesso.

 Mi pare questo un passaggio fondamentale: fare il vuoto della realtà, per abbracciare solo ciò che “ricorda Dio”: questo è ancora un medium, che ci pone in contatto con Dio: ma esiste la possibilità di un contatto con Dio immediato, assoluto: dialogo dell’anima col suo Creatore. Senza mediatori.

Arrivare al “silenzio mentale” aperto alle ispirazioni divine.

I primi assalti danno qualche risultato: vedi come vicino il cielo, ti sembra che la tua avanzata non si possa arrestare: il Signore ti fa avvertire frammenti di dolcezza, per invogliarti, per assetarti di Lui; e tu corri, sui sentieri della preghiera, sicuro di avere la vittoria in pugno, di sfiorare il cielo con le tue dita... ma poi ricadi e il tuo assalto si infrange sulla barricata del tuo io, su quelle pietre fatte di ricordi, pensieri, illusioni, vanità, vanità....

E l’assalto è fallito; guardi sconcertato le tue ferite, e il cielo lontano, ora, sembra inarrivabile: e proprio la barricata che tu hai eretto a difesa di te e delle tue cose, della tua misera vita, proprio quella barricata, al momento dell’assalto diviene l’ostacolo insormontabile, che segna la frattura tra la tua finitezza, la difesa disperata delle tue misere cose, e l’infinito del cielo, il sogno, la meta, l’Amore. “La preghiera è la deposizione di ogni pensiero”.

Smemorarsi di sé, per dare l’assalto al cielo; rimuovere le barriere che tu hai eretto, gettarsi oltre la barricata, col cuore in mano e tanta sete di Dio.

Ci vuole pazienza, calma, bisogna lavorarsi con costanza, per rimuovere, pietra su pietra, pensiero su pensiero, tutto ciò che ci risospinge a terra, è un lavoro metodico, paziente, contro mille ostacoli.

Nella nostra tradizione occidentale manca la partecipazione “fisica” alla preghiera; e non è detto che questo sia un bene.

Non si tratta di inseguire le tecniche del ‘raccoglimento profondo’ dei ‘virtuosi della preghiera’, anche se non c’è niente di male – come ci ricorda Seneca- a cercare qualche risorsa anche nell’accampamento dei nemici, ma si tratta piuttosto di far prevalere il tempo escatologico sul tempo cronologico e biologico.

Forse è attraverso un processo di tale tipo che l’uomo può “diventare preghiera” ed essa essere/ divenire una “funzione naturale” come appunto il battito e il respiro.

La spiritualità orientale, a mio avviso, tende verso una sorta di ipnotismo, di stato di in-coscienza, che costituirebbe una condizione di trance mistica, caratterizzata dalla perdita di contatto con la realtà circostante e di smemoramento del proprio io: si delinea come una “guida alla preghiera incessante”, che può portare, a mio avviso, ad una sorta di  “meccanica della preghiera”, di ritualità incosciente, come viene confermato anche dal noto racconto del mendicante cieco, le cui labbra, meglio, la lingua si muoveva costantemente, inconsciamente nel bisbiglio della preghiera: anche le genuflessioni rituali, e poi la pratica dell’OM mi par tendano verso il medesimo fine: il Karma?

Io credo che la preghiera debba essere qualcosa di diverso: è giusto di fronte al cospetto di Dio l’annullamento dell’uomo, il suo annichilirsi di fronte alla Maestà Divina, ma è anche vero che il Signore Gesù ci ha invitato a rivolgersi a Lui come a un Padre, e che Maria SS. ha la dolcezza e la comprensione di una Mamma: e allora la preghiera deve divenire dialogo fiducioso, amoroso devoto, col Padre, con la Madre, con la Sposa.

Non un “incantamento” indotto da pratiche “gimnosofistiche”, ma un rapimento che coinvolga tutta la nostra esperienza sensibile, non esclusa la nostra mente: al dialogo della preghiera dobbiamo partecipare con la nostra totalità, non sottraendo artificiosamente alcune nostre facoltà.

C’è, mi pare, il rischio di un fraintendimento sullo scopo della preghiera, che non deve condurci ad un “niente”, ad una visione diafana di un evanescente Dio, bensì alla percezione forte, ‘innamorata’ della sua presenza. E per fare ciò c’è bisogno di tutta la nostra forza intellettiva ed emotiva. Non dell’annullamento di essa.

Certo bisogna intendersi sul significato da dare alla preghiera. Ma è di questo che stiamo discutendo.

Ma come si fa a entrare dentro la preghiera?

Si deve cercare l’interiore (in interiore homine stat Deus...) , mentre tutto intorno a te sembra fremere, agitarsi, animarsi per impedire la tua ricerca di interiorità.

È il momento più difficile, ma è quello decisivo.

Si può cedere, accontentarsi “di averci comunque provato”, adagiarsi nella “buona volontà”, ma è proprio qui che si deve tirare fuori l’Amore oltre il verosimile, oltre l’apparente silenzio di Dio, e insistere, insistere, insistere, bussare, bussare, bussare; fino a quando? anche fino all’ eternità....

La difficoltà sta, almeno all’inizio, nello sgombrare la mente da tutte le vanità, e su questo sono d’accordo con quanti altri ad oriente ed a occidente si sono cimentati nella ricerca della preghiera; la mente va “aperta” non “inibita”, per accogliere la parola del Signore: la preghiera da richiesta, richiamo, invito, deve progressivamente trasformarsi in ascolto, fidente, amoroso, dell’Ospite divino che viene a visitarci nella preghiera.

Quando la tua mente, in un ardente amore di Dio esce, per così dire, a poco a poco dalla tua carne, e abbandona tutti i pensieri che vengono dai sensi, dalla memoria e dal temperamento, e si ritrova ricolma di sentimenti di adorazione e di gioia, allora puoi dire di essere giunto al confine della preghiera”. Al confine. Solo al confine.

 

È evidente che non si può trattare di una operazione meccanica: io mi pongo in ascolto, “do l’assalto al cielo”, ma poi è il Signore che sceglie i tempi (e i modi) per farsi sentire.

La Pace che Lui mi porta nella preghiera, non è l’obnubilamento del pensiero, una sorta di incantamento, ma l’acquietarsi fiducioso e lucido delle nostre passioni, dei nostri affanni, della nostra vita nell’Amore di Lui: si crea una sorta di distanza tra noi e il mondo circo-stante, vorrei dire sotto-stante, - per effetto appunto della preghiera che innalza, - mentre la vicinanza con l’Amore Divino ci scalda, ci dà il tepore della gioia, il riempimento della nostra solitudine: sono d’accordo che progressivamente dovrebbe essere la preghiera a cercare, a richiedere noi e non viceversa, e spero di arrivarci presto.

Ma nella prima fase di ascesa la volontà è fondamentale....

Diventare preghiera; dal movimento ascensionale di richiesta, all’ascolto, al semplice ascolto della confessione di Dio.

La confessione del Suo bisogno di lavorare con noi alla trasformazione del mondo.

 

Ezio Dolfi

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