Koinonia Ottobre 2018


Una riflessione leggendo Tolstoj

 

La morte di Ivan Il’ic

 

Un breve, intensissimo, romanzo di un gigante della letteratura: Lev Nikolaevic Tolstoj. È intitolato La morte di Ivan Il’ic e fu scritto nel 1886 da un Tolstoj già in là con gli anni.

Ha inizio nel Palazzo di Giustizia di Pietroburgo dove il protagonista occupava un ruolo di altissimo livello nella carriera di magistrato, godendo della stima di colleghi e conoscenti. Uno di questi irrompe con in mano un giornale sul quale è stampato l’annuncio della morte del Consigliere di Corte d’Appello Ivan Il’ic. Il nuovo  arrivato legge l’annuncio nel quale la moglie, “con animo affranto”, comunica a parenti ed amici la notizia della dipartita dell’“adorato consorte”.

I presenti commentano il fatto con parole di circostanza, parole del tutto avulse dai loro reali pensieri che ruotano esclusivamente sui vantaggi o svantaggi che quell’evento può arrecare alle loro esistenze. Il posto vacante che viene a determinarsi potrebbe offrire, infatti, a qualcuno di essi la possibilità di ricavare, da quel decesso, un avanzamento di carriera. Nell’immediato, tutti si  chiedono in che modo esimersi dal disturbo della visita di condoglianze e del funerale.

La ripercussione interiore che la notizia della morte di Ivan Il’ic provoca nell’ambiente di lavoro mette in luce il tema di tutto il libro: il divario tra quel che si dice e si professa e quello che veramente si pensa e si sente. La menzogna è talmente connaturata nei personaggi che neppure è avvertita come tale. 

In casa del morto la falsità è ancora più eclatante: alle fastose celebrazioni funebri fa riscontro l’interiore compiacimento dei presenti perché la morte sia toccata a Ivan Il’ic e non a loro stessi. A mezza bocca essi si confidano la loro principale preoccupazione: che l’evento non mandi in fumo la consueta piacevole serata al tavolo da gioco.

La vedova, avvolta in veli neri, pur recitando a perfezione la sua parte di moglie inconsolabile, non riesce a nascondere il suo vero sentire. Raccontando la fine dell’“adorato consorte”, non può non anteporre il proprio vissuto a quello di lui: “Ha urlato tre giorni interi per il dolore, racconta, lei non può immaginare quello che ho passato!” Nel denunciare il suo “animo affranto”, non riesce a nascondere quella che, in quel momento, è la sua unica preoccupazione: l’altissimo prezzo del posto al cimitero.

 

Chi era, chi è stato Ivan Il’ic per meritare tanta indifferenza? La sua vita, dice lapidariamente Tolstoj è stata “la più semplice, la più comune, la più terribile”.  Nelle pagine che seguono i tre aggettivi si rivelano sempre più pertinenti.

La più semplice”: figlio di un funzionario di Stato, era stato avviato all’Istituto di giurisprudenza per proseguire la carriera del padre. Aveva adempiuto gli auspici paterni raggiungendo risultati più che sufficienti senza incontrare particolari difficoltà.

Si era ben presto creato un ambiente sereno nel suo posto di lavoro. Non si era mai negato nulla che potesse allietargli l’esistenza. Nella sua giornata c’era posto per la professione, il riposo, lo svago. Di carattere gioviale si era creato una comitiva spensierata nella quale non mancavano avventura galanti.

Nello stesso ambiente si era scelto la ragazza più attraente e brillante e ne aveva fatto la sua sposa. Era una donna di estrazione nobile, sufficientemente facoltosa, “una donna a posto, insomma”, così come “a posto” era tutta la sua vita: dalla cura della sua persona alla scelta degli amici, dal modo in cui svolgere la professione di magistrato, all’abitazione arredata con sfarzo.

L’esistenza di Ivan Il’ic era stata “la più comune” in nulla discostandosi dal comune modo di pensare del suo ambiente, dai più comuni valori perseguiti: la piacevolezza innanzitutto, il decoro, l’inserimento nel ceto sociale più altolocato, il successo.

Questa maschera impeccabile, però cominciò ben presto a coprire  magagne. Quando la moglie rimase incinta iniziò a manifestare segni di scontento e gelosia nei confronti del marito. Si ebbero i primi bisticci che poi si fecero sempre più duri fino ad acquetarsi in una forma di quieto vivere che sconfinava nell’indifferenza. Di fronte alle serie difficoltà della donna (gravidanze frequenti, perdita di due bambini, malattie), egli reagì difendendo con tutte le sue forze la serenità del proprio mondo extrafamiliare. Dalla vita domestica pretese che rimanessero inalterati i diritti acquisiti: la buona cucina, la cura dell’abbigliamento e della casa, insomma il confort che il suo rango meritava. La sua esistenza non fu turbata dal dissidio con la moglie: in fondo i due coniugi non avevano mai preteso uno dall’altro più di quanto riuscirono a mantenere fino alla fine: lo svolgimento esteriore dei compiti convenzionalmente stabiliti.

Il “terribile” ebbe inizio per un piccolo banale incidente: un urto casuale del fianco contro la maniglia di una finestra. Una cosa da nulla, un lieve fastidio che però, col passare dei giorni, si tramutò in dolore. Ivan Il’ic si rivolse al medico curante che prescrisse analisi, avanzò dubbi e preoccupazioni.

Il protagonista cercò in ogni modo di impedire che quel dolore e quelle preoccupazioni venissero a turbare la sua tranquillità. Ci riuscì per un certo periodo, ma quando il dolore divenne molto acuto, quando le sue forze scemarono fino al punto di impedirgli di uscire di casa, quando i medici cominciarono a prospettargli diagnosi allarmanti, tutto il suo perfetto edificio di uomo realizzato e soddisfatto cominciò a crollare.

Egli si rese conto poco alla volta di essere vissuto in un mondo che si basava su presupposti precostituiti, subìti e non scelti: lavoro, ambiente sociale, matrimonio erano stati da lui accettati in modo così acquiescente da non lasciare spazio ad un minimo di creatività, sentimento, interesse che provenisse veramente da lui.  Vedeva minacciosamente avvicinarsi la morte come un terrificante, inarrestabile spauracchio che avrebbe messo fine ad una non-vita.

Intorno a lui si era creata l’ennesima cerimonia: volti carichi di apprensione, semioscurità, silenzio, medici sfuggenti e insinceri e le saltuarie apparizioni della moglie e della figlia sempre più lontane, sempre più odiate. Unica eccezione un domestico che, con affettuosa semplicità, obbediva alle sue richieste di aiuto.

La sofferenza aumentava, la disperazione si faceva più acuta, il terrore più paralizzante. L’inesorabile falciatrice si avvicinava: Ivan Il’ic “rimaneva solo con lei. Faccia a faccia con lei. E con lei non c’era niente da fare, solo guardarla e rabbrividire.”

Il morente guardava indietro a tutta la sua vita e per la prima volta realizzava che era interamente trascorsa nella menzogna, tranne pochi sprazzi di ricordi infantili. La raggiunta consapevolezza non faceva che aggravare il suo strazio. Chiese di essere lasciato solo e trascorse gli ultimi tre giorni urlando per il dolore.

Un’ora prima della morte, però, accadde un fatto inatteso: noncurante delle disposizioni, entrò nella stanza il figlio adolescente, si avvicinò al padre e scoppiò in lacrime. Lo seguiva anche la madre, piangente anche lei. Il moribondo per la prima volta provò un sentimento suo, autentico: la pietà per la sofferenza cha la sua morte stava infliggendo ai familiari. Quel semplice moto di pietà accese in lui uno spiraglio di verità e di speranza: mise fine al suo tormento.

 

Anna Marina Storoni Piazza

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