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dicembre 2020 - II DOMENICA DI AVVENTO (ANNO B)
Jacopo Da Ponte: San Giovanni Battista nel deserto (1558)
PRIMA LETTURA (Isaia
40,1-5.9-11)
SALMO RESPONSORIALE (Salmo 84)
Rit. Mostraci,
Signore, la tua misericordia e donaci la tua salvezza.
Ascolterò
che cosa dice Dio, il Signore:
egli annuncia la pace
per il suo popolo, per i suoi fedeli.
Sì, la sua salvezza è vicina a chi lo teme,
perché la sua gloria abiti la nostra terra.
Amore e verità s’incontreranno,
giustizia e pace si baceranno.
Verità germoglierà dalla terra
e giustizia si affaccerà dal cielo.
Certo, il Signore donerà il suo bene
e la nostra terra darà il suo frutto;
giustizia camminerà davanti a lui:
i suoi passi tracceranno il cammino.
SECONDA LETTURA (2 Pietro
3,8-14)
Una cosa non dovete perdere di vista, carissimi: davanti al Signore un solo giorno è come mille anni e mille anni come un solo giorno. Il Signore non ritarda nel compiere la sua promessa, anche se alcuni parlano di lentezza. Egli invece è magnanimo con voi, perché non vuole che alcuno si perda, ma che tutti abbiano modo di pentirsi.
Il giorno del Signore verrà come un
ladro; allora i cieli spariranno in un grande boato, gli elementi,
consumati dal calore, si dissolveranno e la terra, con tutte le
sue opere, sarà distrutta.
Dato che tutte queste cose dovranno finire in questo modo, quale
deve essere la vostra vita nella santità della condotta e nelle
preghiere, mentre aspettate e affrettate la venuta del giorno di
Dio, nel quale i cieli in fiamme si dissolveranno e gli elementi
incendiati fonderanno! Noi infatti, secondo la sua promessa,
aspettiamo nuovi cieli e una terra nuova, nei quali abita la
giustizia.
Perciò, carissimi, nell’attesa di questi eventi, fate di tutto
perché Dio vi trovi in pace, senza colpa e senza macchia.
VANGELO (Marco 1,1-8)
Inizio
del vangelo di Gesù, Cristo, Figlio di Dio.
Come sta scritto nel profeta Isaìa:
«Ecco, dinanzi a te io mando il mio messaggero:
egli preparerà la tua via.
Voce di uno che grida nel deserto:
Preparate la via del Signore,
raddrizzate i suoi sentieri»,
vi fu Giovanni, che battezzava nel deserto e proclamava un
battesimo di conversione per il perdono dei peccati.
Accorrevano a lui tutta la regione della Giudea e tutti gli abitanti di Gerusalemme. E si facevano battezzare da lui nel fiume Giordano, confessando i loro peccati.
Giovanni era vestito di peli di cammello, con una cintura di pelle attorno ai fianchi, e mangiava cavallette e miele selvatico. E proclamava: «Viene dopo di me colui che è più forte di me: io non sono degno di chinarmi per slegare i lacci dei suoi sandali. Io vi ho battezzato con acqua, ma egli vi battezzerà in Spirito Santo».
In altre parole…
Ad evitare che si continui a parlare di come passare il Natale in tempo di pandemia, ci vorrebbe una chiesa di credenti meno asservita a tradizioni e usanze: una chiesa che viva di vita propria e che decida di celebrare i misteri della fede quando, come e dove sia meglio, per dare un segnale di chiarezza e ad evitare lo snaturamento totale della sua stessa ragion d’essere tra gli uomini. Che senso avrebbe continuare a ripeterci che siamo nel mondo ma non siamo del mondo? Ma per arrivare a questa chiarificazione ci vorrebbe un nuovo inizio del credere, una rinascita nello Spirito, lasciando cadere tutte le scorie di “cristianità” che ci portiamo addosso.
Se l’Avvento vuole essere questo inizio, allora non può più essere un tempo di rimasticature, di rifacimenti, di perfezionamento spirituale dentro strutture mentali e comportamentali predefinite: una rinascita o è tendenzialmente totale o non è. E prima che opera nostra è qualcosa che viene da Dio, non “da sangue, né da volontà di carne, né da volontà d'uomo” (Gv 1,13). Quando perciò leggiamo “inizio del vangelo di Gesù, Cristo, Figlio di Dio”, non è semplice incipit del libro di Marco, ma equivale all’apertura del vangelo di Giovanni: “In principio era il Verbo…”. Il termine “vangelo” come designazione di un testo risale intorno al 150 d.C. con Giustino martire, ma all’origine è la buona notizia di Gesù Messia, Parola di Dio in persona. E questo non basta saperlo e dirselo, se non diventa fede viva.
Questo “inizio” deve far pensare piuttosto al “principio” del libro della Genesi come all’esordio del vangelo di Giovanni: e quindi alla fonte stessa della creazione e della redenzione. Questo inizio è Gesù stesso, il fatto nuovo di cui prendere atto e nella cui sfera entrare come in una nuova creazione. L’unica vera istanza di ogni conversione, se non vuole rimanere autopromozione morale, è “credere al gioioso annuncio” che ormai risuona nel mondo, a partire da Giovanni il Battista, per passare poi all’insegnamento di Gesù e alla predicazione apostolica. Ecco perché “vangelo” indica l’evento della predicazione, la Parola che corre nel mondo e annuncia il mistero di Cristo, non riducibile ad un fatto celebrativo ma da rivivere nella fede. È qui l’appello centrale pressante del vangelo che non può essere surrogato da niente altro, ma in cui tutto può confluire sia prima che dopo. Perché si tratta dell’amore che Dio ha per il suo Popolo e a cui credere.
Si tratta insomma della speranza messianica da non svendere per qualche piatto di lenticchie, qualcosa che forse è vissuto da pochi ma che è promesso a tutti: c’è il nostro Dio che parla al cuore di Gerusalemme per assicurare consolazione; ma al tempo stesso chiede di eliminare tutte le tortuosità e tutti gli avvallamenti che impediscono la sua venuta e la manifestazione della sua gloria o della sua salvezza. Al profeta si chiede di far sentire senza sosta la sua voce per gridare liete notizie a Sion e far sapere che “ecco il vostro Dio! Ecco, il Signore Dio viene con potenza, il suo braccio esercita il dominio”.
Il grido di Isaia viene ripreso, sempre nel deserto, da Giovanni il Battista, anello di congiunzione tra l’annuncio dei profeti e colui che sarà l‘annuncio in persona, Parola di Dio vivente. Egli viene nello spirito di Elia e si presenta “vestito di peli di cammello, con una cintura di pelle attorno ai fianchi, e mangia cavallette e miele selvatico”: come chi vuole essere solo “voce” e non rappresentare altro. E questo non tanto per ragioni penitenziali, come siamo portati a pensare, ma come condizione per quella rinascita che comporta spoliazione totale, quella conversione di cui Gesù parla a Nicodemo (Gv 3). Prima che istanza etica, vangelo è opera e potenza di Dio per la vita di ogni credente, un vero nuovo inizio nella storia della salvezza.
Possiamo ricordare la risposta data da Gesù agli inviati di Giovanni: “Che cosa andaste a vedere nel deserto? Una canna agitata dal vento? Ma che cosa andaste a vedere? Un uomo avvolto in morbide vesti? Ecco, quelli che portano degli abiti sontuosi e vivono in delizie stanno nei palazzi dei re. Ma che andaste a vedere? Un profeta? Sì, vi dico, e uno più di un profeta” (Lc 11,24-26). Essere “uno più di un profeta” compete a Giovanni perché è lui ad indicare colui che è in mezzo a noi e che noi non conosciamo. Egli è il più grande tra i nati di donna che però si fa piccolo nel nuovo ordine di cose del regno dei cieli, non degno di stare ai piedi di colui che viene dopo di lui.
Non è un caso che il grido di Giovanni risuoni nel deserto, dove ad operare è solo la mano di Dio e noi ci ritroviamo unicamente nelle sue mani. Ma quando egli deve coinvolgere altri, in modo che la rinascita non sia solo sua ma per tutto il Popolo di Dio, eccolo nel Giordano, quasi nuovo passaggio delle acque, per proclamare e praticare un battesimo di penitenza: un nuovo inizio al di fuori di ogni sistema religioso e da ogni ritualizzazione in qualche altro sistema sacro. A ricordarci che nascere da Dio non è mai frutto di riti o di apparati, ma accade se e quando crediamo nel Nome di colui che egli ha mandato. Lo sappiamo perfettamente, ma quanto tutto questo impronta la nostra mentalità e la nostra comunicazione ecclesiale? Non ci giriamo troppo intorno?
Neanche il battesimo di conversione di Giovanni è fine a se stesso per qualche ideale di perfezione o di “vita religiosa”: il suo sbocco naturale è portare a “credere al vangelo”, andare davanti al Signore a preparargli le strade e preparare a lui un popolo ben disposto. Non basta confinare questi fatti nel passato e nel nostro immaginario religioso, perché si tratta della perenne nascita alla fede attraverso la conversione: “Convertitevi e credete al vangelo”! E bisognerebbe avere la stessa onestà e umiltà di Giovanni quando confessa di non essere lui il Cristo (cfr. Gv 1,20), e ci dà questa lezione: “Viene dopo di me colui che è più forte di me: io non sono degno di chinarmi per slegare i lacci dei suoi sandali. Io vi ho battezzato con acqua, ma egli vi battezzerà in Spirito Santo”.
Vuol dire che neanche il Gesù che noi veneriamo e amiamo in mille modi è l’ultima spiaggia, come potrebbe far credere la cortina di devozioni che lo avvolge e lo occulta quasi come possesso esclusivo. Attraverso di lui andiamo incontro ad un altro battesimo nel quale egli stesso viene battezzato (Mc 10,38) e di cui egli dice: “Vi è un battesimo del quale devo essere battezzato; e sono angosciato finché non sia compiuto!” (Lc 12,50). È il battesimo di sangue della sua croce, che in qualche modo compie e prefigura la fine dei tempi e la nascita del mondo nuovo che verrà: quei “nuovi cieli e una terra nuova” di cui ci dice la Lettera di Pietro.
L’apostolo si trova davanti alla crisi di fede della prima generazione cristiana che mette in forse l’avvento di questi cieli nuovi e terra nuova, perché l’attesa parusia o manifestazione del Signore nella sua gloria non si è ancora verificata e sembrerebbe inutile attenderla. Per riportarli alla imprescindibile dimensione escatologica della fede egli invita a considerare che non è questione di calcoli o di scadenze temporali, ma che il compiersi della promessa e dell’evento è legato alla magnanimità del Signore, “perché non vuole che alcuno si perda, ma che tutti abbiano modo di pentirsi”. È un criterio che ci sfugge, ma che non impedirà il compimento finale della salvezza, da tenere più che mai presente come necessità e opportunità di conversione e di un battesimo nello Spirito.
Se ci chiediamo quale sia la nostra sensibilità messianica e coscienza escatologica oggi, forse non si va al di là delle parole del “Credo”, quando recitiamo “aspetto la vita del mondo che verrà”, non so con quanta consapevolezza e soprattutto con quali ricadute nella vita cristiana e per la presenza della chiesa nel mondo. Tutto sommato siamo figli di una chiesa insediata come realizzazione del regno di Dio, e forse più preoccupata della salvaguardia e della conservazione del creato che della nuova creazione nel gemito e con le doglie del parto (cfr. Rm 8).
Quando Pietro vuole risvegliare e ravvivare la coscienza dei cristiani e sostenerli nella fede ricorda che anche gli eventi finali sono “effetto della parola di Dio” come quelli della prima creazione, ed è su questa base che vanno attesi. Mentre quando ci descrive come verrà il giorno del Signore, oltre a ricordare gli insegnamenti di Gesù, probabilmente ha tenuto presenti gli sconvolgimenti della morte sul Calvario, sempre in atto ma destinati a compiersi nel giorno e nell’ora che neanche il Figlio dell’uomo conosce.
Non è da escludere che la nostra diffidenza, sufficienza, ritrosia con cui guardiamo ai cieli e alla terra nuova (salvo poi evocarli con eccessiva enfasi) dipendano dal fatto che di conseguenza dovrebbe essere diversa la nostra vita nella santità della condotta e nelle preghiere, mentre aspettiamo e affrettiamo la venuta del giorno di Dio, portando a maturazione i tempi e in qualche modo cooperando all’avvento di cieli nuovi e terra nuova!
Nel calo generale della coscienza escatologica, si pensa e si lascia pensare che la fede nella vita eterna sia in opposizione o in alternativa alla fede impegnata nella storia. Diciamoci francamente che questo modo di pensare è frutto di pigrizia mentale o è strumentale a prese di posizione che poco o nulla hanno a che fare con la fede alla quale ci richiama Pietro: “Perciò, carissimi, nell’attesa di questi eventi, fate di tutto perché Dio vi trovi in pace, senza colpa e senza macchia”. (ABS)