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marzo 2022 - III DOMENICA DI QUARESIMA
(ANNO C)
James Tissot: La Torre di Siloe (1886-1894)
New York, Brooklyn Museum
PRIMA LETTURA (Esodo 3,1-8.13-15)
In quei giorni, mentre Mosè stava pascolando il gregge di Ietro, suo suocero, sacerdote di Madian, condusse il bestiame oltre il deserto e arrivò al monte di Dio, l’Oreb.
L’angelo del Signore gli apparve in una fiamma di fuoco dal mezzo di un roveto. Egli guardò ed ecco: il roveto ardeva per il fuoco, ma quel roveto non si consumava.
Mosè pensò: «Voglio avvicinarmi a osservare questo grande spettacolo: perché il roveto non brucia?». Il Signore vide che si era avvicinato per guardare; Dio gridò a lui dal roveto: «Mosè, Mosè!». Rispose: «Eccomi!». Riprese: «Non avvicinarti oltre! Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è suolo santo!». E disse: «Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe». Mosè allora si coprì il volto, perché aveva paura di guardare verso Dio.
Il Signore disse: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sovrintendenti: conosco le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dal potere dell’Egitto e per farlo salire da questa terra verso una terra bella e spaziosa, verso una terra dove scorrono latte e miele».
Mosè disse a Dio: «Ecco, io vado dagli Israeliti e dico loro: “Il Dio dei vostri padri mi ha mandato a voi”. Mi diranno: “Qual è il suo nome?”. E io che cosa risponderò loro?».
Dio disse a Mosè: «Io sono colui che sono!». E aggiunse: «Così dirai agli Israeliti: “Io Sono mi ha mandato a voi”». Dio disse ancora a Mosè: «Dirai agli Israeliti: “Il Signore, Dio dei vostri padri, Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe mi ha mandato a voi”. Questo è il mio nome per sempre; questo è il titolo con cui sarò ricordato di generazione in generazione».
SALMO RESPONSORIALE (Salmo 102)
Rit. Il Signore ha pietà del
suo popolo.
Benedici
il Signore, anima mia,
quanto è in me benedica il suo santo nome.
Benedici il Signore, anima mia,
non dimenticare tutti i suoi benefici.
Egli perdona tutte le tue colpe,
guarisce tutte le tue infermità,
salva dalla fossa la tua vita,
ti circonda di bontà e misericordia.
Il Signore compie cose giuste,
difende i diritti di tutti gli oppressi.
Ha fatto conoscere a Mosè le sue vie,
le sue opere ai figli d’Israele.
Misericordioso e pietoso è il Signore,
lento all’ira e grande nell’amore.
Perché quanto il cielo è alto sulla terra,
così la sua misericordia è potente su quelli che lo temono.
SECONDA LETTURA (1Corinzi
10,1-6.10-12)
Non voglio che ignoriate, fratelli, che i nostri padri furono tutti sotto la nube, tutti attraversarono il mare, tutti furono battezzati in rapporto a Mosè nella nube e nel mare, tutti mangiarono lo stesso cibo spirituale, tutti bevvero la stessa bevanda spirituale: bevevano infatti da una roccia spirituale che li accompagnava, e quella roccia era il Cristo. Ma la maggior parte di loro non fu gradita a Dio e perciò furono sterminati nel deserto.
Ciò avvenne come esempio per noi, perché non desiderassimo cose cattive, come essi le desiderarono.
Non mormorate, come mormorarono alcuni di loro, e caddero vittime dello sterminatore. Tutte queste cose però accaddero a loro come esempio, e sono state scritte per nostro ammonimento, di noi per i quali è arrivata la fine dei tempi. Quindi, chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere.
VANGELO (Luca 13,1-9)
In quel tempo si presentarono alcuni a riferire a Gesù il fatto di quei Galilei, il cui sangue Pilato aveva fatto scorrere insieme a quello dei loro sacrifici. Prendendo la parola, Gesù disse loro: «Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subito tale sorte? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo. O quelle diciotto persone, sulle quali crollò la torre di Sìloe e le uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo».
Diceva anche questa parabola: «Un tale aveva piantato un albero di fichi nella sua vigna e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò. Allora disse al vignaiolo: “Ecco, sono tre anni che vengo a cercare frutti su quest’albero, ma non ne trovo. Tàglialo dunque! Perché deve sfruttare il terreno?”. Ma quello gli rispose: “Padrone, lascialo ancora quest’anno, finché gli avrò zappato attorno e avrò messo il concime. Vedremo se porterà frutti per l’avvenire; se no, lo taglierai”».
In
altre parole…
La torre di Siloe che crolla fa pensare alla Torre di Babele che frana: insieme sono simbolo di distruzione locale con vittime umane e del disfacimento generale di un mondo ed ordine delle cose minato alle sue fondamenta. Il fatto che l’immagine di Tissot si ispiri al passo del vangelo, al tempo stesso in cui sembra fotografare il presente, ci dice che, se avvenimenti tragici quali quelli che stiamo vivendo vanno vissuti alla luce del vangelo, questo a sua volta si propone nella sua drammatica radicalità.
È la realtà ed è la radicalità della fede “potenza di Dio”, purtroppo depotenziata in sistema sacrale, in sentimento religioso, in formule confessionali, in apparati rituali, quasi mai proposta come forza per vincere il mondo o come punto di appoggio per sollevarlo. Con Abramo “padre del credenti” siamo stati riportati alla sua origine e alle sue potenzialità generative di figli numerosi quanto le stelle del cielo e la sabbia del mare! Solo immagini suggestive o visione realistica del credente? Promessa sempre valida?
Questa innumerevole moltitudine - “moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, razza, popolo e lingua” (Ap 7,9) - è quella destinata ad essere Popolo di Dio. Ed eccoci allora a Mosè, chiamato a dare vita e corpo a questo popolo dal grido uscito dal roveto che bruciava per il fuoco ma che non si consumava: era il grido di chi aveva osservato la miseria del suo popolo ed era sceso per liberarlo quindi in circostanze di semplice esistenza quotidiana. Siamo sempre nella linea di forza della promessa fatta ad Abramo e della sua fede.
L’iniziativa è tutta dalla parte di chi fa sentire la propria voce dal roveto e si presenta a Mosè con queste parole: “Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe”. C’è da dire che purtroppo ci preoccupiamo più delle risposte da dare, magari prese a prestito senza neanche aver ascoltato la voce di chi ci parla, mentre tutta l’attenzione andrebbe a quanto il Dio dei nostri Padri dice e fa per noi. E a quanto poi ci dice di fare in suo nome, quel nome che Mosè chiede gli venga rivelato per potersi presentare al popolo ridotto in miseria e schiavitù in Egitto: quel popolo che egli dovrà condurre in libertà verso la terra promessa, che evidentemente non poteva essere l’Egitto!
E se Abramo è il “padre dei credenti”, Mosè è il messia del popolo di Dio o dei credenti: al primo è promessa la terra, al secondo è affidata la missione di raggiungerla, esodo tutt’altro che facile. E quando Gesù nella sinagoga di Nazaret applica a se stesso le parole del profeta Isaia relative al messia, fa capire espressamente che in lui si compie l’attesa e che egli è pronto a farsi guida di questo nuovo popolo: avrà il suo banco di prova nei quaranta giorni del deserto e una nuova investitura, dopo quella del Giordano, come messia nella preghiera sul monte, quasi un passaggio di consegne da Elia e Mosè al Figlio dell’uomo per il suo esodo.
Un disegno messianico attraversa tutta l’esistenza e l’azione di Gesù nella profondità del suo spirito, ma anche nella sua quotidianità. Questa volta viene coinvolto da alcuni su un fatto di cronaca, quasi a voler provocare una sua reazione e condanna della barbarie dissacrante di Pilato, per dare un segnale di liberazione dal potere e dalla schiavitù patita dai Romani. Ma il suo sguardo va alla radice stessa del male, al di là dei frutti dell’albero cattivo. Egli vive in mezzo ad un popolo costituito e sicuro di sé, con uno spirito messianico temporalistico: prima che da schiavitù esterne, questo popolo deve essere liberato dalla schiavitù di se stesso, dal fraintendimento del suo ruolo messianico. E questo anche oggi come ieri!
Quando Gesù dice ad alcuni Giudei che avevano creduto in lui che la verità della sua parola li avrebbe resi liberi, gli rispondono risentiti: “«Noi siamo discendenti di Abramo, e non siamo mai stati schiavi di nessuno; come puoi tu dire: Voi diverrete liberi?» Gesù rispose loro: «In verità, in verità vi dico che chi commette il peccato è schiavo del peccato»” (Gv 8,33-34). Una condizione da cui si esce attraverso una conversione radicale, quella necessaria per poter credere al vangelo.
Che Gesù non fosse ignaro e indifferente davanti ad eventi tragici, lo dimostra il fatto che sarà lui stesso a ricordare i morti per il crollo della torre di Siloe, per ribadire che quelle vittime non erano più peccatori di tutti gli altri, ma che una conversione radicale è necessaria per una liberazione che ci dia la libertà dei figli di Dio, quella che rende veramente liberi: “Se dunque il Figlio vi farà liberi, sarete veramente liberi” (Gv 8,36). Non è l’appello ad una conversione religiosa rispetto ad un autonomo andamento degli eventi nel mondo, ma è una conversione tout court, che solo se è totale – evangelica e laica insieme - può avere le sue ricadute storiche.
Per chi, come Gesù, è alla ricerca e a servizio di una salvezza totale – non solo religiosa e non solo storica – diventa “parabola” anche quel tale che dopo aver fatto piantare un albero di fichi nella sua vigna si aspetterebbe giustamente i frutti, che per tre anni non ottiene. Non è giusto che sfrutti il terreno inutilmente e la decisione è di tagliarlo, salvo proroga ottenuta dalla buona volontà del vignaiolo. Una vera conversione dovrebbe portarci ad essere piante vive che portino “frutti degni di conversione” (Mt 3,8). Ma sembra che neanche dare tempo al tempo porti a qualche ravvedimento, e noi continuiamo a pensare che si tratti di qualcosa di religioso che non ci appartiene.
In questo nostro difficile esodo siamo messi in guardia da ogni illusione o falsa sicurezza da san Polo quando ci dice senza mezzi termini: “Chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere”, e quando ci presenta come esempio e come ammonimento la sorte di tanti nostri padri, che condivisero l’esodo con tutte le sue peripezie, ma che rimasero sterminati nel deserto, a causa della loro mormorazione e ribellione, ma soprattutto perché il loro era un cammino solo materiale, mentre la roccia spirituale che li accompagnava era il Cristo.
L’ammonimento è che per noi è arrivata la fine dei tempi, in termini ultimativi e radicali, e non possiamo permetterci tergiversazioni e dilazioni; non per ragioni di rigorismo o di perfezionismo, ma semplicemente per ragioni di realtà e verità delle cose. Non servirebbe a nulla diventare nuovo Popolo di Dio come espressione giuridica o nominale: un nuovo Popolo messianico nasce dalle prove a cui va incontro nel suo cammino nella storia, che però è chiamato ad attraversare con lo spirito del Figlio dell’uomo e non come contropotere mondano. È bene ricordare che la sequela di Gesù non è finalizzata a motivi di salvezza personale, ma è partecipazione attiva alla sua stessa vocazione messianica. Basterebbe riportare le cose al proprio posto, per avere una via di uscita a problemi annosi di vita ecclesiale. (ABS)