Koinonia Aprile 2016
SCIENZIATI, FILOSOFI E TEOLOGI ALLA RICERCA DEL
“FONDO DELLE COSE”
INTRODUZIONE
C’è un legame fra ciò che anima il mondo e ciò che anima il cuore dell’uomo? Vecchie domande della filosofia che qui saranno trattate partendo dalle scienze moderne nella loro ricerca del “fondo delle cose”.
Che cosa c’è al fondo delle cose, del mondo e del cosmo che permette l’evoluzione, a partire dall’eventuale Big-Bang fino ai giorni nostri?
Che cosa c’è nel cuore dell’uomo che gli dà così tanta energia per cercare, per tentare di capire, rimbalzare nell’esistenza, adattarsi, trasformare in forza le proprie fragilità?
Il punto di partenza del nostro studio è il seguente: i fisici e molti scienziati oggi scoprono che la scienza non può raggiungere il fondo delle cose, il quale tuttavia “sostiene” i fenomeni descritti dagli scienziati. Ci si riallaccia allora a un vecchio problema della filosofia, quello della ricerca dell’Origine, dell’Unità, dell’Uno caro a Plotino e a molti altri. Analizzeremo poi con Nicola Cusano come la vera unità è, in realtà, trina, attraverso un ragionamento di pura logica. Poi il teologo Cusano ci porterà verso l’ “Unitrinità”, come fondo del “fondo delle cose” e dimostreremo come questo Soffio del fondo delle cose si ritrova sia nel cosmo in evoluzione che nel cuore dell’uomo in trasformazione; questo con lo scienziato Teilhard de Chardin, il filosofo Lanza del Vasto e il teologo Maurice Zundel.
IL FONDO DELLE COSE SFUGGE AL FISICO CHE PURE LO CERCA
Già Pascal diceva: “L’ultimo gradino della ragione è riconoscere che c’è un’infinità di cose che la superano”.(1) Questo pensiero di Pascal può interessare lo scienziato d’oggi che, per rendere conto della dinamica della materia-energia, è portato a “pensare in relazione, in interazione”, anche fra la materia e l’osservatore, in una nuova relazione soggetto-oggetto. Tutto è interazione-relazione. La realtà che la scienza può conoscere è una realtà d’interazione.
La realtà in sé è irraggiungibile per lo scienziato: ecco ciò che la fisica moderna, nella scia di Kant, a suo modo, ci dice. Per Kant e per più di un filosofo, non è possibile dire niente della realtà in sé! Per altri, come il fisico e filosofo Bernard d’Espagnat,(2) questa realtà è “velata”. Seguiamo il ragionamento di quest’ultimo.
La principale differenza fra la fisica classica e la fisica quantica è essenzialmente che la prima è descrittiva, mentre la seconda è fondamentalmente predittiva. E più precisamente: predittiva di osservazioni. Dire che la fisica classica è descrittiva significa che il suo scopo è quello di togliere il velo delle apparenze, cioè scoprire e descrivere ciò che, sotto quel velo, la realtà è in sé. Quando hanno a che fare con una teoria di questo tipo, i filosofi dicono che essa s’inserisce nel quadro del realismo ontologico. Una teoria del genere può essere interpretata come riguardante la conoscenza di ciò che è, di ciò che esiste del tutto indipendentemente da noi. Il realismo ontologico è un concetto talmente naturale che sembra dettato dall’evidenza e dal buon senso.
Ora, per quanto la cosa sembri strana, quando si cerca di presentare la fisica quantica in questo modo, cioè mettendo l’accento sull’esistenza nello spazio di realtà corrispondenti ai simboli matematici che la teoria utilizza per le sue predizioni, s’incontrano le peggiori difficoltà. Si riscontra che la nozione stessa di cose esistenti in se stesse, nello spazio, separatamente le une dalle altre, tende a svanire, a profitto di una certa globalità che non appare allo sguardo, ma si nasconde nelle equazioni (vedi la non-separabilità e la nozione di causalità allargata nella fisica quantica).
In fisica quantica, più che delle asserzioni descrittive del tipo “esiste” (quella cosa o quell’altra), troviamo enunciati di questa forma: “se si fa questo, si osserverà quello”, cioè assiomi nei quali il pronome ‘si’, generalmente l’osservatore umano, è parte integrante dell’enunciato. Simili enunciati sono perfettamente oggettivi, se con ciò vogliamo dire che sono veri per chiunque. Ma non sono ontologicamente interpretabili.
B. d’Espagnat ritiene che si debba abbandonare quel concetto apparentemente così evidente e pieno di buon senso che abbiamo chiamato realismo ontologico. Egli pensa che nel loro insieme le nostre conoscenze scientifiche non riguardano la realtà in sé – alias “il reale”, il “fondo delle cose” - ma soltanto la realtà empirica, cioè l’immagine che, vista la sua struttura e le sue capacità limitate, lo spirito umano è portato a formarsi di quella realtà. E, tenuto conto di questa globalità nascosta, dobbiamo abbandonare l’idea che gli oggetti, elementari o composti, esistano in se stessi, in ogni momento, in ogni istante, in un dato luogo dello spazio. Sembra che sia più vero dire che, se noi li vediamo così, è perché la struttura dei nostri sensi ci porta a percepire la realtà in quel modo. Tuttavia d’Espagnat si allontana da Kant in un punto, cioè se la sua analisi della fisica lo allontana dal materialismo, non fa per questo di lui un filosofo idealista. Egli è pienamente d’accordo con il grosso della sua famiglia scientifica nel dire che tutto non si riduce a delle idee che possiamo avere. Considera evidente che qualcosa ci resiste: un fondo delle cose che tuttavia è talmente al di là di tutti i nostri concetti, comuni o matematici, che i fenomeni – quelli che percepiamo e quelli che ci descrive la scienza – non ci permettono di decifrare. Non ci danno di lui che dei vaghi barlumi. “Qualcosa resiste alle nostre rappresentazioni: la realtà è lì, ma rimane velata”. Al contrario degli idealisti, d’Espagnat pensa che sia incoerente pretendere di scartare radicalmente la nozione di reale in sé e la nozione di essere. Bisogna dunque, secondo lui, conservare la nozione di essere, ma stando attenti a non rivestirla di tutte quegli elementi – spazialità, località, temporalità, ecc – di cui la fisica attuale ci rivela che sono relativi a noi....e che, implicitamente, postulano coloro che proclamano che “l’essere è la materia”. Questo essere, questa realtà ultima è fondamentalmente inarrivabile con i metodi sperimental-deduttivi della scienza i quali danno accesso solo alla realtà empirica, in altre parole ai fenomeni, cioè alle apparenze valide per tutti. D’Espagnat non esclude tuttavia che alcuni tratti della fisica – le costanti fondamentali per esempio – possano corrispondere a attributi veri dell’essere. È per questo che egli parla di “realtà velata”. Il fisico di oggi quindi diventa consapevole del fatto che la realtà gli sfugge, che è “velata” e che lui non può averne, nel migliore dei casi, che “qualche barlume”, come dice d’Espagnat. Il quale tuttavia aggiunge di aver bisogno di questa realtà irraggiungibile come “fondo delle cose” per “sostenere” la realtà empirica che, sola, si offre all’analisi scientifica. Ma la realtà empirica si presenta generalmente all’analisi sotto l’angolazione del molteplice.
Anche in questo caso, ritroviamo un altro pensiero di Pascal: “La moltitudine che non si riduce all’unità è confusione; l’unità che non dipende dalla moltitudine è tirannia”.(3)
Così, l’evoluzione coniuga l’uno e il molteplice, l’unione e la selezione nella crescita della complessità, forza di unione e forza di dispersione, ordine e disordine, cooperazione e selezione (per maggiori dettagli, vedi il mio testo L’esperienza dell’incompiutezza. Lo scienziato e il teologo alla ricerca dell’Origine).(4)
Thierry Magnin
Rettore dell’Università Cattolica di Lione
1. Blaise Pascal, Pensées, 267 (Ed Brunschvig)
2. B. d’Espagnat, Traité de physique et de philosophie (Fayard 2002)
3. B.Pascal, Pensées, 871 (Ed.Brunschvig)
4. T.Magnin, L’expérience de l’incompletude, Lethielleux, DDB, 2011