Koinonia Aprile 2016


LE TERRIBILI MANI DEL “DIO VIVENTE”*

(Eb 10,31)

 

La porta santa del giubileo straordinario della misericordia si è aperta, verso il finire di un anno, il 2015, lungo il quale tutti abbiamo dovuto assistere alla silenziosa strage, nelle acque del nostro Mediterraneo, di oltre 3.200 esseri umani e tra loro di 700 bambini. E non ci si illuda, la strage in quel mare quotidianamente continua e lì non è che una piccola parte dei bambini che altrove e nello stesso momento continuano a morire di fame o sotto i bombardamenti, oppure sotto le grinfie dello sfruttamento e delle grandi ingiustizie di cui sappiamo: basterebbe anche soltanto aprire una fessura sui bambini schiavi e sul traffico degli organi per non dormire la notte. Ed è talmente noto tutto questo e da molti anni, che nessuno ci fa più nemmeno caso. No, nemmeno nell’anno della misericordia purtroppo, il nostro cuore riesce ad aprirsi alla miseria altrui, le migliori intenzioni non bastano!

Dunque la domanda è questa: perché non riusciamo ad aprire abbastanza il nostro cuore alle terribili cose che accadono intorno a noi? E perché soprattutto non riusciamo a farlo in quanto credenti nel Dio di Abramo, nel Dio di Gesù Cristo?

Per cercare di rispondere, cercherò di avvalermi di una intuizione conosciutissima di un pensatore di origini ebraiche scomparso nel 1994, Elias Canetti: “È strano: di fronte a quel che accade oggi solo la Bibbia ha una forza adeguata, ed è proprio la sua terribilità a consolarci” (La provincia dell’uomo). Ecco, cosa significa che nella Bibbia non sono tanto la tenerezza e la misericordia, ma la terribilità a consolarci? Forse è questione di credibilità, di coraggio di dire la verità anche quando non la si vorrebbe dire perché fa male e ci mette in crisi: insomma, dice in parole povere Canetti, se la Bibbia è capace di offrire ancora luce e speranza, è proprio grazie a quel coraggio tramite il quale non ha rimosso nulla, occultato nulla di quel che di terribile è accaduto nella storia di Dio e degli uomini. Sì, è proprio perché ci aiuta a non chiudere la nostra anima al terribile qui e ora che il terribile rivelato dalla Bibbia è ancora in grado di donarci speranza.

Cerchiamo a questo punto, da credenti, di vedere se la Bibbia aveva e ha qualcosa da dirci, e proprio all’interno di quelle espressioni e di quei fatti che a noi risultano inaccettabili. Se Dio stesso, cioè, non abbia da comunicarci proprio le verità più profonde per la fede, attraverso l’esperienza dell’impossibile misericordia e della necessità estrema dei suoi terribili interventi di giustizia: pensiamo alla strage del Mar Rosso per esempio, dove - come ha messo in evidenza il rabbino Emil Fackenheim riferendosi a un midrash nel quale Dio rimprovera gli israeliti che gioiscono di fronte al mare che inghiotte l’esercito del faraone - il dramma vero è questo: “Anche nel momento supremo ma pre-messianico della sua presenza salvifica Dio non può salvare gli israeliti senza uccidere gli egiziani. Così la gioia infinita del momento…, si confonde con il dolore, ed il dolore è infinito perché la gioia è infinita” (La presenza di Dio nella storia).

È dramma in cui le due cose devono necessariamente stare insieme nel cuore del credente. Pensiamo anche alla strage dei primogeniti in Egitto: che colpa avevano quei bambini? Ma se è per questo un pensiero dovrebbe pure andare anche alla strage degli innocenti di Betlemme per volontà di Erode, mentre Gesù bambino viene portato in Egitto. Sono domande che ogni volta dovremmo porci e invece non ci poniamo, fermandoci prima, cercando di metterci il cuore in pace, rimuovendo ciò che è terribile, ma proprio per questo rimuovendo anche ciò che è verità e dona speranza.

Le parole scontate e ovvie del vogliamoci tutti bene, quando si ha notizia delle cose terribili che nel frattempo accadono nel mondo, e dirlo perché c’è ancora tanto bene nel mondo, oppure, perché tanto poi alla fine Dio è così buono che perdona tutto e tutti, è come dire che tutto sommato poco c’importa della giustizia di Dio e del dolore degli altri che ci vivono accanto.

A noi, Dio morto crocifisso e 700 bambini affogati nel solo ultimo anno a causa del loro desiderio di avere anche solo una decima parte di quello che noi possediamo scontenti e annoiati di tutto, non ci fanno più né caldo né freddo. Ma non è proprio a causa di questo nostro essere né caldi né freddi che il “Principio della creazione di Dio” ci vomiterà dalla sua santissima “bocca” (Ap 3,15-16)? Di questo è costituita la potenza di giustizia e giudizio che sorge da sempre dal cuore di Dio, e che dovrebbe, se fossimo veramente affamati e assetati di giustizia, consolarci. Noi invece preferiamo stenderci a prendere il sole sulle spiagge del nostro Mediterraneo con la solita musichetta nelle orecchie e per di più infastiditi se qualcuno viene a dirci che lì poco oltre il mare ha buttato a riva l’ennesimo corpicino di un bambino profugo affogato. Cosa possiamo farci d’altra parte?

E invece una cosa potremmo farla: Indignarci, non dormire di notte, avere “fame e sete della giustizia” (Mt 5,6). Avere quella “nostalgia del totalmente altro” di cui parlava Horkheimer, “una nostalgia secondo la quale l’assassino non possa trionfare sulla sua vittima innocente”. E più avanti, in quella stessa intervista Horkheimer ritorna su questo concetto e specifica che per nostalgia intende la “paura che Dio non ci sia”, perché alla fine soltanto Dio potrà riscattare col suo giudizio le vittime innocenti, in particolare quelle che sono morte e persino morte da gran tempo. Per questo perdere questa nostalgia, perdere questa paura che Dio non ci sia sarebbe, alla fine – dice ancora Horkheimer - null’altro che “la morte dell’amore” (La nostalgia del totalmente altro). Dell’amore che va oltre la morte, dell’amore che proprio quand’è perfetto – dice la Prima Lettera di Giovanni - ci porta ad avere “fiducia del giorno del giudizio” (4,17).

Duemila anni fa, Dio è venuto tra noi come un semplice uomo come dicendoci: fate di me quello che volete, potete anche ammazzarmi, ma non dite che non vi amo, che non sto facendo di tutto per mantenere quanto fin dal principio ho promesso, che non sto facendo di tutto per salvarvi.

E allora noi lo abbiamo preso e ci siamo detti, con semplice egoismo alla Caifa: “È conveniente che un solo uomo muoia per il popolo, e non vada in rovina la nazione intera!”. Ed è in quello stesso giorno che “decisero di ucciderlo” (Gv 11,50-53).

È vero, noi non c’eravamo, ma nel respiro dei millenni siamo anche noi parte della cricca, sia quando come Caifa vogliamo che il Cristo muoia, sia quando come Pietro vogliamo che non muoia. In entrambi i casi infatti noi finiamo per cadere nell’unico errore che ci porta a tradire Gesù e Dio: pensarla non “secondo Dio, ma secondo gli uomini”, pretendere di stare davanti anziché “dietro” al Messia lacerato dal dolore per tutto quanto gli sta per cadere addosso (Mt 16, 22-23). Qui il vero inganno della trappola satanica è tutto nel suo presentarsi a noi come del tutto ragionevole e umanamente giusto. Mai satana chiede a Gesù e a noi cose irragionevoli. Volete che Gesù non desiderasse in cuor suo ciò che Pietro e che noi tutti desideriamo? E cioè: “non sia mai che uno come Gesù, il Giusto per antonomasia, debba morire e morire in quel modo!”.

Qui è il punto massimo del tradimento di Pietro, mai si rifletterà abbastanza su questo e difficilmente anche noi non finiamo per ricadere sempre nello stesso suo errore, perché è un umanissimo errore, è la tentazione di stare sempre dalla parte che riteniamo plausibile e ci aggrada, che ci fa tornare tutti i nostri ragionevoli conti, buttando alle ortiche tutto il resto.

Va bene essere misericordiosi, amare il nemico, perdonare sempre eccetera. Quando poi però la “parola” del Cristo si fa “dura!”, come nella sinagoga di Cafarnao, e fortemente ci “scandalizza” (Gv 6,59-61), allora si svicola via, si fa finta che tali parole non siano dette da Gesù o che egli voleva dire altro da ciò che sulle prime intendiamo. E tra questi discorsi duri da intendere c’è la crocifissione e la morte di Dio, c’è l’invito a morire come lui è morto per essere suoi discepoli, ci sono i discorsi escatologici di Gesù, c’è l’elemento, per così dire, apocalittico della crocifissione del mondo negli ultimi giorni.

Noi, quando ancora riusciamo a farlo, ci accostiamo al corpo e al sangue del Signore cercando di sentire l’amore con cui è morto al nostro posto per salvarci, ma in realtà riusciamo ormai a sentire pochissimo, il nostro timore e tremore è scomparso. Noi - diciamoci la verità - non siamo poi così convinti né del nostro non essere degni di partecipare alla mensa del Signore, né del nostro peccato (che poco c’entra con l’elenco dei peccatucci della morale) né, a fronte di questo, del nostro bisogno di essere salvati. Eppure, senza tale bisogno nel cuore, senza tale consapevolezza di peccato, noi non riusciremo mai a dire quel necessario “Ma”: “ma dì soltanto una parola ed io sarò salvato!”. A salvarci non sono le nostre buone opere o il nostro essere senza peccato, noi mai siamo degni, anche quando fossimo appena usciti dal confessionale, di ricevere “l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo!” (Gv 1,29). I nostri peccati comunque restano a renderci indegni, fino a quando “il giudizio” non avrà “gettato fuori” il “principe di questo mondo” (Gv 12,31), il “padre” di quella “menzogna” (Gv 8,44) che oggi forse più che mai governa il mondo.

Per mettere in risalto la nostra indifferenza riguardo al sacrificio del Cristo, Charlie Chaplin aveva pensato, tanti anni fa, di mettere in scena un brano teatrale poi mai realizzato. Una piazza vuota con intorno tavoli pieni di gente che chiacchiera, beve e sgrana noccioline e biscotti. Ad un certo punto da una via si odono delle urla violente: un gruppo di soldati sta trascinando un uomo insanguinato che geme sotto il peso di una croce che gli hanno messo sulle spalle. Arrivati al centro della piazza qualcuno conficca a terra la grande croce di legno e subito dopo ci inchioda quell’uomo, che urla col sangue che gli cola da tutte le parti. Si lamenta, pian piano rantola, fino a emettere un grido di domanda disperata e morire. E la gente intorno seduta ai tavoli? Non si muove di un millimetro, semplicemente guarda, ascolta con la massima indifferenza e senza togliersi il gusto di sorseggiare il proprio caffè.

Questi, a me pare, siamo un po’ noi cristiani di oggi in fila a far la comunione nelle nostre chiese. A cominciare da me naturalmente, è difficile chiamarsi fuori dal morbo dell’indifferenza che tutti ci sta invadendo fin dentro i cuori e le menti.

Nei suoi studi attorno all’elemento sacrificale, René Girard ci ha fatto notare che il nostro scandalizzarci di fronte alla violenza verbale di certi salmi, per esempio, è la conseguenza del nostro essere ormai del tutto indifferenti “di fronte alla violenza reale”. Insomma, da “professionisti della compassione” deploriamo il modo brutale di qualcuno che reagisce dicendo: “Beato chi afferrerà i tuoi piccoli / e li sbatterà contro la roccia” (Sal 137,9), ma senza avere minimamente a cuore “la cosa più importante”, la violenza reale subita dalle vittime che in quel momento stanno gridando, da quelle madri che hanno appena visto soldati babilonesi prendere i propri figli sfracellandoglieli davanti ai loro occhi contro la roccia. Quei bambini di cui “Rachele”, la madre che li piange, “non vuole essere consolata, perché non sono più” (Mt 2,18).

“Tu hai un braccio potente, / forte è la tua mano, alta la tua destra”, dice il salmista rivolto a Dio (Sal 88,14). Ma le mani del Dio vivente, le sue potentissime mani, quelle con cui ha modellato l’adam in principio, quelle con cui ha liberato Israele dall’Egitto, sono state ad un certo punto forate da chiodi e martello, forate per l’eternità. Il Risorto ha mani piagate e c’è da credere che così saranno anche il giorno in cui lo incontreremo faccia a faccia, là dove ci asciugherà le lacrime e ci servirà alla tavola del suo Regno. Ecco perché oltre a essere potentissime e dolcissime sono anche terribili le mani del Signore. È il dolore ad averle rese tali.

Ma ora è risorto, si dice, ora regna, ora è nella gloria. Ma possiamo ancora credere in un Dio buono e regnante con tutto quanto accade ogni giorno davanti ai nostri occhi? Come diceva il buon Pascal: ancora oggi Gesù è in agonia, ancora oggi a noi tocca vegliare per tenergli compagnia nel suo dolore, ancora oggi soffre l’indicibile in ogni fanciullo che muore affogato, in ogni vittima innocente stritolata dal suo aguzzino, in ogni persona che muore di fame.

Soltanto nel giorno del Giudizio ci accorgeremo che nel fratello affamato, assetato e nudo che ci tendeva bisognoso e tremante la sua mano c’era il Signore stesso a soffrire.

Voglio qui riportare quanto scritto da Piero Stefani nel suo libro recente dedicato alla misericordia. “Nella scena finale il giudizio non si basa sul compimento di azioni malvagie (…). I reprobi si astengono, rimuovono, fingono di non vedere, restano indifferenti. Chi può reggere a tale giudizio? L’omissione è il tessuto delle nostre vite. Essere ritenuti responsabili per quanto non facciamo è condizione che, assunta sul serio, fa tremare i polsi, Saremo giudicati sul parametro esigente che individua nell’indifferenza la più radicale di tutte le colpe. Il giudizio incombe sulle nostre quotidianità” (I volti della misericordia).

Sergio Quinzio, nelle sue ultime pagine dedicate al mistero del male, andava oltre, individuando una gravità superiore rispetto a quanto non facciamo e non diciamo, addirittura in quanto non pensiamo. Sì, anche quando ci troviamo nell’impossibilità di fare qualcosa o di dire qualcosa, ci resta almeno la possibilità di pensare ciò che dovremmo pensare, pensare alla nostra indifferenza, al nostro limite riguardo alla miseria altrui, e soffrendo in cuor nostro per questo, chiedendo pietà al Signore e a quei fratelli sfortunati che non riusciamo ad aiutare. Sì, perché Dio non guarda ciò che guarda l’uomo, l’uomo guarda le apparenze, Dio guarda il cuore, guarda se il nostro cuore è chiuso o aperto di fronte alle miserie altrui. E mi viene qui in mente il detto chassidico, secondo il quale quando uno vorrebbe gridare con tutte le forze che ha in corpo e non ci riesce è allora che grida veramente.

Nel suo Un commento alla Bibbia ad un certo punto Quinzio mette a tema un versetto del Libro della Sapienza: “Più potente di tutto è la pietà” (10,12). E inizia dicendo quello che solitamente tutti si dice e cioè che mentre l’uomo deve essere misericordioso perché “è debole” e peccatore, “la violenza della vendetta appartiene a Dio che è forte”. E invece nella storia sacra le cose si sono per così dire ribaltate al punto che “Dio concede a Giacobbe di vincere la lotta che ha ingaggiato con lui ‘perché sapesse che più potente di tutto è la pietà’” (Sap 10,12). Dunque affinché la misericordia vinca “sulla stessa giustizia di Dio”. Ma questo è possibile “in quanto è forte, come un sovrano il cui potere è talmente grande da non poter essere insediato dai nemici”. Infatti è scritto: “Padrone della forza tu giudichi con mitezza” (Sap 12,18). Oppure “Hai compassione di tutti, perché tutto puoi” (Sap 11,23). Ed è qui, dice Sergio, che dobbiamo capire perché alla fine si renderà necessaria la giusta giustizia di Dio, anche se sarà terribile, come terribile è stata la crocifissione del Giusto. La giustizia violenta che Dio sarà costretto a mettere in atto alla fine altro non sarà che “la sconfitta di Dio, il fallimento della sua intenzione misericordiosa” (Volume II p. 76). Sì, in queste pagine scritte vent’anni prima, noi già troviamo il titolo di un suo libretto uscito nel 1992: “La sconfitta di Dio”.  Il pensiero di Quinzio è stato coerente, dall’inizio alla fine.

Se non comprendiamo questo essere messo alle strette di Dio, non riusciremo a comprendere né il diluvio ai tempi di Noè, né la crocifissione di Gesù, né le parole con le quali Gesù ha annunciato giorni nei quali tornerà a essere come ai tempi di Noè. Insomma non è Dio che di proposito e di sua volontà distrugge il mondo, siamo noi a distruggerlo mentre a Dio non resta altro che strappare il resto dei suoi fedeli da tale distruzione, come fa un pastore che strappa dalla bocca del leone il brandello della sua ultima pecora rimasta. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare Quinzio diceva così: “L’apocalisse è un eccesso di misericordia, salva la vittima uccidendo il carnefice” (Volume II p. 109) dopo che per l’intera storia è accaduto che i carnefici hanno ucciso le loro vittime.

Il dramma vero di Dio è dunque quello di dover abbandonare alla distruzione ciò che ha amato fino a dare la vita pur di salvarlo. Ma questo dramma, questo dolore in Dio non può essere percepito là dove “la salvezza appare troppo poca cosa perché valga la distruzione di questo mondo in cui domina la morte. La morte, cioè, viene accettata e viene rifiutata la speranza della salvezza” (Volume II p. 108). Là dove perciò consideriamo troppo poca cosa il vino nuovo del Regno accontentandoci del vino vecchio che abbiamo qui e ora. O meglio, rifiutiamo il vino nuovo per timore di abbandonare gli otri vecchi i quali, lo sappiamo, si spaccherebbero il giorno in cui dovessimo versarlo in quelli. Insomma è dire a colui che è andato a ricevere il suo “titolo di re”, col desiderio un giorno di tornare tra noi: resta pure dove sei, qui si va avanti anche senza di te, e poi è davvero troppo ciò che tu pretendi da noi. E troviamo qui forse, alla fine di questa parabola, parole tra le più terribili emesse dalla bocca di Gesù: “E quei miei nemici, che non volevano che io diventassi loro re, conduceteli qui e uccideteli davanti a me” (Lc 19,12-27).

Insomma, soltanto avendo a cuore “anzitutto il regno di Dio e la sua giustizia” (Mt 6,33) si può invocare la salvezza pur conoscendo il prezzo che c’è da pagare. La stessa distruzione dei nemici è voluta infatti perché altra via non c’è per salvare la vittima dalle grinfie del suo carnefice: se il leone non l’uccidi la sua bocca finisce di stritolarla e ingoiarla tutta la pecora, c’è poco da fare. È l’impotenza di Dio che giustifica nel cuore del credente il prezzo da pagare pur di ottenere giustizia, affinché non solo il mondo e le sue vittime, ma persino Dio si salvi. Forse potremmo arrivare a dire che se Dio dovesse salvare solo se stesso eviterebbe di intervenire, ma dal momento che deve salvare i suoi figli, coloro che ha promesso a ogni costo di salvare, allora troverà la forza e il coraggio di intervenire. Questo dramma dovrebbero anzitutto avere a cuore i fedeli a Dio, cominciando a percepire il dramma che è già nel cuore di Dio, un Dio che abbiamo visto a che punto è arrivato di rinuncia a sé e alla propria vita pur di salvarci.

Il Dio che ad un certo punto agisce con “il giorno della vendetta” nel suo “cuore” – come dice Isaia – è un Dio che ci guarda senza trovare “nessuno” ad aiutarlo. È dunque un Dio che mendica aiuto, conforto e nessuno tra noi se ne accorge. È quello il momento in cui soltanto il suo “braccio” sarà lì a salvarlo, la sua “ira” a sostenerlo (Is 63,4-5). La violenza di Dio nella Bibbia non è il frutto della sua potenza ma l’esito ultimo e drammatico del suo dolore e della sua impotenza, insieme al bisogno che ha di salvare le sue creature, di strapparle dalla gola del male, dell’ingiustizia e della morte.

Se “il giudizio sarà senza misericordia contro chi non avrà avuto misericordia” (Gc 2,13), non è per fedeltà alla legge davanti a un trasgressore, ma perché Dio si trova nell’impossibilità di salvare diversamente i suoi fedeli, le cui “anime … gridano a gran voce” da sotto l’altare dell’Apocalisse, dal luogo in cui l’“Agnello” è stato seguito dai martiri, da coloro che sono stati “immolati a causa della parola di Dio e della testimonianza che gli avevano reso”. Cosa gridano? Questo: “Fino a quando, Sovrano, / tu che sei santo e veritiero, / non farai giustizia /e non vendicherai il nostro sangue / contro gli abitanti della terra?” (Ap 6,9-10).

Se il prezzo della misericordia è il Dio crocifisso dal mondo, il prezzo della giustizia sarà Dio che non ce la fa più a sostenere il peso dell’ingiustizia e dell’iniquità che grava sul mondo, fino al punto di essere costretto ad abbandonare a loro stesse le sue creature diventate carnefici di altre creature o massa d’indifferenti di fronte alle ingiustizie. Questo ci dicono i profeti, Gesù e tutto il Nuovo Testamento, là dove parlano della distruzione apocalittica del tempo ultimo.

Ma la domanda allora è: la distruzione apocalittica del mondo negli ultimi giorni viene da Dio? Com’è possibile che sia Dio a distruggere quel mondo che pure “ha tanto amato da dare il Figlio unigenito” (Gv 3,16-17) pur di salvarlo?  Il problema non è Dio che punisce con ira, il problema è capire perché Dio ad un certo punto si trova costretto ad abbandonare alla catastrofe apocalittica creature che pure restano interamente sue e che ama da morire. E allora si capisce perché il Dio della misericordia che infinitamente ama e pazienta e il Dio della giustizia che improvvisamente interviene con ira, sia l’unico Dio di Gesù. Un Dio che non interviene tanto per punire la colpa dei carnefici quanto per rispondere al dolore delle vittime che gridano a lui. In questo senso la giustizia contiene in se l’apice della misericordia, dell’apertura di cuore al dolore dei miseri con cuore che ama fino a spezzarsi. Il Dio di misericordia è anche e forse soprattutto quando interviene con giustizia che ha il cuore che gli si spezza.

Il biblico Ebed JHWH (Servo, Agnello sofferente di Dio) di cui ha parlato Isaia (42, 1-4; 49, 1-6; 50, 4-9; 52,13-53,12) e il biblico Go’ el (Vendicatore del sangue), di cui ha parlato il Libro dei Numeri (35,19), non sono altro che manifestazioni d’impotenza e di dolore dell’unico Dio, di “JHWH che salva e strappa dalla morte i suoi fedeli e il suo popolo” (Bibbia di Gerusalemme, nota al Salmo 18,15). Il titolo di “Agnello”, dato a Gesù per ben 28 volte nel Libro dell’Apocalisse è proprio in corrispondenza del capitolo 6 - quello in cui gli “immolati” gridano “a gran voce” - che ci viene descritto come invaso da terribile “ira” (v. 16). L’Agnello è “come immolato”, è vero, ma sta “in mezzo al trono”, “in piedi” e si mostra con “sette corna e sette occhi”: come dire che è pronto all’attacco e vede tutto, e che proprio perché porta i segni della vittima sgozzata che è “degno di ricevere potenza” e vincere finalmente sul male, sull’ingiustizia e sulla morte (Ap 5, 6-12).

Dio accoglie con tutto il cuore le grida delle vittime e degli oppressi che gli chiedono di intervenire, esattamente come un padre e una madre accolgono le grida del loro bambino. Ma non gli è facile intervenire vedendosi costretto a farlo con forza sul carnefice, anch’egli figlio, per strappargli dalle grinfie la vittima. E spesso vittima più della seduzione che della violenza (cfr Mt 24,24).

Dio infinitamente ama e perdona, infinitamente ha misericordia. Il problema vero è però quello di trovarsi davanti chi, pur perdonato e amato, non accoglie né perdono, né amore, né salvezza. Il Padre del figliol prodigo corre con cuore trepidante e braccia aperte incontro al figlio che ha deciso di tornare, ma se quel figlio avesse trovato il modo di guadagnare un bel gruzzolo stando in mezzo ai porci e le prostitute, al padre non sarebbe restato che piangere e attendere inutilmente il ritorno del figlio.

Se togliamo dalla Bibbia le terribili parole apocalittiche che ci vengono dai profeti, da Gesù e dalle numerosissime pagine sparse qua e là in tutto il Nuovo Testamento, noi rischiamo di togliere lo specifico del cristianesimo, i significati più veri e profondi della misericordia di Dio. In definitiva, noi rischiamo di eliminare l’ansia, il desiderio della salvezza promessa da Dio fin dai giorni antichi e che abita forse più che nelle creature tutte, nel cuore stesso del Creatore, costretto a diventare redentore inflessibile nella sua giustizia proprio perché ad un certo punto gli sarà impossibile non essere misericordioso di fronte alle vittime che gridano a lui.

La distruzione apocalittica del mondo non viene da Dio, come da Dio non è venuta “la morte” (cfr. Sap 1,13) e nemmeno la crocifissione di Gesù (cfr Mt 21,37). Non è vero che tutto ciò che accade sia Dio a volerlo. Anzi, ci sono cose che Dio proprio non vuole ma che subisce, e persino certe parti della Torah, ci sono state date da Dio non per suo pieno desiderio e volontà ma per la “durezza” del nostro “cuore”, come dunque una sorta di rimedio a evitare il peggio dopo che le cose sono andate ben diversamente da come Dio le voleva “all’inizio” (Mt 19,8). Il “principe di questo mondo” non è ancora stato “gettato fuori” dal “giudizio” di Dio (Gv 12,31).

Se dunque sono terribili le mani del “Dio vivente!” (Eb 10,31), è perché sono sue le mani piagate delle vittime e dei martiri, le mani vuote dei poveri che gridano a lui, costretto a intervenire più per riscattare il loro dolore che per punire le nostre colpe.

L’ira dell’Agnello è terribile perché a essere terribile è l’ira dei poveri e delle vittime che incessantemente gridano a lui dai millenni della storia.

 

Daniele Garota

 

 *Presso il Monastero di Montebello - Isola del Piano (PU) - si è tenuto, sabato 12 marzo 2016, un Convegno dedicato a Sergio Quinzio sul tema: “MISERICORDIA E GIUSTIZIA”. Relatori erano: Piero Stefani, Alessandra Costanzo, Luigi Verdi e Daniele Garota, del quale riportiamo l’intervento.

 

 

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