RIFLETTENDO
SUL RITO DEI MONDIALI DI CALCIO
L’attività agonistica
non poteva nascere e svilupparsi che in Grecia, ove il culto "sano"
del corpo faceva parte integrante della civiltà. Omero, contemporaneo delle
prime Olimpiadi, ci descrive nell’ "Iliade" i giochi funebri per la
morte di eroi illustri, quali Patroclo ed Ettore. Il fatto che Virgilio si
soffermi anch’egli sulle gare in occasione dei funerali di Anchise ci conferma
che l’attività sportiva era connessa alla poesia epica, la più alta fra tutte.
I "peana" di Pindaro, esaltazioni dei vincitori delle gare di
Olimpia, appartengono a tale genere letterario, ed immortalano i vincitori,
considerati alla stregua degli eroi nelle città dell’Ellade da cui provengono.
Quando le gare perdono
l’originario carattere élitario per trasformarsi in svago di massa - e ciò
inizia nel tardo periodo repubblicano di Roma per proseguire poi durante tutta
l’epoca imperiale - esse decadono inevitabilmente. Degli schiavi
momentaneamente privilegiati (i gladiatori) hanno il compito di divertire le
folle misere e oziose, suscitandone i più bassi istinti e nello stesso tempo
canalizzando questi in direzione innocua per il potere. Si tratta di
"drogare" un popolo che ha tanti motivi per essere scontento: accrescendone
l’alienazione i giochi del circo costituiscono un ottimo sistema di evasione,
quindi si rivelano efficaci strumenti politici.
Le competizioni sportive
riacquisteranno la loro nobiltà quando nell’esausto organismo della tarda
romanità comincerà ad affluire sangue nuovo, a seguito delle invasioni dei
popoli germanici. Si pensi alle celebri "chansons de geste", riprese
dai nostri poemi cavallereschi, in particolare dall’ "Orlando
Furioso". Nei comuni medievali si avranno invece dei giochi connessi alla
struttura borghese e cittadina, quali i palii, di cui resta ancor oggi qualche
prezioso residuo.
Lo sport dell’età
moderna, nato anch’esso come attività élitaria, compare alla fine del secolo
scorso nei Paesi democratici dell’Europa settentrionale. E’ vero che abbastanza
presto le dittature del Novecento
lo volgono a loro interesse, servendosene per celebrare le loro presunte
glorie e per allontanare le masse dalla politica. Anche a questo riguardo
"Roma docet"...
Con il passare dei
decenni, e in particolare dopo la Seconda Guerra Mondiale, il
"football" si è dimostrato, tra tutti gli sport, il più adatto ad
intrattenere le folle. La sua storia è travagliata, non lineare e diversa da
Paese a Paese.
Con il professionismo si
ha una profonda trasformazione, che non significa ancora degradazione, anche se
il rischio di questa si fa sempre più probabile. Poi, da noi come in tanti
altri Paesi, il rischio diventa realtà: le iperboliche remunerazioni degli
atleti si situano in un ampio contesto di "business", come è normale
in un’epoca consumistica e demotivata. Il gioco è a duplice protagonista: da
una parte stanno degli idoli, schiavi di una misera fama e dei capricci di una
moda manipolata dai mass-media; dall’altro lato vi sono gli spettatori, che
nelle contese cui assistono trovano un compenso all’alienazione, uno sfogo per
l’aggressività, una proiezione per tante aspettative deluse, e che quindi sono
anch’essi schiavi dell’immagine che viene loro proposta.
Poiché il problema -
ovvio per tanti, ma per tanti no - è che il gioco del calcio è considerato da
molta gente uno dei valori supremi, in un’epoca in cui abbiamo assistito alla
crisi generale degli autentici valori. Affettività ed emotività trasmigrano
verso questo mitico continente: per esso si ride, si piange, ci si entusiasma e
ci si dispera, si grida, si insulta, si uccide o si muore di crepacuore. E’ per
questo che non ha senso demonizzare gli "hooligans", nazionali e
stranieri: essi non fanno che portare alle estreme conseguenze un’attitudine collettiva.
Si sente dire: tutto ciò
fa ormai parte di una nostra presunta "cultura", che divinizza pure
attori e cantanti; se vogliamo essere moderni dobbiamo adeguarci ad essa. Ma io
rifiuto questa modernità. Lo sport non mi dispiace, tutt’altro, a condizione
che sia armonia e che abbia il senso delle proporzioni. Ciò che non posso
assolutamente accettare è l’ideologia - idolatria dello sport e del
"football" in particolare. Siano pure gli atleti dei professionisti,
ed abbiano i vantaggi dei bravi professionisti: guadagnino pure cinque milioni
al mese, che mi pare non tutti i laureati guadagnino. Ma chi è disposto a
discutere l’amoralità dei loro lauti stipendi?
E’ per tutto questo
insieme di cose che sono lieto che la squadra italiana non abbia vinto il
campionato del mondo. Non solo per il comportamento del pubblico che fischiava
l’inno nazionale argentino (cosa che mi fa vergognare di essere italiano), ma
soprattutto perché una vittoria avrebbe rafforzato ancor più tale idolatria.
Ora è scritto nella Bibbia: non ti costruirai degli idoli...
Lo so che quasi tutti mi
criticheranno, ma un tale discorso, per essere morale, deve necessariamente
essere brutale: si tratta infatti, in primo luogo, di rovesciare gli idoli dai loro piedistalli.
So pure che non basta la
distruzione per colmare un vuoto esistenziale ormai collettivo, un vuoto
riempito dal "panem et circenses" di una società pasciuta e
materialistica.
Pare velleitario e
moralistico ripetere quanto abbiamo inteso tante volte, eppure non bisogna
stancarsi di proclamarlo: occorre proporre e vivere dei valori che le folle
possano comprendere e accettare. Nel periodo postconciliare si parlava tanto di
"attualizzare i valori", ora pochi vi accennano. Non sarà perché la nostra fede e la
nostra speranza si sono infiacchite?
Eppure siamo impegnati
tutti - dagli uomini di potere ai semplici cittadini - in quest’opera di
risanamento e di ricostruzione. E’ dalle risposte che daremo che dipenderà il
futuro della nostra civiltà.
Ettore De Giorgis