CI RICORDIAMO ANCORA DI ESSERE ECUMENICI?
Anche il Papa, nel suo
"Discorso alla Curia romana" del 28 giugno 1985, ha affermato che
l’ecumenismo è una "dimensione necessaria di tutta la vita della
Chiesa", la quale è impegnata in esso "con una decisione
irrevocabile". Ciò significa che esso compete non soltanto alla
responsabilità degli specialisti e dei pastori, ma a quella di tutto il popolo
cristiano.
Una nota pastorale del
"Segretariato della Conferenza episcopale italiana per l’ecumenismo e il dialogo",
di cui è presidente il vescovo di Livorno, mons. Alberto Ablondi, è ritornata
sull’argomento con una Nota del 2 febbraio 1990 su "La formazione
ecumenica nella Chiesa particolare", in cui si elenca quanto già si è
fatto al proposito e nel contempo insiste su quanto resta da fare: una maggiore
informazione e sensibilità al riguardo; una denuncia dei pregiudizi tuttora
esistenti; una dimensione veramente ecumenica nell’insegnamento seminarile e
nella catechesi.
Infatti, se si
registrano in campo ecumenico dei passi in avanti, non si possono ignorare le
resistenze reciproche, da parte dei cattolici come dei non cattolici.
All’interno della Chiesa (e ciò vale per tutti i cristiani) l’ecumenismo resta
ancora la prerogativa di minoranze profetiche, senza coinvolgere in profondo la
vita delle comunità. Da più parti ci si lamenta dell’eccessiva prudenza delle
autorità romane nel dialogo ecumenico, e ciò è tanto più preoccupante perché
questa lentezza si verifica in Italia, che per la sua unione particolare con
Roma, cuore della cattolicità, dovrebbe essere all’avanguardia.
A mio avviso tale
appunto denota generosità ma anche ingenuità, poiché è facile capire che
proprio tale simbiosi con il centro della Chiesa cattolica - ossia di una fra le Chiese cristiane - è
all’origine di tale vischiosità. Per non parlare poi del fatto che l’Italia ha
una tradizione quasi esclusivamente cattolica, che non ha favorito nel passato
- e favorisce poco ancor oggi - i contatti con le altre Chiese.
Come pratiche pastorali,
la nota indica il dialogo, l’apostolato biblico, i matrimoni misti,
l’essenzialità liturgica, la cooperazione nella carità: nulla di nuovo, come si
vede. Insiste però anche - e questo è più importante - sulla centralità della
Rivelazione e sulla "gerarchia delle verità" (è la tesi del padre
Congar, che quando fu elaborata non fu certo esente da sospetti); e distingue
tra la sostanza della Rivelazione e i modi in cui essa viene espressa (è
l’antica distinzione tra "sostanza" e "accidenti", di
matrice aristotelica), per cui un’unica Tradizione si esprime in modi diversi
nelle varie tradizioni.
Per questo si insiste
giustamente sull’importanza che ha avuto la traduzione interconfessionale della
Bibbia (detta anche "traduzione in lingua corrente", riprendendo la
denominazione dei francesi), che per me resta la più importante iniziativa
concreta in campo ecumenico verificatasi da noi dopo il Concilio.
Ci si sofferma pure su
attività penitenziali comuni, ed a questo proposito si chiede di valorizzare
maggiormente la preghiera di intercessione per l’unità non limitandola al solo
ottavario (18-25 gennaio), ma estendendola ad altri periodi, soprattutto alla
Settimana Santa e a quella che precede la Pentecoste.
A dire il vero, questa
prartica, un tempo innovativa(e forse anche rivoluzionaria), è divenuta pian
piano una prassi rituale che lascia le cose come sono. Per questo è importante
che si proponga, quasi come complemento, una celebrazione ecumenica della
Parola, uno "scambio di ambone" (come già si verifica in numerose parrocchie
cattoliche e templi evangelici), da effettuarsi in tempi e contesti
determinati.
Siccome poi la Chiesa è
immagine, "icona" della Trinità, nel senso che realizza in terra, sia
pure in modo imperfetto, il mistero della comunione tra le tre Persone divine,
la sua non può essere che un’ecclesiologia comunionale. Questo fatto comporta
due conseguenze: in primo luogo, l’apertura delle Chiese locali (e il discorso
vale per la singola diocesi come per l’intera Chiesa cattolica, e naturalmente
per tutte le Chiese cristiane) alle altre realtà ecclesiali, secondo
un’ecclesiologia che gli ortodossi hanno da sempre definito delle "Chiese
sorelle"; e in secondo luogo la necessità di prescindere da localismi
interparrocchiali e interpaesani che dividono, su questioni essenziali, le
nostre comunità: per esempio (ciò che purtroppo avviene spesso in Italia),
discriminare nella comunità dei fedeli coloro che si professano "cristiani
ma non democristiani", quasi che l’opzione politica avesse una così determinante
incidenza sulla sincerità della fede.
Nel complesso quindi la
nota della CEI è abbastanza positiva. "Abbastanza" significa che non
mancano le riserve, due in modo particolare.
Se è vero che in due
documenti conciliari (la "Lumen Gentium" e la "Unitatis Redintegratio")
si dice che la Chiesa cattolica ha
ricevuto l’ "integralità" della fede e della grazia, non si può
prendere tale affermazione come un dato dottrinale indiscusso e indiscutibile,
tenuto anche conto del fatto che con il Concilio si muovevano da parte cattolica "ufficiale" i
primi timidi passi in materia ecumenica e che la maggior parte dei vescovi non
era preparata a recepire un discorso più rivoluzionario, abituata com’era a
considerare il cattolicesimo come sinonimo di cristianesimo autentico. La Nota
aggiunge che anche i cattolici, è fin troppo ovvio, sono peccatori e bisognosi
di conversione, e che anch’essi portano la loro parte di responsabilità nelle
divisioni della Chiesa.
Ma se si resta attestati
su tale posizione si rischia di avere della Chiesa una concezione astratta e
statica, invece di considerarla un soggetto storico (come ci ha insegnato il
padre Chenu), quasi come se avesse ricevuto una Rivelazione sotto dettatura,
confondendo così il "deposito della fede" con l’elaborazione e l’enunciazione
dei dogmi. E ciò porta a tre gravi conseguenze:
1) il fatto teologico
viene ridimensionato e ridotto a fatto morale; in tale ottica non stupisce che
tra gli eventi salienti degli ultimi anni la Nota della CEI non menzioni il BEM
(ossia il documento di "Fede e Costituzione", cui collaborarono anche
teologi cattolici, sul battesimo, l’eucarestia e i sacramenti);
2) se l’integralità
della fede si trova "già" nella Chiesa cattolica, allora non si vede
quale altro tipo di ecumenismo sia possibile se non quello del
"ritorno" alla Chiesa-madre romana;
3) l’unità avrebbe
dunque da farsi "nel Papa" anziché "in Cristo", come invece
pensava don Couturier, pioniere dell’ecumenismo cattolico e propugnatore
dell’ottavario di preghiera per l’unità dei cristiani? Del resto era questo
anche il pensiero di Paolo VI, che una volta affermò di essere convinto che
proprio il Papa fosse il maggior
ostacolo all’unità dei cristiani.
La tesi dell’ "integralità", inoltre, contraddice altre
suggestioni della Nota:
a) si riconosce infatti
la ricchezza dei doni delle altre Chiese, e si incita al recupero della
complementarietà con esse;
b) lo scambio tra
tradizioni ecclesiali diverse è quindi consigliato, in quanto queste sono viste come doni dello Spirito che fanno
"essere di più" anche noi, secondo l’espressiva affermazione di Mons.
Ablondi nella presentazione della Nota;
c) ed è ancora il
vescovo di Livorno a scrivere giustamente che spesso "le diversità non
conosciute e non accettate sono diventate divisioni".
Nella stessa prospettiva,
la Nota cita quanto scrisse un teologo non sospetto, mons. Urs von Balthasar
nel suo libro "La verità del mondo": per ciò che riguarda la verità -
egli afferma - "ogni conoscente deve rassegnarsi a riconoscere le
limitatezze del proprio campo di vista nello stesso istante in cui si sente
tentato di criticare l’angustia delle prospettive altrui".
Mi sono soffermato a
lungo sulla prima critica alla Nota, mentre tratterò brevemente della seconda,
anche perché essa è una riserva a metà: credo poi che ciò si debba al fatto che
non c’è troppa precisione di linguaggio, il che fa sì che quando si afferma che
l’ecumenismo deve essere un cammino di tutta la Chiesa si rischi un
fraintendimento. Ciò è senz’altro vero per quanto riguarda l’invito alla pazienza,
e quindi a non "scavalcare" i tempi nella ricerca della verità e
dell’unità, avendo sempre presente che esse sono un dono di Dio che bisogna
continuamente implorare, poiché l’anima dell’ecumenismo - come è detto
giustamente - sta nella preghiera. D’altra parte, non si può dimenticare che
ogni rinnovamento nella storia della Chiesa (e delle Chiese) è partito da
esigue e coraggiose avanguardie profetiche: avremmo forse un ecumenismo
cattolico se un pugno di audaci - tollerati o meno da Roma - non si fosse
ingaggiato negli anni 30 in questa rischiosa e mal compresa avventura?
Occorre certo a questi
pionieri una buona dose di equilibrio: pur sapendo di far parte, insieme a
cristiani di altre confessioni, di una specie di Chiesa-ponte spirituale, di
una "Chiesa trasversale", essi devono continuare a vivere nella
propria Chiesa una vera comunione con tutti i fedeli, la qual cosa non li
dispensa però di essere, all’interno della Chiesa stessa, una specie di
coscienza critica. Io conosco persone di tale stirpe: uno era il padre Chenu,
un altro è Hans Kung; e apprezzo quello che è davvero un loro carisma: di saper
cioè fare la polemica quando è il caso, senza volersi sostituire alla gerarchia
istituzionale come maestri in cattedra di verità.
Vorrei concludere riprendendo
l’invito di mons. Ablondi: di fronte ai pericoli che ci minacciano tutti -
cristiani, non cristiani, non credenti - un ecumenismo che si riducesse a
"far quadrato" sarebbe davvero una misera cosa; di fronte
all’ideologia secolarista di cui si sta sempre più avvertendo l’inumanità,
soltanto un ecumenismo di cristiani che "siano di più" potrà
presentarsi credibile per una nuova evangelizzazione, come aveva intuito
quarant’anni or sono, poco prima di morire, Emmanuel Mounier.
Ettore De Giorgis