28 marzo 2021 - DOMENICA DELLE PALME (ANNO B)

 

Andrea Mantegna, Predella della Pala di San Zeno, Orazione nell'orto, 1457-1459

 

 

PRIMA LETTURA (Isaia 50,4-7)

Il Signore Dio mi ha dato una lingua da discepolo,
perché io sappia indirizzare
una parola allo sfiduciato.
Ogni mattina fa attento il mio orecchio
perché io ascolti come i discepoli.
Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio
e io non ho opposto resistenza,
non mi sono tirato indietro.
Ho presentato il mio dorso ai flagellatori,
le mie guance a coloro che mi strappavano la barba;
non ho sottratto la faccia
agli insulti e agli sputi.
Il Signore Dio mi assiste,
per questo non resto svergognato,
per questo rendo la mia faccia dura come pietra,
sapendo di non restare confuso.


SALMO RESPONSORIALE (Salmo 21)

Rit. Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?

 

Si fanno beffe di me quelli che mi vedono,
storcono le labbra, scuotono il capo:
«Si rivolga al Signore; lui lo liberi,
lo porti in salvo, se davvero lo ama!».

Un branco di cani mi circonda,
mi accerchia una banda di malfattori;
hanno scavato le mie mani e i miei piedi.
Posso contare tutte le mie ossa.

Si dividono le mie vesti,
sulla mia tunica gettano la sorte.
Ma tu, Signore, non stare lontano,
mia forza, vieni presto in mio aiuto.

Annuncerò il tuo nome ai miei fratelli,
ti loderò in mezzo all’assemblea.
Lodate il Signore, voi suoi fedeli,
gli dia gloria tutta la discendenza di Giacobbe,
lo tema tutta la discendenza d’Israele.

 

 

SECONDA LETTURA (Filippesi 2,6-11)

Cristo Gesù, pur essendo nella condizione di Dio,
non ritenne un privilegio
l’essere come Dio,
ma svuotò se stesso
assumendo una condizione di servo,
diventando simile agli uomini.
Dall’aspetto riconosciuto come uomo,
umiliò se stesso
facendosi obbediente fino alla morte
e a una morte di croce.
Per questo Dio lo esaltò
e gli donò il nome
che è al di sopra di ogni nome,
perché nel nome di Gesù
ogni ginocchio si pieghi
nei cieli, sulla terra e sotto terra,
e ogni lingua proclami:
«Gesù Cristo è Signore!»,
a gloria di Dio Padre.

VANGELO (Marco 14,32-42)

Giunsero a un podere chiamato Getsèmani, ed egli disse ai suoi discepoli: «Sedetevi qui, mentre io prego». Prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e cominciò a sentire paura e angoscia. Disse loro: «La mia anima è triste fino alla morte. Restate qui e vegliate». Poi, andato un po’ innanzi, cadde a terra e pregava che, se fosse possibile, passasse via da lui quell’ora. E diceva: «Abbà! Padre! Tutto è possibile a te: allontana da me questo calice! Però non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu». Poi venne, li trovò addormentati e disse a Pietro: «Simone, dormi? Non sei riuscito a vegliare una sola ora? Vegliate e pregate per non entrare in tentazione. Lo spirito è pronto, ma la carne è debole». Si allontanò di nuovo e pregò dicendo le stesse parole. Poi venne di nuovo e li trovò addormentati, perché i loro occhi si erano fatti pesanti, e non sapevano che cosa rispondergli. Venne per la terza volta e disse loro: «Dormite pure e riposatevi! Basta! È venuta l’ora: ecco, il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani dei peccatori. Alzatevi, andiamo! Ecco, colui che mi tradisce è vicino».


In altre parole…

 

La V domenica di quaresima e quella delle Palme venivano denominate tempo fa prima e seconda domenica di Passione: in realtà ci immergono in questo mistero insondabile su cui sorvoliamo volentieri, ma che ci mette a tu per tu con l’esistenza propria e di tutti: ci mette a confronto con l’enigma-morte, e in ultima analisi col Dio dei vivi e dei morti. Tutte le nostre belle e pie considerazioni spesso non fanno che da schermo e ci consentono di tergiversare verso questo incontro, perché non si può vedere Dio e non morire.

 

È per questo che cerchiamo di crearci un Dio a nostro uso e consumo - a nostra immagine e somiglianza - e abbiamo paura di affrontarlo così come egli si presenta in Gesù nazareno: appeso alla croce! I nostri stessi progenitori nell’Eden ci hanno insegnato fin da principio a nasconderci, così come nel Getsemani non facciamo altro che dormire! I tre dormienti del Mantegna fanno pensare agli altri discepoli rimasti a distanza, ma sono anche la nostra immagine.

 

Gesù che prega, però, ci ricorda che c’è qualcuno pronto ad accettare la prova e ad avere il coraggio di sfidare Dio nella lotta, come Giacobbe, come Giobbe, come appunto il Figlio dell’uomo, che fa sue le parole scritte nel rotolo del libro: “Ecco, io vengo a fare la tua volontà. Con ciò stesso egli abolisce il primo sacrificio per stabilirne uno nuovo” (Eb 10,9). Questo Gesù è lo stesso di cui sappiamo che “pur essendo Figlio, imparò tuttavia l'obbedienza dalle cose che patì” (Eb 5,8), ed è la sua sofferta obbedienza che mette anche tutti noi in una relazione nuova col volere di Dio, così come recitiamo nel Padre nostro. Egli fa sua in tutto e per tutto, eccetto il peccato,  la nostra condizione, ma al tempo stesso ci chiede di lottare con lui per non cadere in tentazione.

 

Lo possiamo sentire rivolto a noi come il Servo di Jahweh, che non si tira indietro, si fa egli stesso discepolo, per sostenerci con la sua parola, sapendo  di andare incontro per questo a sputi e oltraggi, ma sapendo anche che chi gli affida questo compito gli verrà in soccorso, e per questo rende la sua faccia dura come pietra. Ci è familiare l’immagine e il pensiero di Gesù come lottatore a cui affiancarsi, come colui che ci apre la strada e va a prepararci un posto?

 

È quello che avrebbero dovuto sapere e percepire quei discepoli che gli stavano attorno nell’ultima cena consumata poco prima, pronti a cantare con lui l’Hallel, l’inno di trionfo della celebrazione pasquale. Ora però sono invitati a seguirlo nel Getsemani dove lo aspettava la sua ora. Questa volta era lui a chiedere solidarietà di presenza, di preghiera e di veglia, mentre lui sarebbe entrato in intimo colloquio col Padre, per avere la forza necessaria di portare in fondo il disegno che gli era stato assegnato e che si stava avverando. Erano stati preparati a quest’ora in tante occasioni, come quando il Maestro aveva detto loro: “Adesso la mia anima è turbata. Che dovrei dire: Padre, salvami da ciò che mi aspetta!? Ma se è proprio per questo che sono venuto! Padre, glorifica ed onora il tuo nome!” (Gv 12,27,28). È su questa via che dovremmo seguirlo, senza riserve

 

Ma se lui era preparato a vivere la sua ora, i discepoli continuavano a non prenderlo troppo sul serio neanche quando apertamente insegnava che “il Figlio dell'uomo doveva molto soffrire, ed essere riprovato dagli anziani, dai sommi sacerdoti e dagli scribi, poi venire ucciso e, dopo tre giorni, risuscitare” (Mc 8,31). Preferivano fare la tara alle sue parole, anche quando, subito dopo aver offerto se stesso nel pane e nel vino, li avverte dicendo: “Tutti voi mi abbandonerete” (Mc 14,27), con grande scandalo e proteste di Pietro. Ora che nel Getsemani li invita a sedersi mentre lui va a pregare, niente di più facile pensare che fosse come tutte le altre volte .

 

C’era già stato Giuda, ma per essi era come se nulla fosse, e rimanevano estranei ed indifferenti a lui e a tutto. Qualcosa di più egli si sarebbe aspettato da Pietro, Giacomo e Giovanni, a cui non fa mistero della paura e dell’angoscia che lo assale, e confida la sua tristezza, chiedendo semplicemente di restare lì vicino e vegliare, niente di più. Ma neanche questo gli è dato, e nei confronti dell’”Abba-Padre” se la deve vedere da solo, nell’estremo tentativo di essere liberato dal quell’ora, a cui peraltro si consegna in rinnovato abbandono, perché sia fatta la sua volontà. E se poco prima aveva consegnato se stesso ai suoi perché facessero memoria di lui, ora si consegnava al Padre, e di lì a poco il Figlio dell’uomo sarebbe stato consegnato nelle mani dei peccatori, che avrebbero eseguito la sentenza pronunciata di fatto più o meno consapevolmente da tutti, noi compresi.

 

Siamo  prossimi a celebrare la nostra Pasqua nella Cena del Signore, pronti a cantare il nostro Hallel con lui, a mettere  in atto tutto quello che ci ricorda che Dio di Israele  guarda alla miseria del suo Popolo in sempre nuove schiavitù e scende a liberarlo. Ma quando si tratta di prendere atto che “Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato” (1Cor 5,7), che bisogna vivere la sua Pasqua di morte e resurrezione nel passaggio da questo mondo al Padre, rimaniamo assenti, ignari, insensibili, ai margini del “mistero della Pasqua” del Signore, che sarebbe da vivere in piena partecipazione, così come lui ha vissuto la nostra condizione umana. Non ci mancano né motivi né materia di passione!

 

A questo scopo egli ci dice di vegliare, ci ripete di vegliare e pregare per non entrare in tentazione, anche se alla fine è costretto a lasciarci andare al nostro destino e cedere al nostro sonno: “Dormite pure e riposatevi! Basta! È venuta l’ora”. Mentre lui andrà sempre più in solitudine verso il suo, fino ad essere abbandonato da tutti sulla croce. Dovremmo sentirci raggiungere dalle parole rivolte poco prima alle coraggiose donne che lo seguivano, e che uniche stavano lì: “Figlie di Gerusalemme, non piangete su di me, ma piangete su voi stesse e sui vostri figli” (Lc 23,28).

 

È allora che possiamo cominciare a prendere coscienza del mistero della nostra salvezza. E prima di trovarci ad aprire gli occhi per riconoscerlo da risorto - al sepolcro vuoto, o come i discepoli di Emmaus, o come Tommaso nel cenacolo – sarebbe necessario capire chi egli sia prima di tutto attraverso la sua passione e morte, là dove il Figlio dell’uomo si rivela “Figlio di Dio”. È quello che succede al centurione che presiedeva all’esecuzione e che vistolo morire in quel modo arriva ad esclamare: “Davvero costui era Figlio di Dio!” (Mt 27,54) o, secondo Luca 23,47, costui glorifica Dio esclamando “Veramente quest'uomo era giusto”. Sì, era il Giusto, per cui ora “giustificati per il suo sangue, saremo salvati dall'ira per mezzo di lui” (Rm 5,9). È ciò di cui dovremmo imparare a tenere conto, al di là delle frasi fatte e ripetute. Ascoltiamo piuttosto dal libro delle Lamentazioni: “Voi tutti che passate per la via, considerate e osservate se c'è un dolore simile al mio dolore, al dolore che ora mi tormenta, e con cui il Signore mi ha punito nel giorno della sua ira ardente” (Lam 1,12).

 

I primi discepoli, che dovranno formare la chiesa nascente, sono essi a dover elaborare la passione e la morte di Gesù, da fatto di cronaca ed esperienza evitata ad evento salvifico. Forse costretti in questo dal Risorto che li richiama di continuo alle Scritture e che consente a Tommaso di toccare le sue piaghe. Ma sarà soprattutto Paolo con la sua predicazione, e in particolare col passo della lettera ai Filippesi, a farsi portavoce di una consapevolezza crescente che morte e resurrezione sono un mistero unico. La sua condizione di Dio per Cristo Gesù è tutt’altro che in primo piano, ma la raggiunge e la rivela a partire dalla condizione di servo e in quanto simile agli uomini, nella umiliazione ed obbedienza fino alla morte e alla morte di Croce.

 

Solo di conseguenza arriva la giusta esaltazione a gloria di Dio Padre, insieme al dono del Nome “che è al di sopra di ogni nome”, e nel quale soltanto c’è salvezza. Infatti “in nessun altro c'è salvezza; non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvati” (At 4,12). Verrebbe da chiedersi se al centro della nostra fede e della predicazione della chiesa ci sia questo Nome o suoi simulacri. Forse a noi nessuno direbbe, come a Pietro e compagni, “di non parlare assolutamente né di insegnare nel nome di Gesù” (At 4,18). Gesù per noi non è più quella memoria sovversiva che dovrebbe essere per la salvezza del mondo! (ABS)


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