Koinonia Gennaio 2024


ESISTENZA CRISTIANA CERCASI

 

È da anni che Daniele Garota accompagna il nostro cammino di fede (sinodale ante litteram?) col dono della sua riflessione, che ha immesso nel nostro percorso la dimensione escatologica che gli deriva dal suo essere discepolo di Sergio Quinzio. Questo intreccio sotterraneo è il sintomo di come è vissuta e va avanti Koinonia: nella gratuità e nella libera disponibilità ad essere compagni di viaggio in diaspora parlandoci e ascoltandoci. E Daniele in questo è in prima fila, anche se vive ad Isola del Piano (PU), con una grande famiglia e un’attività di agriturismo. Egli è in primo luogo un credente pensante e un cristiano maturo e libero, che non fa scena.

Ma perché parlare di Daniele proprio ora? Semplicemente perché in questi giorni ci ha fatto avere un suo opuscolo di 64 pagine - Il chicco di grano -, scritto per la collana “Perle” su richiesta di “Frate Indovino”, quindi con destinazione popolare. Ma non per questo Daniele indulge a commentare il testo evangelico di Giovanni 12,24 con discorsi moralistici o devozionali, ma va anche in questo caso alla sostanza e alla verità della fede. In qualche modo ho trovato espressa in questo piccolo testo l’anima stessa di Koinonia, e per questo lo segnalo volentieri e lo prendo in considerazione, per riportarci insieme alla radice dell’esistenza cristiana, senza sbavature e senza adattamenti riduttivi, ma nella sua integrità: un modo e uno stile d’essere cristiani teorizzato da molti e diventato quasi ovvietà, ma che è raro vedere realizzato nella tipologia di cristianesimi presenti sulla scena.

Il testo base di tutto il discorso è preso da Giovanni 12,24: “In verità vi dico: se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo, se invece muore produce molto frutto”. Intorno ad esso Daniele non fa opera di esegesi, né si atteggia a teologo di professione, ma trasmette il suo vissuto di credente-pensante, forte del fatto che “la Scrittura ci aiuta il realizzarsi dei fatti che devono ancora accadere, ma anche a comprendere sempre più a fondo i fatti già accaduti e quelli che accadono davanti ai nostri occhi” (p.25).

Una vera e propria immersione, la sua, nella Scrittura, non da fondamentalista ma neanche come chi ha criteri interpretativi di partenza: uditore della Parola, per ascoltarla e metterla in pratica come visione di vita in cui muoversi ed agire. Un ascolto della verità rivelata, che porta alla comprensione e a vivere il mistero della salvezza come identità cristiana primaria, quella a cui dovremmo tornare, se non vogliamo che la Parola di Dio non sia quello che essa è “in principio”, ma diventi parola di uomini (cfr. 1Ts 2,13). È quando si scopre che il Signore Gesù non è solo il predicatore del vangelo del Regno, ma è “l’apostolo e sommo sacerdote della fede che noi professiamo” (Eb 3,1). Gesù si fa egli stesso il realizzatore del messaggio che era venuto a portare come fuoco che voleva si accendesse nel mondo (cfr. Lc 12,49-51).

Il fatto che egli sia andato poi incontro alla morte come extrema ratio di salvezza non potrebbe essere dipeso proprio dal fallimento della sua missione tra gli uomini, ed essere quindi lui quel chicco di grano che non può rimanere solo, ma che solo morendo può moltiplicarsi? Ma tutto è ancora in fieri, come sospeso, fino al compimento della sua vittoria totale sulla morte! E di questa tensione escatologica siamo fatti partecipi, in quanto la visione escatologica non è solo una dottrina, un tema per addetti, ma è un progressivo farsi presente e venire incontro delle cose future, verso cui andiamo con la fede. Quando recitiamo il Padre nostro, difficile dire se sia più forte il desiderio  del Regno o la richiesta del pane e del perdono.

Sta di fatto che questa sensibilità e prospettiva escatologica Daniele l’ha fatta propria mutuandola da Sergio Quinzio, ed è quello che traspira e trasmette in quanto ci dice. Venendo all’opuscolo, a parte i passaggi particolari di tutto il discorso da tenere comunque ben presenti, il filo conduttore è la realtà della fede, come ascolto della Parola di Dio che deve compiersi in noi, e quindi come coinvolgimento e partecipazione personale al mistero di Cristo. Proprio in apertura del testo leggiamo: “L’anelito di fede è rivolto al futuro prima di tutto. D’altra arte, rivolgendoci al Padre con l’unica preghiera che il Figlio ci ha insegnato, non dovremmo forse chiedere ogni giorno anche il pane del suo regno, di quel regno di cui poco prima si invoca la venuta, oltre che il ′pane quotidiano′”? (p.7).

Non si parla però di fede come virtù o prerogativa personale dei singoli, ma della fede che rappresenta una risorsa, una via di partecipazione al mistero stesso della salvezza, un modo di stare davanti a Dio che non nasce dall’uomo ma da Dio stesso che opera in noi: “Etica e morale sono di grande importanza, come estetica e bellezza, ma la fede indica un oltre che può soltanto esserci dato dal Signore che ritornerà, nell’ultimo giorno” (p.11). È una tensione escatologica inesauribile che attraversa  e misura il  tempo, qualcosa di inedito e di inaudito, di cui “gli uomini hanno disimparato a farsene meraviglia, e ne hanno fatto il canone di una esistenza dabbene”! (citazione di Romano Guardini a p.13).

Questa fede è l’opera di Dio in noi: “Gesù rispose loro: «Questa è l’opera di Dio: che crediate in colui che egli ha mandato»” (Gv 6,29). È una fede che offre accessibilità e alla intelligenza e al cuore dell’uomo, ma contemporaneamente diventa essa stessa, se matura, fonte di comprensione e di penetrazione del mistero che  racchiude. È chiaro che siamo in tutt’altro ordine di realtà, che però ci coinvolge pienamente anche se disconosciuta, e anche se vissuta spiritualisticamente come mondo a parte!

In effetti, “La fede cristiana ha a che fare con la storia, dal principio che è stato, fino alla fine che sarà. Una storia in cui Dio si è abbassato, svuotato fino a morire ‘per noi’ al nostro posto, pur di salvarci” (p. 24). Qualcosa che non dice più nulla al mondo o passa per mitologia, qualcosa che è lasciato in sordina dalla comunità dei credenti, che presenta credenziali più consone al mondo.

In Gesù abbiamo motivo di pensare a un Dio che rinuncia a se stesso e in balia dell’arroganza dell’uomo, pur di riportare l’uomo ad essere a sua immagine e somiglianza: un Dio, che, prima di volerci nella sua gloria e seduti alla tavola imbandita del regno, siede a mensa con i peccatori e mangia con loro. Ed ecco dove e perché il chicco di grano - con cui Gesù allude a se stesso - una volta caduto in terra non può non morire, per diventare pane vivo per la vita del mondo, speranza della gloria: “Senza l’attesa, senza l’anelito rivolto a questa promessa che ci ha fatto Cristo, il cristianesimo si ridurrebbe a qualcosa di troppo umano e la fede finirebbe per scomparire del tutto” (p.42).

C’è il rischio di rimanere confinati in un cristianesimo ereditato, pensato, celebrato,  mentre entrare nella condizione di credenti che condividono la propria esistenza con quella fede è difficile, forse “più difficile ancora col passare degli anni, mentre quel che si attende tarda ad arrivare” (p.48), a meno che non ci contentiamo di quella “esistenza dabbene”, di cui ci parla R.Guardini.

“Gesù è stato molto esplicito su quella che deve essere la prospettiva del credente,  cosa davvero deve avere a cuore chi crede rispetto a chi non crede, quale deve essere il punto di vista della fede, il punto di vista di Dio, quando  si guardano gli   eventi che ci accadono intorno” (p.50). È un fatto di verità e di coscienza, prima che ecclesiale o di appartenenza!

Il fatto che i destinatari dell’opuscolo siano i seguaci di Frate Indovino indurrebbe a chiedersi quale possa essere la recezione di questo testo in un contesto spirituale di una fede che presumibilmente guarda all’indietro e bloccata sul presente. Difficile poterlo appurare. Ciò che invece personalmente posso dire è il perché di tutto il mio interesse per qualcosa che sembrerebbe di relativa importanza, fatto salvo il motivo di corrispondenza con Daniele. In realtà, per me è l’occasione di poter esplicitare nel confronto gli intenti di Koinonia: che la fede torni a essere fede nella sua originalità, nel suo realismo, nella sua verità, nella sua irriducibilità, e in quanto tale possa avere diritto di cittadinanza in un mondo che sembra farne volentieri a meno. E questo senza scadere nel fideismo, nel confessionalismo di maniera, in sentimentalismo di gruppo. Ed in questo, come abbiamo visto, il contributo di Daniele è veramente significativo!

Per il momento vorrei sottolineare due punti, uno per il mondo dei non credenti, l’altro per la comunità dei credenti, per dire che il fenomeno fede - biblica e cristiana - è presente nel mondo con un suo assoluto valore obiettivo e trascendente e non come fatto soggettivo di adesione di questo o quell’altro. A quanti la ignorano o la escludono, vorrei dire che non per questo non si dà, ma si dà ad una dimensione di rapporto che sfugge ad ogni sguardo e ad ogni indagine, perché si tratta di intimità con Dio, fatto davvero eccezionale.

Quello che si può dire in proposito è che si tratta di un rapporto reale, non solo intenzionale, spirituale, emotivo o di suggestione collettiva. Per quanto molto distante e diverso dal nostro, il mondo della fede si offre alla nostra accettazione  e si apre alla nostra partecipazione, e pur volendolo ignorare e disconoscere, non per questo manca di una sua realtà specifica e di una sua storia. Questo rilievo vale all’esterno per quanti “pur vedendo non vedono” (Mt 13,13). Se poi vogliamo vedere le cose dall’interno, viene da chiedersi se le comunità dei credenti in Cristo sappiano presentare l’immagine realistica del mondo della fede o favoriscano visioni religiose, spirituali, cultuali, o anche  caritative e umanitarie.

Il rilievo in tal caso è questo: che ci sono tutte le possibili espressioni della fede (etica, estetica, parenetica, rituale, celebrativa, ecc…), mentre manca una sua traduzione e dimensione di verità e di fondatezza obiettiva, tale da rendere possibile la comunicazione discorsiva dentro e fuori e soprattutto da poter rendere ragione della sua realtà e non solo delle sue risonanze psicologiche e sociali. Questo comporta un’attenzione diretta alla verità profonda della fede, data troppo per scontata, fino a rasentare la banalità e la convenzionalità. L’incapacità a “pensare” che viene lamentata dovunque, sembra aver contagiato anche il mondo della fede, per lasciarsi andare a spiritualismi, dottrinalismi e ritualismi di ogni genere. L’esistenza cristiana è prima di tutto vita nello Spirito e nella Verità, per essere veri adoratori del Padre!

 

Alberto Bruno Simoni op

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