Koinonia Gennaio 2024


IL CRISTIANESIMO È PROFEZIA

 

Se il Cristianesimo non è né cultura né ideologia, che cosa insomma è? Molto in breve, e con un termine e un concetto assolutamente altri e in nessun modo riducibili alle categorie della cultura, il Cristianesimo è profezia.

Non pensiamo, si capisce, al profeta come a colui che antivede e preannunzia i fatti futuri, che è solo un significato aggiunto. Profeta, nel retto senso, è qualcuno che prolunga nella storia la rivelazione della Parola. E che altro sono il Cristianesimo e la Chiesa, ridotti alla loro nuda essenza, se non appunto questo? In che altro consiste l’essere cristiani se non nel farsi, ciascuno nel suo ambito e secondo i

carismi che gli sono stati concessi, un testimone della Parola? Cos’altro caratterizza la situazione del cristiano se non il suo singolare rapporto con il Vangelo?

Né ciò, sia ben chiaro, esclude il cristiano dalle culture, al modo stesso che non lo esclude dal mondo e dalla storia, lo vuole anzi al servizio del mondo e della storia secondo la concretezza insita nella Parola, ma con un suo modo d’essere, un suo proprio spessore, un suo carico di responsabilità, una tendenza a riferire a segni oltremondani anche tutto ciò che opera nel segno del mondano, a sentire e proclamare che il Regno non è di questo mondo e in pari tempo a operare perché sia di questo mondo, a utilizzare a volta a volta gli strumenti offertigli dal mondo, ivi incluse le culture, rispettandoli e insieme volgendoli a un senso altro, a una diversa prospettiva. E ciò tuttavia è tenuto a farlo “etsi Deus non daretur” (come se Dio non esistesse), perché alla minima presunzione di parlare o agire in nome di Dio, ecco che di Dio avrebbe fatto un’ideologia, della Chiesa un partito. Deve farlo sapendo di non aver deleghe nell’ordine mondano, ma insieme conoscendo le responsabilità che si è assunto relativamente al suo ruolo di testimone della Parola.

È difficile, lo so: è difficile definire l’essere del cristiano quasi quanto è difficile l’essere cristiani. Lo è perché per farlo dovremmo servirci del linguaggio della cultura, e la cultura non può farlo, non possiede gli strumenti adatti. È anzi il suo linguaggio stesso, con l’impotenza di cui dà prova, a manifestare fino all’evidenza sia l’alterità fondamentale del cristiano, sia l’alterità della cultura rispetto al Cristianesimo.

Possiamo però tentarlo per vie indirette, riferendoci a quelle che una volta si dicevano le figure eponime, a quel tipo di personalità che nella loro concretezza incarnano e quasi designano un ideale.

Ebbene, qual è, domandiamoci, la figura eponima della cultura, quale si è dispiegata da due secoli a questa parte? Non credo ci siano dubbi che si debba rispondere l’intellettuale... E quale del Cristianesimo? Diciamo subito: il santo. E subito avvertiamo di star parlando di qualcosa di irriducibile alla figura dell’intellettuale. Festugière, che indicava nell’eroismo morale il connotato principale del santo, diceva soltanto una parte della verità; e non altrimenti fa chi vi ravvisa la capacità di manifestare l’extraumano che c’è nell’uomo. Più istruttivo mi pare puntare sulla sua qualità di testimone per eccellenza della Parola, che il santo non tanto assume a riferimento intellettuale, quanto piuttosto a modello esistenziale secondo un nodo complesso che è teoretico e pratico insieme, fino a trasformare la propria esperienza in un tentativo di reinterpretazione vissuta delle fonti evangeliche.

 

Mario Pomilio

da Scritti Cristiani, Rusconi, 1979, pp.81-83)

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