Koinonia Gennaio 2024
Nudi dinanzi alla storia
Le immagini dei giovani palestinesi denudati e inginocchiati dinanzi ai soldati dell’esercito israeliano, ci fanno ripiombare in un incubo orribile, ad un mese dall’annuale ricorrenza della liberazione di Auschwitz. Inutile oramai negarlo: lo spettro di un orribile ripetersi di quello stesso dramma perpetuato stavolta proprio da coloro che ne furono innumerevoli vittime, è dinanzi agli occhi di tutti.
Ed ecco che tutti i fantasmi inquietanti di un antisemitismo che a fatica si tentava di tenere finalmente dietro le quinte della storia, improvvisamente ripopolano le scene di un’Europa che proprio a partire da quell’abisso assoluto del male aveva saputo risorgere, riconoscendosi “comunità di destino”.
Eccessi ingiustificabili, ancora più ingiustificabili proprio perché dimostrano questa inaccettabile mancanza di consapevolezza, questo inquietante non riconoscersi, di un popolo che da quegli orrori aveva dovuto imparare a rinascere. Chiunque sarebbe ingiustificabile, ma più di tutti il popolo e lo stato ebraico lo è.
Ed è allora da quelle coscienze sempre fini, sensibili, spirituali, che dovrebbe sorgere la più potente indignazione. Alzare la voce, farsi sentire al mondo: proclamare la propria solenne lontananza da tutto ciò. Solo a partire da qui, oggi, può riprendere il nostro quotidiano lavoro di educazione al ripudio di ogni antisemitismo. Solo sentendo forte la comunanza di un popolo che di tutto questo orrore è certamente in gran parte soprattutto vittima. Come si può non capire altrimenti, che così facendo si finisce per riattizzare prepotentemente proprio quella fiamma oscena che ha insozzato il XX secolo?
Leggo in questi giorni un libro che mai prima d’ora mi era capitato tra le mani, e che incredibilmente ritrovo proprio ora: Bagattelle per un massacro, di Celine.
Pagine ardenti di odio, di una ostilità senza ritrosie e senza possibili attenuanti, assoluta: mi parla di quello che furono gli anni in cui la corrente sempre calda dell’antisemitismo europeo toccava i suoi vertici, diveniva marea nera capace di spazzare via con milioni di vite innocenti ogni residua capacità di difesa. E si tratta di quella stessa marea che Theodor Herzl dovette profondamente intuire e temere, quando, ancora alla fine del XIX secolo, nelle pagine introduttive del suo “Stato ebraico”, ne proclamava la necessità e l’urgenza, proprio per mettersi al riparo da ciò che gli ebrei d’Europa avrebbero potuto subire, senza possibilità di intravedere alcuno spiraglio di salvezza. Una drammatica e necessaria via di fuga: questo fu, nelle intenzioni del suo promotore, il movimento sionista. Nient’altro che questo: tanto da trattare diverse possibilità alternative allo stesso ritorno in Palestina, tutte miseramente fallite. Tutte del resto fondate su un gigantesco equivoco di fondo. Perché l’unica via possibile del ritorno, fin dalle origini dei suoi esodi millenari, per il popolo ebraico è sempre stata la Palestina. Una via che nelle pagine di Herzl si prefigura come assolutamente pacifica, indolore, illuminata da una speranza tutta socialista di convivenza e di accoglienza tra popoli. Non vi è traccia di ideologie coloniali, di imperialismo, o addirittura come ventilato oggi da alcuni di “suprematismo ebraico”. Sarebbe importante rileggerle quelle pagine, studiare di nuovo questa lunga storia, prima di ripetere in maniera del tutto immotivata e superficiale un’analogia impossibile eppur ormai quasi del tutto indiscussa, tra sionismo e stato di Israele. Essere contro le politiche di oppressione dello stato di Israele nei confronti dei palestinesi, indignarsi contro la deriva inaccettabile e inguardabile che sta prendendo questo orribile massacro, non significa affatto essere antisemiti, e questo dovrebbe essere evidente a tutti; ma non significa neppure essere antisionisti! Altra fu la storia del sionismo, altre le sue motivazioni e i suoi ideali.
Il 5 maggio 1961, durante il processo Eichmann, un giovane chiede a Martin Buber:
“Lei condannerebbe Eichmann a morte?”
Il filosofo risponde deciso di no:
“Non credo che giustiziarlo sia una cosa degna del destino trascendente di Israele: essere una luce per le genti.
Ma Israele è rientrato nella storia. Questo paese combatte per rifondare la sua realtà di nazione. Per poter sopravvivere, viene assorbito da problemi politici, sociali, economici e militari contingenti. Se per il momento è indifferente alla sua missione spirituale, con il tempo sarà fedele a sé stesso e combatterà con Dio. Molti dei suoi giovani, come te, si sono già assunti questo carico. Anche ora, la battaglia si combatte in loro, come si combatte in te e in me”[1].
Massimo Iiritano
1Hugh Nissenson, L’elefante e la mia questione ebraica, Giuntina 1991, p. 71.