Koinonia Gennaio 2024
LA FEDE CRISTIANA TRA MERAVIGLIA E DERIVA
È soltanto la consapevolezza della nostra impotenza e del nostro bisogno di essere salvati, fino a morire con Cristo e come lui, a offrire spazio alla potenza di Dio che salva. Se la salvezza è anche nelle nostre mani, non viene «dalle opere della Legge», dirà Paolo, «ma dalla legge della fede» (Rm 3, 27-28). Credere come ad un certo punto soltanto Dio con la sua potenza possa salvarci è forse il presupposto necessario a Dio affinché l’impossibile miracolo della salvezza finalmente si compia.
Ed è un mistero, quello della fede, difficile da comprendere soprattutto per la sua semplicità: in esso Dio si è fatto piccolo come un bambino e si è mostrato buono come un pezzo di pane. Se in principio la morte, che «Dio non ha creato», è «per invidia del diavolo» che è potuta entrare «nel mondo» (Sap 1, 13; 2, 24) - quando quello fece leva sul nostro orgoglio, illudendoci di potere noi diventare come Dio - è grazie all’umiltà di Dio che ha potuto essere vinta, quando desiderò scendere tra noi, per diventare come uno di noi, rendendosi bisognoso persino del libero sì di una donna, oltre che del suo santissimo grembo. In Gesù Dio è sceso davvero molto in basso. E forse la sua umiltà mai la espresse come quando a qualcuno, che vedendo quel che faceva lo chiamò «maestro buono», rispose seccamente: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo» (Lc 18, 19). È vero, sarà Gesù stesso a dirci: «Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste» (Mt 5, 48), ma come per lasciarci intendere che nessuno potrà mai esserlo qui e ora, sia pure con le migliori intenzioni. A noi, infatti, altro non resta che dire, anche dopo avere «fatto tutto» quel che era nelle nostre possibilità: «Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare» (Lc 17, 10). Etica e morale sono di grande importanza, come estetica e bellezza, ma la fede indica un oltre che può soltanto esserci dato dal Signore che ritornerà, nell’ultimo giorno. E questo al di là di ogni possibilità umana, come ci hanno insegnato i grandi santi e credenti col coraggio della domanda più che con la certezza delle risposte.
L’universo intero dovrebbe mettersi a tremare, «quando sull’altare, nella mano del sacerdote, è presente Cristo, il figlio del Dio vivo», diceva Francesco d’Assisi. Che continuava: «O umiltà sublime! O sublimità umile, che il Signore dell’universo, Dio e Figlio di Dio, sì umili a tal punto da nascondersi, per la nostra salvezza, sotto poca apparenza di pane! Guardate, fratelli, l’umiltà di Dio, e aprite davanti a Lui i vostri cuori; umiliatevi anche voi, perché siate da lui esaltati» (Fonti Francescane, 221).
Quando Gesù indicava umilmente la via, dovette spesso sopportare il peso dell’incomprensione. Un giorno, di fronte ai discepoli preoccupati di non avere pane, è con tristezza, pensiamo, che fu costretto a dirgli: «Non capite ancora e non ricordate i cinque pani per i cinquemila, e quante ceste avete portato via?» (Mt 16,5-9). E poi il peso del dolore, quando fu abbandonato da tutti al momento della croce, quando a tradirlo fu lo stesso Pietro, la «pietra» su cui trova fondamento ancora oggi la sua «Chiesa», affinché le «potenze degli inferi» non prevalgano «su di essa» (Mt 16, 18).
L’umiltà non ha vita facile nel mondo, ed è un vero guaio quando i cristiani, più o meno inconsciamente, la confondono col perbenismo devoto e borghese. D’altra parte, dice Romano Guardini, «avendo quasi da venti secoli l’immagine della persona e della vita di Gesù nel loro spirito, nel loro cuore, nella loro mente, nel loro sentire, gli uomini hanno disimparato a farsene meraviglia, e ne hanno fatto il canone riconosciuto e naturale di una esistenza dabbene» (Il Signore, Vita e Pensiero, Milano 1981). E questa è una deriva tra le peggiori per la fede cristiana, perché molto facilmente dà adito al sentirsi a posto, al non avere bisogno di nulla e all’ipocrisia.
Daniele Garota
In Il chicco di grano, pp.10-13