Koinonia Gennaio 2024


A VITO MANCUSO SU SERGIO QUINZIO (II)

 

Parte seconda: Una felicità e una infelicità immensamente più grandi di quelle che conosce l’ateo

 

Sì, è vero, Quinzio è stato nudo nella nuda storia, col coraggio di chi attende di essere vestito dalla mano di Dio, la stessa che vestì Adamo ed Eva prima che finissero nel suolo maledetto. Ma dovremmo sapere bene che il dire “sono ricco, mi sono arricchito; non ho bisogno di nulla”, scordandosi di essere “un infelice, un miserabile, un povero, cieco e nudo”, rischia di farci diventare come quei tiepidi che il libro dell’Apocalisse severamente rimprovera (Ap 3,16-17).

Se Sergio si sentiva nudo e affamato di redenzione, è perché,  al pari dei suoi amici “terragni” russi e dei suoi fratelli ebrei, sapeva bene che “la promessa non riguarda l’anima e lo spirito, ma la carne e la terra”. E questo è vero nel cristianesimo, così come è vero nell’ebraismo e nell’Islam (che Sergio anche amava).

Citi a tuo favore versetti neotestamentari in cui è detto come non sia la carne e il sangue a ereditare il regno di Dio (1Cor 15,50), ma basterebbe leggere qualche versetto oltre per accorgersi che proprio lì san Paolo parla di speranza di non morire, di essere “tutti trasformati, in un istante, in un batter d’occhio, al suono dell’ultima tromba” (vv 51-52). Oppure basterebbe leggere un libricino che Oscar Cullmann  ha dedicato all’argomento per capire che lungi dal volare verso gli orizzonti dell’immortalità dell’anima, si è qui piuttosto invitati a mantenere i cuori ben saldi nella promessa della risurrezione della “carne”, come dicevano gli antichi Padri per non confondersi troppo con le allegorie. “Risorgerà questa carne, questa stessa che è seppellita, che muore”, dirà sant’Agostino (Sermoni 264,6).

Anche tu, come tanti in passato, hai appiccicato addosso a Sergio l’etichetta “gnostico”. E tuttavia tutto si potrebbe dire di lui, ma non che fosse attratto dal fenomeno gnostico, né antico né moderno. Mai che io sappia è stato sfiorato, come dicevo all’inizio, dalla tentazione di separare Dio dal mondo. Dio e il mondo erano per lui inseparabili, come lo sono Dio e l’uomo in Cristo. Così come non c’era in lui la tentazione di separare la “creazione” dalla “redenzione”. Amava troppo ripetere quel che si trova scritto nel capitolo 8 della Lettera ai Romani. Cielo e terra per Quinzio non sono né il “cosmo” eterno e ordinato, né il “cosmo” che come ordine tirannico si oppone all’uomo, ma creazione che geme e soffre in attesa, proprio come i figli di Dio sono in attesa, e proprio come anche lo Spirito è in attesa, gemendo con “gemiti inesprimibili”, di redenzione (Rm 8, 19-27). Il mondo è dunque per lui creatura sorella, creazione crocifissa, creazione che geme e soffre in attesa di essere insieme a noi redenta.

Per quanto riguarda Nietzsche poi, ci sono pagine molto significative di Quinzio nelle quali cerca di “riconoscere il centro del suo pensiero e della sua vita, nei millenari nodi irrisolti della speranza cristiana”. Questo per dire come non sia così semplice liquidare Quinzio con Nietzsche, il quale oltre a definirsi “Dioniso” o l’ “Anticristo”, aveva a che fare col “Crocifisso” molto più di quello che sulle prime potrebbe sembrare. Questo sono in molti ad averlo sottolineato negli ultimi anni.

Dici di appartenere a un filone di spiritualità e pensiero in cui ritrovi, tra gli altri, Bonhoeffer, Soloviev e Bulgakov. Sono tre autori che amava anche Sergio, il quale avrebbe potuto benissimo sottoscrivere l’espressione di Bonhoeffer da te citata: “Dio non deve essere riconosciuto solamente ai limiti delle nostre possibilità, ma al centro della vita… nella vita, nella salute e nella forza… nell’agire”. A farci capire quanto egli amasse la vita basterebbe anche solo questo suo pensiero tratto da Religione e futuro, anno 1973: “La negatività del mondo nei confronti del regno non è in relazione alla sua qualità o natura, ma alla sua quantità o intensità. La gioia del regno è nella carne nel vino nell’amicizia nella potenza nel sentirsi giovani. La gioia non è possibile fuori del regno perché si muore si è malati si invecchia non si è potenti abbastanza non si può amare senza sotterfugi e piccinerie non si può parlare forte e chiaro gridare correre. Anche il dolore nel mondo è troppo poco”. Era consapevole di avere fatto “esperienza reale della tenerezza di Dio” (La tenerezza di Dio) e di conoscere “una felicità e una infelicità immensamente più grandi di quelle che conosce l’ateo” (Lettera a Guido Ceronetti del 4 luglio 1974). E di Soloviev amava soprattutto quel che ha scritto sul finire della sua vita: I tre dialoghi e il racconto dell’Anticristo.

Mentre, lo so , non avrebbe potuto condividere le tesi di Teilhard de Chardin, al quale ha dedicato un intero libro pubblicato da Ubaldini Editore una quarantina di anni fa. E infine (a me pare un po’ ingiustamente, perdonami) poni pure il tuo sigillo: quella di Quinzio è la “fede del no”, di un “pessimismo senza limiti che si conclude nella disperazione”. No, questo non può essere vero, se non guardando Quinzio con gli occhi del pregiudizio di chi lo conobbe solo per sentito dire.

Il volto di Sergio era un volto sorridente e sereno, e tu lo sai perché lo hai incontrato faccia a faccia, anche se si intuivano in lui momenti in cui poteva trincerarsi in un dolore intenso e inquieto che cercava più che poteva di non far vedere. A me ancora giovanissimo (lo conobbi quando avevo ancora quattordici anni) dava la spinta ad amare la vita, incoraggiandomi alle nozze, al mettere al mondo dei figli (a ventitre anni ne avevo già due), sia pure facendomi capire che tutto ciò avrebbe avuto il suo prezzo, come la fede d’altra parte. E ricordo pure quando, dal suo letto di malattia in ospedale a Perugia, negli ultimi giorni della sua vita, a me che gli raccontavo preoccupato dell’attesa di un quarto figlio e in un momento assai difficile disse: ricordati che un figlio è sempre un dono di Dio.

L’importanza della testimonianza di Quinzio, che anche tu riconosci, era dovuta prima di tutto, almeno così mi sembra, al suo dire sempre e comunque la verità, anche quando era amara e dura da accettare, come quella che conduce fino agli abissi della disperazione. Di tali abissi toccava il fondo, è vero, ma ogni volta sapeva risalire, fino a ritrovare in sé, e manifestandola agli altri, una luce che poteva facilmente rendergli lucidi gli occhi dalla commozione.

C’è una risposta a Leo Lestingi in cui Sergio chiarisce questo suo movimento interiore: “Attraverso questo precipitare nel non senso rispetto alle aspettative della fede, la tensione si fa più forte. Paradossalmente, la fede diventa sempre più difficile; ma, ogni volta che riesce a emergere o riemergere, si presenta con un grado di invocazione sempre più radicale, perché più consapevole delle sue difficoltà. C’è un intensificarsi del grado di patimento per la condizione del mondo, per il ritardo della parusia; ma nel momento in cui la fede emerge dal tuo cuore, essa lo fa con un grido e un’intensità più forti” (La tenerezza di Dio). Ecco dove prendeva forze la testimonianza di Sergio, una testimonianza che riusciva a contagiare anche molti giovani, alcuni dei quali ho avuto modo di conoscere personalmente.

“La fede, nella storia del mondo, non può non essere crocifissa” (Domande sulla santità). Guai se non ci scandalizzasse un’affermazione come questa. Nel senso però indicato da Karl Barth, secondo il quale “non è bestemmia, lo scandalo che tutti in un modo o nell’altro riceviamo in Cristo”, ma “l’opinione che si possa fare qualche cosa con lui, dire e ascoltare qualche cosa di lui senza scandalo” (L’Epistola ai Romani). Perché se dovesse invece scandalizzarci in virtù di una fiducia che si ha in quel progresso storico che “garantirebbe automaticamente la superiorità, la maggiore profondità e compiutezza delle interpretazioni più recenti nei confronti di quelle antiche che le hanno precedute”, e che ci consegnerebbe a quella “fede sentita come tranquillo e rassicurante possesso”; o addirittura - come tu sottolinei, - in virtù di una fiducia rivolta a quel “progresso evolutivo” che permetterebbe ogni volta di fare, pur a costo di “innumerevoli tragedie e ingiustizie”, notevoli “passi in avanti verso il progresso tecnico e anche giuridico, politico, morale”, allora saremmo forse davvero fuori dalle vie della fede.

Ognuno di noi ha il diritto di scegliere quel che più gli aggrada. Non è detto però che sia soltanto preda della disperazione e del nulla chi ci dice: “Guardiamoci dal mettere noi stessi al vertice della storia. Nulla potrebbe rivelarsi, domani, presto, più ambiguo e compromesso della fiducia antropologica e storicistica che oggi porta a dissolvere in un generico umanesimo gli ardui contenuti della fede” (Domande sulla santità).

Che Quinzio ritenesse la fede crocifissa, non significa che si rassegnasse a vederla inghiottita dal nulla. Così come anche definire La verità crocifissa (diventato, questo, anche titolo di un libro molto interessante di Giuseppe Ruggieri, uscito di recente presso l’Editore Carocci) non significa renderla falsa e mancante. Se Cristo crocifisso continua a essere salvezza del mondo, ciò vuol dire – diceva Sergio – che la verità crocifissa, da lui rivelata, è in grado di mangiarsi in un boccone tutte le mezze verità del mondo messe assieme. Strano come proprio colui che percepisce nel timore e nel tremore l’impotenza sofferta di Dio, riesca al tempo stesso a credere e sperare nella sua inimmaginabile potenza. Ma non tanto strano se si tiene seriamente conto che a prometterci di fare nuovi cieli e terra e di far risorgere i morti sia proprio un Dio crocifisso.

A conclusione di Domande sulla santità, Sergio lo ha detto con una certa credibilità e convinzione: “Una storia chenotica, qual è quella che io vedo, nella fede, non va verso il nulla. La croce non è il nulla”.

Ecco, caro Vito, quanto mi stava a cuore di dirti, mosso dal bene che continuo a volere a un uomo che è stato per me fratello e maestro, e il cui volto spero di incontrare di nuovo un giorno insieme a quello del Signore nostro che ci aspetta.

Un abbraccio,

 

Daniele Garota

(2. fine)

.