Koinonia Gennaio 2024


MICHELA  MURGIA E LA TRINITÀ

 

“Un’altra Trinità è possibile”. Così Michela Murgia intitola un capitolo, forse quello centrale, del suo testo God save the queer uscito nel 2022, senz’altro il capitolo che ha più colpito la mia attenzione.  La Murgia si chiede: “È possibile essere credenti, femministe e queer allo stesso tempo?”. Nella postfazione, a cui ritorneremo, si riconosce all’autrice la provocatoria volontà di aver liberato l’aggettivo ‘queer’ dalla sua riduzione all’ambito sessuale, per restituirgli “quell’ampiezza di campo semantico che consente di farne una qualifica decisiva del pensare, anche del pensare teologico”.

 Per risolvere quelle che a molti sembrano contraddizioni insanabili, l’autrice sceglie di partire dal Credo, che definisce “il kit di base” della fede cristiana cattolica, fede essenzialmente trinitaria. Mentre fino ad allora Michela aveva visto la Trinità “banalizzata” attraverso la rappresentazione di “un vecchio, un giovane e una colomba”, immagine che, confessa, le aveva suscitato intenzioni iconoclaste, solo davanti all’icona trinitaria di Rublev, incontrata quasi per caso, resta come folgorata da quella rappresentazione del mistero, per altri versi indicibile, che giudica “estremamente acuta, sia artisticamente che teologicamente”. Su quell’icona dice di aver poi riflettuto per anni. La rappresentazione classica era entrata in crisi già da tempo per “l’avanzamento culturale e per la messa in discussione del patriarcato che avevano reso quell’immagine troppo problematica, capace di suscitare più disagio che devozione.”  Inoltre quella rappresentazione non si concilierebbe con l’affermazione di un Dio totalmente Altro e di un mistero troppo indicibile e complesso per essere spiegato, o, addirittura rappresentato. Michela, a questo punto ricorda nel vangelo di Giovanni la risposta di Gesù a Filippo che gli chiede di mostrargli il Padre: “ Chi ha visto me ha visto il Padre”, affermazione che potrebbe risolvere una volta per tutte  la questione della rappresentazione di Dio. “Non è l’unico caso, dice a questo punto la Murgia, in cui la Chiesa ha deciso a suo gusto cosa delle parole di Cristo andasse preso alla lettera e cosa no”.

 Nella sua ignoranza adolescenziale aveva giudicato le icone russe brutte o naïves perché mancavano di  prospettiva e delle corrette proporzioni. Davanti all’icona di Rublev capisce che lì si tratta di una diversa prospettiva “il cui punto di fuga è collocato negli occhi di chi guarda, generando l’effetto che non sia la persona che guarda a dover cogliere il mistero delle tre figure, raccolte in uno spazio misurato. Erano loro, piuttosto, scopre l’autrice, a venirmi incontro e a guardarmi, rinunciando alla chiusura della tridimensionalità, per aprirsi a una quarta dimensione, quella della relazione con me. La Trinità, incredibile, mi faceva spazio!”. Lo sguardo è catturato da una geometria che inscrive le tre figure in un cerchio e ne coglie il moto corrispondente”, mentre nella Trinità classica occidentale, “il vecchio, il giovane e la colomba appaiono disposti in modo piramidale...con una geometria statica, ieratica, cristallizzata” che, vista di fronte, risulta piatta, un triangolo con un vertice  e una base che sostiene il peso della struttura. ”Mentre la Trinità piramidale sembra dire “Tu qui sei sotto”, quella circolare sembra dire “Tu sei dentro”. C›era qualcosa di intimo in quella Trinità; l’idea dell’intimità con Dio era opposta a quella della sacralità”.              La presa di coscienza che il rapporto interno alla Trinità fosse un cerchio aperto e inclusivo fu ”tanto potente da indurla a riconsiderare il concetto  stesso di Dio”.  Un Dio così fortemente relazionale le restituitiva un senso profondissimo di familiarità. Michela scopre così che, se come donna aveva bisogno del femminismo per scoprire e lottare contro la subordinazione che un sistema sociale patriarcale le imponeva, come essere umano aveva altrettanto bisogno della Trinità perché le aveva fatto scoprire che “i rapporti umanamente felici che cercava per una nuova società avevano la loro matrice prima in  Chi del mondo era l’origine”. E sottotitolerà il suo volume con l’etichetta di “catechismo femminista” .

 L'autrice passa poi a parlare del suo personale rapporto con le tre persone della Trinità. Nessun problema col Figlio, “quello del corpo” . “Il corpo porta con sé un carico di autenticità … perché l'idea di un Dio con la carne e con i suoi limiti  è così folle in chiave narrativa che non può non essere vero... Fin da quando ho memoria, dice, credo in Gesù Cristo”.  Ma lo Spirito è il suo preferito perché inclassificabile, imprevedibile e disorientante, quindi particolarmente ‹queer› (dal dizionario: strano, singolare, eccentrico). Lo Spirito è quello che ispira e concede i suoi carismi a chiunque (preferendo anzi i più incapaci)  del quale è detto: Non sai da dove viene, né dove va”. La figura che le pone invece dei problemi è quella del Padre. “Il termine “padre, dice, è una trappola semantica vischiosa perché s›intreccia con l'esperienza di ciascuna/o di noi”. L'esperienza pratica della “gentorialità maschile umana” è troppo spesso connotata in modo negativo per non creare disagio nel riferirla al Padre celeste.  Allo spirto di osservazione della piccola Michela non sfuggiva poi che in chiesa, alla messa della domenica, di padri ce n'erano pochi, come se una religione ispirata alla misericordia, alla cura e alla volontà di perdono non fosse considerata cosa da “maschi alfa”. Quando cominciò a  chiedere la ragione di questa differenza e del perché “il Padre dei cieli interessasse così poco ai padri della terra”, le facevano capire che era meglio non porsi domande di quel genere.

 Questa nuova percezione del mistero trinitario, che non la cancellava come essere umano, e soprattutto come donna, veniva incontro a quella che fin da bambina era stata la sua battaglia per non essere zittita dagli adulti della società patriarcale in cui era cresciuta. Michela non si conformava alla generale accettazione acritica dei misteri di fede, e si confermò in questa sua volontà quando più tardi, conobbe la 1° lettera di Pietro, in cui l’apostolo esorta: “Siate sempre pronti a rendere conto della speranza che è in voi”. Questo, se però quella speranza esiste. Ma che cos’è la fede senza speranza? Michela la definisce “la gravosa manutenzione di abitudini durate a lungo”, mentre la speranza vissuta nella fede non è “la semplice fiducia che le cose andranno a finire bene…è piuttosto la certezza che fare determinate cose abbia un senso, a prescindere dal modo in cui andranno a finire.”   Da quel momento Michela considera doveroso domandarsi ogni giorno che cosa significa nella sua vita credere a una divinità che si fa in tre per meglio amare. E’ vero, argomenta, che non possiamo capire tutto di una realtà così grande, ma non è vero che non possiamo capire niente.

Anche  il fatto che le tre figure siano indistinguibili (chi è il Padre, chi il Figlio, chi lo Spirito?) viene incontro alla sua mentalità “queer” o, come la chiama Michela, “ la pratica della soglia” (né dentro, né fuori). La soglia “come spazio vitale che rigetta l’appartenenza a un unico recinto”. Di quel recinto, di quell'ovile, Gesù dice di essere la porta, da cui fa uscire e rientrare le sue pecore. La soglia, per Michela è pratica cristologica.     

Si tratta di un nuovo modo di guardare all’identità delle persone, di una categoria “umbratile, mobile, inclassificabile, sfuggente e quindi pericolosamente fuori controllo”. La Murgia, su questo tema, dice di essersi ispirata a un testo di suor Teresa Forcades, monaca benedettina catalana, dal titolo Siamo tutti diversi. Per una teologia queer.  Comunque, per i teologi che l’hanno studiata, lo Spirito nella Trinità di Rublev è riconosciuto nella figura di destra, soprattutto per la postura, “di forma concava, accogliente e morbida” che suggerisce un atteggiamento femminile (ruah, il termine ebraico per spirito, è di genere femminile). Anche per questo, lo Spirito, come abbiamo visto, è la persona più amata dalla femminista Michela.

Se qualcuno può essere perplesso o sentirsi disturbato dal testo della Murgia, è senz’altro illuminante la lettura della postfazione della teologa Marinella Perrone  che lo giudica  ”serio, potente, provocatorio”.

Serio perché affronta con decisione “il forte disagio, quando non addirittura il fastidio di molti credenti nei confronti di un linguaggio teologico “banale… convenzionale, intriso di luoghi comuni…disagio e fastidio che non tutti sono capaci forse di tradurre in parole, ma tutti sono in grado di esprimere coi fatti e che pochi decidono di affrontare”. A questo proposito la Murgia denuncia l’atteggiamento di tanti intellettuali che, pur essendo credenti, nascondono la loro fede, quasi vergognandosene, in un ambiente che considera con sufficienza il sentimento religioso.  Al contrario Michela non ne ha mai fatto mistero e ha anzi maturato un atteggiamento di fede che non elude le grandi questioni e non si accontenta di risolverle all’interno di “intimismi devozionali”. 

Potente perché “autentico, in grado di coinvolgere per l’acume delle argomentazioni, la genialità dei nessi culturali, la profondità delle riflessioni”. Autentico perché saldamente agganciato alla realtà della vita, alla propria e a quella di tutti, soprattutto delle donne. Partendo da sé, dal proprio vissuto di donna, di femminista e di credente.

Provocatorio  per come nel suo “catechismo femminista” rende ragione della sua fede, interpella, chiama a una discussione interiore, ma dato che lo fa “a partire da sé”, chiede altrettanto coraggio. “Accettare la querness come prassi cristiana, dice Michela, significa riconoscere che il confine non ci circonda, ma ci attraversa e che quel  che avvertiamo come contraddizione è in realtà uno spazio fecondo di cui non abbiamo ancora compreso il potenziale vitale.” Del resto le contraddizioini e i paradossi non sono certo estranei alla narrativa evangelica.

A conclusione, mi sembra giusto riportare una dichiarazione di Michela Murgia che riassume il suo intento nello scrivere questo testo. “La mia è una riflessione su fede e femminismo, affrontata da una prospettiva queer, cioè evitando di rapportarsi a Dio con definizioni che, soprattutto oggi, si rivelano insufficienti e superate”. Soprattutto, aggiungo io, un modo nuovo e convincente di fare teologia.

 

Donatella  Coppi

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