Koinonia Settembre 2022


Ci vuol altro, a cacciar Cristo di nido,
Che dir ch’ell’è una favola: fa d’uopo
Favola ordir di non minore grido.

Vittorio Alfieri, Satira Settima. L’Antireligioneria , vv. 45-47

 

 

OPERAZIONE PLENILUNIO (II)

 

Parlava come un anarchico e pregava come un mistico.    

Ed era proprio questa sua ambiguità il peggiore dei capi d’accusa nei suoi confronti. Un ateo che critica la religione è normale, recita la propria parte, fa il proprio mestiere, ma se lo fa un credente che va anche in chiesa, al tempio o alla moschea, è la confusione totale, è la bestemmia. Diventa un rinnegato, un eretico, un demonio, un lupo rapace. Un animale impuro. Per i superortodossi, impuri sono gli animali - per esempio i suini - che hanno l’unghia fessa ma non ruminano, qualcuno ha inventato il proverbio “non sono né carne né pesce”; la buona società che vive di idee chiare ha paura di quelli che “tengono il piede in due staffe”, i “voltagabbana”, non li può mai arruolare e inquadrare nei suoi schemi, nei suoi partiti, nei suoi eserciti. Sono destabilizzanti, imprevedibili, inaffidabili, atipici, anarchici, renitenti e disertori. Tutte le civiltà e tutti i regimi li hanno isolati e dileggiati, scherniti e perseguitati: hanno inventato le cliniche psichiatriche per poterli classificare, screditare e contenere come pazzi, omosessuali o allucinati. Eppure non sono mai riusciti a disfarsi di Tersite e Dioniso – lo scemo e l’ubriaco – Bacco, Pulcinella, Arlecchino e tutti i loro Satiri e Sileni.

Jeoshua era uno di questi maledetti, tragici Pulcinella; e aveva capito benissimo, ormai, che la pazienza della buona società dei religiosi, degli atei devoti e dei boiachimolla era agli sgoccioli, e stavano per presentargli il conto tutti insieme.

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Un giorno che la famiglia, approfittando di un viaggio organizzato a un famoso santuario, l’aveva portato a una gita-premio per la promozione alla licenza elementare, all’ora del ritorno  era sparito e sua madre, trafelata, lo aveva finalmente ritrovato, impegnato a discutere di teatro, con un gruppo di insegnanti di una scuola superiore in gita scolastica: “Un giovane promettente, complimenti, signora!” aveva detto il preside. “Grazie. A casa facciamo i conti” fu la risposta semiseria, ma si vedeva che era contenta.

 

Nei circoli del dissenso radicale quel gruppo di saltimbanchi non piaceva a nessuno, e soprattutto il loro capo. “Il solito stronzo!” era il giudizio corrente, innanzi tutto perché non si confrontava con loro, introducendo per ciò stesso – dicevano – una spaccatura nel fronte della resistenza popolare. La simpatia con cui la gente li accoglieva era una prova in più della loro posizione qualunquista e accomodante. Non facevano mistero, poi, di amicizie altolocate nella piramide del potere oppressore: Jeoshua non aveva nemmeno cercato di mimetizzare la sua disponibilità verso un ufficiale dell’esercito, rendendogli visita a domicilio, così come aveva fatto con il direttore del centro culturale della città, che lo aveva chiamato per la grave malattia della figlia. Quando si trattava di bambini malati, portava nelle loro case veloci spettacolini buffi, con parrucche e nasi finti, e spesso li rianimava talmente da guarirli (cosa che ai medici, progressisti o no, dava terribilmente sui nervi). Se lo chiamavano andava ad animare le feste familiari nei cortili così come nelle case perbene, e dovunque, con quella compagnia di guitti, lasciava il segno profondo di una permanente simpatia, faceva gustare a tutti la sensazione che la pace è possibile, se soltanto la si voglia, senza esecuzioni mirate e senza disseminare i bar e le strade di brandelli di carne umana.

Si sa, poi, che questo genere di interventi porta soldi per l’autofinanziamento, e questa era la vera ragione per cui quello strano gruppo non tagliava i ponti con le classi dirigenti, mantenendo i piedi in due scarpe nonostante certe tirate omiletiche sulla ricchezza e sulla povertà. Un pacifismo rinunciatario che faceva effetto sui giovani e li scoraggiava dall’entrare sia nell’esercito che nell’ala militare della resistenza. Come tutti i gruppi nonviolenti, questo contribuiva a creare un alibi per quanti vogliono appartenere all’area del dissenso, senza correre i rischi della clandestinità armata, tant’è che due o tre di loro avevano abbandonato i compagni combattenti per questa nuova aggregazione.

Gente inutile, dunque dannosa.

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Le trattative per la liberazione di Bar Abbas, che si trovavano a un punto morto, ripresero attivamente. I superortodossi e il dissenso armato si accordarono, si sarebbero liberati entrambi di una spina nel fianco. Jeoshua sarebbe stato presentato come il vero mandante delle stragi e la mente occulta che astutamente aveva sempre giocato contro ogni piano di pace. Finalmente i servizi segreti erano riusciti a svelare l’intrigo e a produrre prove inoppugnabili per il tribunale. Bisognava far presto.

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In fondo alla stradina si salutarono.

“Credo che non sia il caso di andare a dormire a casa”, disse Jeoshua a Shimon sottovoce.

“Non è prudente farsi trovare comunque, questa notte” aggiunse Shimon.

Jakov e Johanaan la pensavano allo stesso modo, il gruppo si sciolse e i quattro presero per la periferia.

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Shimon era con Jeoshua, Jakov e Johanan in quel pezzo di periferia desolata, tra capannoni abbandonati e depositi di sfasciacarrozze. Jeoshua stava a cento metri di distanza dagli altri, che si erano infilati in una carcassa di autobus e si erano appisolati. Arrivò Jehudah. Era sceso da un furgoncino civile senza targa insieme con tre uomini armati e una donna. Si avvicinò a Jeoshua e lo abbracciò con entusiasmo: “Ecco, questi sono i compagni che vogliono parlare con te, per quella cosa”. I tre afferrarono Jeoshua, la donna lo ammanettò rapidamente e lui non oppose resistenza. Lo spinsero nel furgoncino e partirono. Jehudah era rimasto impietrito da quella scena fulminea, che non si aspettava.

Aveva capito solo ora. Il suo stomaco era rattrappito e il cuore secco. Non sapeva muoversi, né dove andare. Aveva ancora in tasca l’assegno che gli avevano dato per un servizio di cui non aveva valutato le conseguenze, e che lui avrebbe versato nella cassa del gruppo, per ripianare un piccolo ammanco. Qualche altra volta gli era capitato ma nessuno si era accorto di niente, o almeno così credeva.  Sempre a buon fine, s’intende. Ma questa volta era diverso.

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Shimon e gli altri furono svegliati dall’arrivo del furgoncino, ne avevano visto il fascio dei fari, e quando si resero conto di quanto stava accadendo era troppo tardi. Shimon impugnò la pistola che portava abitualmente e sparò alla cieca sul gruppo, i due uomini armati misero il dito sul grilletto ma tutto si fermò lì. “Piantala” - gli mormorò Jeoshua attraverso la portiera che si chiudeva - “quante volte abbiamo detto che la violenza chiama violenza. Lascia stare”.

Shimon si trovò faccia a faccia con Jehudah, giallo come un morto, arrivarono Jakov e Johanan arruffati e assonnati, nessuno capiva niente.

Il furgone era già sparito. Tutto in pochi secondi.

“Dove lo portano?” disse Shimon come a se stesso, e partì di corsa verso il centro.

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A notte fonda, Natanael fu svegliato da un trambusto insolito per quella zona della città. Dalla finestra di casa vide un gruppo di uomini armati che facevano salire un tale su un furgoncino civile, senza targa. Pensò a un rapimento, e si sentì in dovere di chiamare la polizia. Al telefonista assonnato  raccontò l’accaduto dove come quando. Diede il proprio numero.  “Va bene, grazie” fu la risposta, ma nessuno richiamò.

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Shimon arrivò senza fiato al comando di polizia. Un paio di prostitute e i soliti drogati rastrellati in giro, ma anche molto nervosismo. Porte che sbattevano, voci alterate,  agenti in divisa e in borghese, un dirigente che arrivava in maniche di camicia, un magistrato ancora mezzo addormentato. 

Da una porta uscì una donna, quella donna che stava sulla camionetta e poi sul furgone. Fece tre passi in corridoio e incrociò lo sguardo di Shimon: si bloccò e tornò indietro dicendo ad alta voce a quelli che stavano dentro: “Ecco, quello della pistola è qui, era con lui, l’ho visto bene. Adesso lo capite che è uno pericoloso?”.

Tornò in corridoio e si piantò davanti a Shimon. “Eri con lui, vero? Siete una banda di sporchi galilei che fate il doppio gioco, ma questa volta dovrete farla finita…”.

Shimon era paralizzato, farfugliò una scusa ingenua: “Non so di che parli, io sono qui perché mi hanno fregato il motorino…”.

Da una stanza uscì Jeoshua tra una squadra di agenti, la donna era con loro e gli ripassò accanto: “E questo, Anche questo è un capo…”. Nessuno le diede retta e Jeoshua guardò l’amico per un istante.

Shimon uscì con un groppo in gola, prima che qualcuno ci ripensasse. Come un bambino sconfitto, si accoccolò in posizione fetale, in un angolo pieno di cicche, orina, preservativi e cartacce, e scoppiò a piangere.

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Due degli amici di Jeoshua - due comparse, che recitavano soltanto nelle feste grosse, quando c’era bisogno di una mano anche solo per distribuire le locandine, vendere noccioline e fichi secchi agli spettatori e tirare su qualcosa per la cassa comune - avevano sentito parlare di quell’arresto atteso ma incredibile. Fiutarono l’aria e decisero di sparire per un po’.  “Mio zio ha una fattoria verso nord-ovest, del lavoro ce n’è sempre”. Si incamminarono verso Amwas, una borgata ormai semidiroccata, dopo essere stata più volte presa di mira da ripetute incursioni. Anche il resto della compagnia si rendeva conto che la situazione stava precipitando, e si disperse. Si temevano altri arresti, o aggressioni improvvise da parte dei picchiatori professionali che nessuno ha mai visto né conosciuto, e che diventano le solite “schegge impazzite dei servizi segreti”, quando si fanno beccare e un magistrato professionalmente onesto non può fare a meno di portarli in tribunale.

Davanti al posto di polizia non c’era nessuno. Dopo una mezz’ora arrivarono trafelate alcune donne del gruppo. Tra loro c’era la madre di Jeoshua. C’era anche il più giovane della compagnia, Johanaan (il fratello di Jakov) l’amico di Jeoshua. Il piantone non li fece entrare, ma nessuno venne a importunarli. Sulla strada buia non si sentiva altro che il passaggio di qualche automezzo militare e il guaito delle donne, che ormai prevedevano il peggio.

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Trascorsero un paio d’ore senza novità. Arrivarono e ripartirono alcune camionette, per il cambio dei turni. Una delle donne si fece coraggio e tornò alla guardiola a chiedere notizie. Nel frattempo era cambiato l’agente di guardia e il nuovo non sapeva niente. Disse “Adesso vado a chiedere” e sparì dietro una porta, poi tornò e disse che nessuno ne sapeva niente, che c’era stato un arresto e un interrogatorio ma ora l’imputato era stato tradotto al carcere per un incontro con il magistrato.

“Noi non abbiamo visto uscire nessuno” insisté la donna.

Erano passati dall’autorimessa, nell’interrato, ed erano usciti da dietro.

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Il carcere era all’altro capo della città e il gruppetto ci s’incamminò di corsa, a qualcuno venne in mente di suonare alla porta di un consigliere per vedere se poteva fare qualcosa – un greco, un certo Nicodemo, che incontrava spesso Jeoshua. Qualcuno senza aprire rispose che non era in casa, erano venuti gli uscieri a prenderlo per una riunione d’emergenza. Proseguirono in silenzio. Avevano paura.

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Una donna forte, Mariam, la madre di Jeoshua. Di famiglia discretamente benestante, si diceva che da adolescente era stata vittima di un abuso che l’aveva ingravidata; tutto era stato subito messo a tacere, ma non così presto che la gente non ne avesse parlato, e anche lungamente. Era già fidanzata a Josef-ben-David, un piccolo imprenditore che, quando se ne accorse, avrebbe potuto fare uno scandalo e chiedere i danni alla famiglia di lei, come tutti i pettegoli si sarebbero aspettati. All’epoca, la ragazza sarebbe stata considerata adultera e, secondo il codice degli ultraortodossi, avrebbe corso il rischio della pubblica lapidazione. Joseph era sconvolto: poteva anche farla abortire, la legge lo avrebbe permesso, ravvisando gli estremi della violenza carnale, della gravidanza indesiderata, della giovane età della donna, dell’ostilità dell’ambiente sociale eccetera. La ragazza non era d’accordo, voleva tenerselo, diceva che un figlio è sempre un dono di Dio, e che poteva anche essere un grande profeta, o un artista, o uno scienziato, perché no? Era stato così con Samuele e con Mosé. Joseph andò a consigliarsi con diversi saggi, poi anche con una coppia di cugini della fidanzata, Zacharias ed Elisabeth, sulle montagne della Galilea, ad Ain-Karim, dove abitavano. Due persone intelligenti e istruite, religiosi senza bigotteria, che gli tolsero gli ultimi dubbi, e il matrimonio fu celebrato con solennità. Il bambino nacque in una situazione d’emergenza, come se Josef avesse voluto sottrarsi alla pubblicità. In realtà aveva dovuto andare alla capitale per questioni di carte da regolarizzare, e aveva portato con sé la moglie incinta all’ultimo mese. Il viaggio in fuoristrada aveva affrettato i tempi e tutto accadde all’improvviso; non ebbero neppure il tempo per cercare una sistemazione decente, e il primogenito venne al mondo in un garage seminterrato della periferia, tra un autocarro e un ciclomotore, con la famiglia dei proprietari che faceva buon viso per non sembrare razzista. Arrivarono anche i vicini, ortolani e braccianti, una piccola comunità solidale. C’era anche un campo nomadi, non lontano, e furono i più generosi: proposero alla puerpera di trasferirsi in una delle loro roulottes.

E poi la fuga precipitosa oltre frontiera, in un campo profughi, con i mercenari che davano la caccia ai bambini, una pulizia etnica mascherata da operazione antiterrorismo.

Fotogrammi fulminei, che attraversavano la mente di Mariam ritmati con le pulsazioni cardiache e il passo affannato, mentre il sangue le batteva le tempie e l’angoscia le mozzava il respiro. Arrivarono alla porta del carcere giusto in tempo per vedere un cellulare allontanarsi, affiancato da quattro motociclisti.  In quel preciso istante una fitta, come  la lama di una spada, trapassò il cuore di Mariam. La donna si fermò portando le mani al petto, e stette ferma, impietrita e pallida come alabastro, il sudore che le raggelava la fronte. Il filmato con le sequenze del garage e della roulotte sparirono di colpo in un buio impenetrabile, come quando manca la corrente in un proiettore. Il velo nero che le avvolgeva le spalle e il capo le imbavagliò l’anima. Una statua di dolore, come la moglie di Lot in fuga da Sodoma e Gomorra. Le compagne la scossero. “Vieni, che hai, corriamo”.

“Non c’è fretta – bisbigliò Mariam – Non c’è più nessuna fretta”.

Cambiò strada, e le guidò verso fuori porta. Verso il poligono.

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Arrivarono al poligono che tutto era finito. Con lo stato d’assedio, le garanzie costituzionali erano ormai sospese. E chiunque poteva essere processato da un tribunale speciale e condannato a morte. Una volta eseguita la sentenza, hai un bel discutere, puoi anche riaprire il processo, e tra dieci anni ti danno magari anche ragione, e ti chiedono scusa. Ieoshua e i suoi avevano rappresentato la situazione decine di volte, e ora tutto si era realizzato in tre ore. Albeggiava, e un carro funebre era entrato nel poligono. Un funzionario chiese alla piccola folla che si era radunata ai cancelli se ci fosse qualcuno che reclamava il corpo. Le donne spinsero Mariam in prima fila, muta e irrigidita. Lo stato forniva la bara, insieme con il cadavere, e il viaggio al cimitero. Un facoltoso commerciante di sementi si fece largo e si avvicinò a Mariam.

“Mi chiamo Joseph, sono di ha-Ramatah. Non so che dire, non mi vengono le parole. Se siete d’accordo metto a disposizione la mia tomba di famiglia. Eravamo molto amici”.

La tomba di Joseph di ha-Ramatah era nuova. Diventò la tomba di un commediante condannato perché faceva sul serio.

L’autorità dispose che fino a nuovo ordine una pattuglia avrebbe dovuto assicurare il controllo, nel caso di movimenti sediziosi o altre turbative dell’ordine pubblico.

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I due che si erano incamminati verso Amwas camminavano in silenzio. Avevano saputo tutto, e non osavano parlarne. Avevano deciso comunque di non farsi vedere in città per un po’ di tempo. Un nodo alla gola. E il temporale in arrivo. Li raggiunse alle spalle un viandante, che li vide abbattuti e taciturni e li provocò: “Cos’avete da essere tanto tristi?”.

I due nemmeno lo guardarono. Era cominciato a piovere, e i cappucci delle incerate nascondevano tutto, salvo la strada e lo spazio per mettere i piedi. Non avevano voglia di parlare, e poi c’erano spie dappertutto. E questo perché non si faceva i fatti suoi?

“Non li leggi i giornali, tu?” gli rimandarono.

“E allora?”

“Brutti tempi. Jeoshua, l’hanno liquidato. Credevamo che fosse finalmente l’uomo giusto per rimettere in piedi la baracca, ma ora è tutto finito”.

“La laurea, per un profeta, è quando lo ammazzano – disse lo sconosciuto - Allora si può essere sicuri che era un vero profeta. Ed è quando lo ammazzano, che un profeta incomincia a vivere davvero, nel cuore del suo popolo. Quelli che ammazzano i profeti in realtà gli danno la laurea, e danno al popolo la garanzia che si trattava proprio di profeti veri…”.

Era molto istruito e molto saggio, quello sconosciuto: infilò una dopo l’altra una serie di citazioni di classici delle letterature mondiali, sembrava quasi che avesse imparato a memoria tutto il repertorio della filodrammatica di Jeoshua, con le sue battute e le sue pause micidiali...

Quanto camminarono? Si faceva buio, era ormai vicina la prima locanda del villaggio, una specie di tavola calda con uno stanzone e alcune brandine per pernottare. Di solito ci andavano i soldati, ma quella sera non c’erano soldati in giro. Erano consegnati in caserma per paura di sommosse.

“Rimani con noi, s’è fatto buio”.

I due fuggiaschi volevano ancora ascoltare lo sconosciuto, il gelo del loro cuore sembrava sciogliersi lentamente, mentre parlava.

Si sedettero, la ragazza arrivò con tre bicchieri e una caraffa di vino, tanto per cominciare. E il cestino con una grossa pagnotta.

“Cosa prendete?”.

Lo sconosciuto ora era in piena luce, sotto la luce al neon. L’ospite è sempre il commensale più importante. Come d’uso, spezzò il pane e fece le parti. I due si guardarono come se volessero comunicarsi qualcosa di sconvolgente, e nessuno osasse farlo per primo.

L’ospite probabilmente colse l’attimo di esitazione.

“Scusate, torno subito”.

Infilò la porta dei servizi igienici, mentre la ragazza portava in tavola.

“L’altro non c’è?”.

“È ai servizi, arriva subito”.

La ragazza guardò verso i servizi: ne usci un uomo corpulento dai baffi spioventi.

“Ai servizi c’era mio padre”, disse stupita.

“Pà, c’era qualcuno ai servizi?”.

“Qualcuno? Non abbiamo che un cesso, per chi mi prendi?”.

“Sentite, non facciamo i furbi. Ho preparato per tre, e per tre mi pagate”, disse con malagrazia ai due clienti stupefatti.

 

Per non fare discussioni destinarono la terza porzione a un mendicante che si stava affacciando all’ingresso tra le proteste dell’oste e dei pochi avventori paganti. 

Nella locanda calò il tono delle proteste e si fece silenzio.

 

Il mendicante, incredulo, entrò, si fece coraggio e si sedette tra loro vedendo la ragazza portare la focaccia di fichi e noci trite e un boccale di vino nuovo. 

Per lui, come se fosse un cliente di riguardo.

 

Si guardarono. Avevano capito.  

 

Gianfranco Monaca

(2. fine)

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