Koinonia Agosto 2022


 

MESSA NUOVA, MENTALITÀ NUOVA!

 

Miei cari confratelli, scritta la lettera sulla necessità di ben leggere, nuove difficoltà e obiezioni da dissipare ho intravisto circa il rinnovato rito della Messa.

Alcune vengono da noi stessi. Per formazione di seminario e per influenza d'ambiente, sinora noi siamo stati - in liturgia - troppo individualisti. La Messa? Era la mia Messa; cercavo di prepararmici devotamente, di celebrarla con raccoglimento; era la regina delle mie pratiche di pietà; era celebrata da me per i miei fedeli, meno dai miei fedeli con me; i miei fedeli erano laggiù, in chiesa, destinatari, non protagonisti; mi bastava che seguissero, che capissero la Messa, che però non sentivano come nostra Messa. Non dicevo loro: prepariamoci insieme, ringraziamo insieme! Dicevo invece al mio confessore: ho celebrato, ma non abbastanza raccolto, e temo che i miei fedeli non siano rimasti del tutto edificati nel guardarmi all'altare! Mai detto al confessore: per colpa mia, i miei fedeli ed io non siamo abbastanza famiglia alla Messa! Per pigrizia mia, nella mia parrocchia, l'assemblea dei partecipanti alla Messa non riesce splendente testimonianza di carità e neppure manifestazione della speranza, aspettazione fervida della futura assemblea celeste!

Ci avevano detto: celebrate da santi! E chi erano i santi? Erano Filippo Neri, che, avvenuta la consacrazione, andava in estasi ed in estasi restava due ore, ragione per cui l'inserviente, non potendo seguire l'estatico, lo piantava, andando pei fatti suoi e ritornando quando l'estasi era finita! Erano altri, che, celebrando, trovavano rituali, conforto, forza e lumi per la santità personale e per l'apostolato. Così il curato d'Ars, così Antonio Chévrier, così cento altri. Questa personale devozione è appena uno degli aspetti della Messa.

D'ora innanzi, bisogna vivere anche altri aspetti. Bisogna dire con più convinzione: meum ac vestrum sacrificium; dopo la consacrazione, laddove da parte del sacerdote vien detto che offriamo nos servi tui, sottolineeremo: sed et plebs tua sancta. Sì, sono sacerdoti anche i semplici fedeli; il loro sacerdozio non serve per transustanziare, ma serve per offrire. Avevamo forse timore di dirlo una volta, per non assomigliare a Lutero, che diceva: in Ecclesia, nullus rasus, omnis rasus (nessuno è sacerdote, tutti sono sacerdoti); dopo la Costituzione conciliare sulla Chiesa nessun timore: i fedeli, in un certo senso, sono sacerdoti e, come tali, hanno diritto e dovere di svolgere nella Messa una loro parte, che noi non dobbiamo usurpare. Dicano, dunque, il loro Amen, a ratifica, a consenso, a firma della nostra preghiera. Vengano pure, cantando e in piedi, a ricevere la Comunione dalle nostre mani. Legga pure uno di essi la lezione santa, che il celebrante ascolterà seduto e in silenzio come gli altri.

Oltre che troppo individualisti, siamo stati troppo tecnici e troppo rubricisti. «Darei la vita anche per la più piccola delle cerimonie!». L'ha detto santa Teresa di Gesù, l'hanno inculcato a noi. Ed ecco le cerimonie. Voce: quattro volte sia chiara, quattro volte media, segreta non so quante volte. Baci: quattro all'altare, uno al libro, uno alla patena. Mani: quindici volte iunctae ante pectus, sette volte iunctae super altare, otto volte extensae ante pectus; tre volte extensae super altare. Inchini: cinque profondi, otto medi, quindici leggeri. Non parlo degli occhi nove volte alzati, tre volte tenuti bassi, cinque volte fissati sul Santissimo Sacramento. Non parlo dei segni di croce, delle genuflessioni.

Tutte cose buone e da eseguire appuntino, intendiamoci, ma esse ci hanno preoccupato troppo, distogliendo la nostra attenzione da altre cose importanti e fissandola sul dettaglio e sull'esatta esecuzione del medesimo. Perfino il popolo s'è accorto della cosa e qualcuno, meno rispettoso, ha un po’ sorriso. In Tre Messe basse, il Daudet scherzosamente descrive le colpe dell'abate Balanguère, che, per celebrare in fretta, freneticamente si abbassa, si solleva, abbozza i segni di croce, le genuflessioni, accorcia tutti i gesti... sguazza nel latino... non finisce l'epistola, sfiora il Vangelo, passa davanti al Credo senza entrare, saluta di lontano il Prefazio... precipitando così, a salti e a slanci, nel più profondo dell'inferno. Anche il buon popolo novellava di un don Giuseppe, uso, benché giovane, a celebrare anche lui a scappa e fuggi. Un suo benefattore di seminario l'andava ogni tanto a trovare nel paese in cui era cappellano, ma una volta s'era rattristato forte nel vederlo strapazzare le cerimonie della Messa e s'era confidato mestamente con un amico: «Povero Cristo in mano a Beppe!». Ma ecco il figlioccio portato improvvisamente via da una meningite. La mesta confidenza del benefattore allo stesso amico non si fece aspettare, questa volta capovolta: «Povero Beppe in mano a Cristo!».

Ci guarderemo bene dall'essere frettolosi e trascurati come l'abate Balanguère e don Beppe, ma neppure faremo consistere tutto o quasi tutto nel semplice eseguire con esattezza e precisione. I riti nuovi (o, meglio, rinnovati) non sono soltanto qualcosa da eseguire appuntino; sono segni, che portano noi a capire meglio certe verità misteriose e che portano a noi certi aiuti di Dio.

Il grandissimo aiuto è soprattutto Gesù realmente presente ma non dimenticheremo che anche il ritrovarsi insieme i fedeli, in veste e funzione di chiamati da Dio e di rispondenti al suo appello, è grande cosa. Tanto più grande, quanto più numerosi essi si accostano alla stessa mensa a mangiare lo stesso Corpo e Sangue di Cristo, che entrando, unico, in ciascuno di essi, li unisce sempre più tra loro col glutine della carità.

È cosa da non trascurare, che io, celebrante, rappresenti visibilmente Cristo; in nome suo, al «seggio presidenziale» o all'altare, presiedo l'Assemblea, ne sono responsabile, ne suscito e guido la preghiera comunitaria. Sacerdotem oportet praeesse! Presiedere e quindi trascinare con me, dietro a me, presidente, colla voce adatta, col gesto grave e, soprattutto, colla santità della vita. La grande cura non sarà solo nel prepararmi ad eseguire le cerimonie mie, ma anche nel penetrarmi di convinzione ed entusiasmo e nel preparare i fedeli a capire, a fare, a cantare, organizzando ed insegnando.

E insegnerò, soprattutto, a sentire e vivere i due grandi momenti della Messa, oggi ben distinti per il luogo. Mostrerò il seggio, il leggìo o l'ambone con il Lezionario e dirò: qui si svolge il primo tempo, il tempo del Libro! Dice il profeta: «II leone rugge, chi non tremerà? Il Signore parla, chi non profeterà?» (Amos). Ricordatelo: quando Dio parla, bisogna ascoltare con rispetto e rispondere. Dio ci parla nella prima lettura, nel Vangelo, nell'omelia; noi risponderemo subito con il canto, con il Credo, coi propositi santi; nel resto del giorno risponderemo con la vita buona, con generosi sforzi per migliorare. Si compirà così la Liturgia della Parola!

All'altare, invece, si svolge la Liturgia eucaristica, il cui centro è quando il Corpo e il Sangue di Cristo sono presenti sull'altare. In quel momento sale davvero a Dio Padre l'adorazione perfetta e viene fatta un'offerta straordinaria: vittima pura, santa, immacolata è il Cristo! Ma, perché supplichiamo Dio che guardi al dono offerto «con volto propizio e sereno»? Perché, colla Vittima pura, osiamo offrire anche le povere cose nostre: fatiche, pene, dolori. A questo punto la Liturgia nostra si inserisce nella Liturgia del Cielo. Lassù Giovanni (Ap 7) ha visto un angelo, che, turibolo d'oro in mano e carico di aromi, metteva tutto su un altare. «Metti anche i nostri doni, o Signore, su quell'altare altissimo!».

Se l'adorazione e l'offerta sono il centro, la cornice della Liturgia eucaristica è costituita dalla «grande preghiera», il Canone. Ma ciò che più risalta, nel Canone, è il ringraziamento: «Rendiamo grazie al Signore», dice l'Assemblea. «È cosa buona e giusta, è per noi dovere e salvezza rendere grazie a te sempre e dovunque», dice il celebrante. E aggiunge: non solo la terra, ma anche il Cielo; non solo noi, ma tutti, anche i Cherubini, i Serafini, tutti ringraziamo, ad una voce sola! Succede qui come quando una città fa una gran festa per regalare una medaglia d'oro a un insigne benefattore. Il cuore della festa è l'offerta della medaglia. Chi fa il discorso ufficiale, però non ama insistere sulla medaglia: sarebbe inopportuno dire: la medaglia che le regaliamo, è magnifica, è finissima! Conviene, invece, enumerare i meriti che hanno provocato il dono, e cioè ringraziare! Si cerchi di far sentire all'Assemblea la grandezza della «grande preghiera» nel suo inizio (prefazio) e nella sua conclusione (dossologia). Prima il Sanctus poi l'Amen finale detto o cantato da tutti con tutta l'anima siano davvero l'approvazione cordiale e corale di tutto un popolo.

Altre difficoltà vengono dall'esterno. Nella recente udienza del 14 gennaio il Papa ha insistito sul dovere di accettare e mettere in pratica senza riserve la riforma liturgica e ha chiesto che si modifichi, se del caso, la propria mentalità abituale a favore della nuova pedagogia spirituale nata dal Concilio.

Vedo dalla stampa che, per contro, qualcuno manifesta dei timori: «Tolto il latino - si dice - casca la maestà della Messa, cascano il senso del sacro e del mistero, è messo in pericolo tutto un tesoro di musiche, che fanno da secoli la gloria della Chiesa!». È sorta perfino l'associazione internazionale «Una voce», con lo scopo di assicurare che si conservi il latino almeno per certe parti e per certi casi. Un noto scrittore cattolico inglese s'è sentito pervaso a favore del latino liturgico dallo stesso ardente zelo, che Neemia (13,8 ss.) sentiva per l'ebraico contro l'uso dei dialetti aramaici. Non è arrivato, come Neemia a rimproverare, maledire, percuotere e strappare i capelli, limitandosi a scrivere ed a organizzare la partecipazione di gruppi alle sole «Messe vecchie»! Più di lui si avvicinano a Neemia i nuovi profeti, che in gruppo - comprese venerande signore - nelle chiese di Francia e nella stessa Notre-Dame di Parigi, a sfida e protesta, rispondono in latino al francese del celebrante!

Cosa dire? Che s'abbia fiducia nella Liturgia nuova e si seguano senza esitazione le direttive del Papa e del Concilio.

Al Concilio, nella appassionata discussione sulla Liturgia, i casi si sono rivelati due.

Primo: «Lasciate tutto o quasi come sta e giace; con il latino, coi riti comprensibili solo in parte, a prezzo di non facili spiegazioni e impregnati di Medioevo latino-germanico! Piacerete ad un certo numero di iniziati dal gusto raffinato, nutriti di classicità o sentimentalmente legati a quel dato rito, a quel certo modo di cantare! Ma la massima parte dei fedeli resterà senza capire, non ricaverà dai riti tutto l'aiuto che potrebbe e continuerà ad estraniarsi dalla Chiesa!».

Secondo caso: «Cambiate coraggiosamente! Fate una Liturgia che il popolo di adesso capisce e sente! Cascherà qualche abitudine cara, si rinuncerà a qualche tradizione veneranda, ma ne risulterà la possibilità di adattarsi meglio alle varie situazioni e circostanze! Si seguiranno le leggi della vita e la Liturgia sarà la quercia antica, che affonda sempre più le radici nel terreno del passato e, nel medesimo tempo, rinnova ogni anno il suo fogliame».

Questa seconda soluzione è piaciuta alla stragrande maggioranza dei Padri, è stata sanzionata dal Papa, dev'essere aiutata con il massimo impegno dai sacerdoti, tra i quali sono sicuro di vedere volenterosi, aperti, docili, i miei.

 

Vittorio Veneto, 14 febbraio 1965.

 

tratto da: Albino Luciani, Un vescovo al Concilio. Lettere dal Vaticano II, Città Nuova Editrice, Roma 1983, pp. 90-95

 * Bollett. Eccl., 1965, pp. 74-78.

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