Koinonia Agosto 2022


GESÙ INSEGNA E GUARISCE (II)

 

Parte seconda: Parola che salva

 

C’è una fede che provoca l’essere toccati da Gesù: “Si avvicinò un lebbroso, si prostrò davanti a lui e disse: ‘Signore, se vuoi, puoi purificarmi’. Tese la mano e lo toccò dicendo: ‘Lo voglio: sii purificato!’. E subito la sua lebbra fu guarita” (Mt 8,2-3). E c’è una fede che induce a toccare Gesù, come nel caso della “donna, che aveva perdite di sangue da dodici anni” e che si avvicinò alle spalle di Gesù toccandogli il lembo del mantello dicendo “tra sé: ‘Se riuscirò anche solo a toccare il suo mantello, sarò salvata’”. E Gesù voltandosi “la vide e disse: ‘Coraggio, figlia, la tua fede ti ha salvata’. E da quell’istante la donna fu salvata” (Mt 8,20-22). Ma a fondamento di tutto vi è sempre la fede. Si avvicinarono a Gesù due ciechi ed egli “disse loro: ‘Credete che io possa fare questo?’. Gli risposero: «Sì, o Signore!’. Allora toccò loro gli occhi e disse: ‘Avvenga per voi secondo la vostra fede’. E si aprirono loro gli occhi” (Mt 9,28-30).

Nella fede ebraica e cristiana non c’è grande differenza tra il dire e il fare, tra verità che si dice e verità che si fa’, tra credere e operare. Riportiamo qui tre esempi tratti dalla Scrittura sacra.

Il primo si trova nel libro dell’Esodo, là dove dopo avere ascoltato Mosè tutto il popolo disse unanime: “Quanto ha detto il Signore, lo eseguiremo e vi presteremo ascolto” (Es 24,7), come dire: lo faremo ancora prima di averlo ascoltato fino in fondo, come se soltanto mettendo in pratica tali parole potremo dire di averle ascoltate e comprese davvero. Lungi da ogni accademismo, da ogni filosofia più o meno astratta, l’ebreo sente la parola che viene da Dio inseparabile dalla vita e dalle cose che si toccano e si fanno. Parola in ebraico è dabar, e accomuna in un unico significato sia la parola che la cosa che essa indica. A differenza del logos greco, che ha a che fare con la conoscenza, il dabar ebraico ha a che fare con la concretezza delle azioni e di ciò accade.

Il secondo esempio si trova invece nel Vangelo di Giovanni, là dove Gesù dice: “Chi fa’ la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio” (Gv 3,21).  E qui è Kierkegaard ad aiutarci, uno che ha sondato profondamente l’essenziale del cristianesimo. Egli dice così: “Ciò che è cristiano non si rapporta al conoscere, bensì all’agire”. Quando qualcuno, come Pilato, si chiede e chiede cos’è la verità, il cristiano “ha la caratteristica di rispondere, e nella risposta di catturare ciascuno a favore del compito. Per questo era così pericoloso interrogare Cristo da parte di farisei, amanti di sottigliezze, pignolerie, cavilli” (Gli atti dell’amore). Al “dottore della Legge” che gli chiede, per metterlo alla prova: “Chi è il mio prossimo?” Gesù risponde con la parabola del Buon samaritano, concludendo con una domanda, che fa lui questa volta all’interlocutore: “Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?” e dopo aver ricevuto la secca risposta altrettanto secco è l’invito che a sua volta gli rivolge: “Va’ e anche tu fa’ così” (Lc 10,25-37).

Il terzo esempio è sempre dal Vangelo di Giovanni. La folla insegue Gesù dopo averlo visto moltiplicare pani, come se pensasse: questo sì che fa’ per noi, questo sì che lo si potrebbe chiamare a governare il mondo. Ma Gesù, che li conosce bene, dice loro di darsi “da fare non per il cibo che non dura, ma per il cibo che rimane per la vita eterna”. Ed è a quel punto che la gente gli chiede: “Che cosa dobbiamo compiere per fare le opere di Dio?”. È una domanda molto simile a quella che fanno i cristiani di oggi: basta prediche, basta discorsi, ci vogliono fatti, opere, opere che Dio stesso comanda, opere di Dio; Dio non ha mani, ha le nostre mani eccetera. Ma Gesù spiazza di nuovo quella gente e dice loro: “Questa è l’opera di Dio: che crediate in colui che egli ha mandato” (Gv 6,26-29). Vi è una sorta di ribaltamento: prima del fare, di ogni fare ci sta il credere, ci sta la fede. “Credere è già esso stesso un fare”, dice Romano Guardini. Ma non un fare nel senso del “moderno soggettivismo”, piuttosto un “lavorio dedicato a una nuova, più alta realtà proveniente da Dio e diretta verso Dio”. La fede ha una forza che ha a che fare col miracolo, “fede e miracolo sono vicendevolmente connessi”, nella persona che crede vi è “già all’opera la potenza creativa di Dio. L’uomo che crede è già egli stesso una nuova creazione… La retta fede è già un miracolo… Ogni credente ha già un alito di prodigio in sé. Non magico o fantasioso, ma tranquillo e reale… Ciò che egli è nel profondo attira alcune persone, ne tiene lontane altre, determina il loro atteggiamento verso di lui. Esso filtra la sua visione e dà la sua impronta al suo sentire: regola le sue specifiche attenzioni e il suo agire” (Volontà e verità). C’è dunque un fare specifico che è solo del credente e che non può essere confuso con qualsiasi altro fare.

 

Presentarono a Gesù “un muto indemoniato. E dopo che il demonio fu scacciato, quel muto cominciò a parlare. E le folle, prese da stupore, dicevano: ‘Non si è mai vista una cosa simile in Israele!’. Ma i farisei dicevano: ‘Egli scaccia i demòni per opera del principe dei demòni’” (Mt 9,32-34). I pretesti ci sono tutti quando non si vuole credere. Un piccolo segno è già sufficiente e aiuta quando lo si guarda con fede ma nemmeno un miracolo grande induce a credere chi non ha fede. “Se dai morti qualcuno andrà da loro, si convertiranno”, dice il ricco epulone della parabola raccontata da Gesù, ma Abramo risponde: “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti” (Lc 16,19-31). Soltanto la Parola di Dio ben ascoltata e accolta, produce in noi la fede, quella fede attraverso la quale soltanto possiamo credere nei segni e nei miracoli in mano a Dio soltanto.

Vi sono nel Libro della Sapienza, una serie di versetti che fanno una certa impressione, per il loro carattere apocalittico, per come descrivono la potenza della Parola che viene da Dio non solo per dare vita ma anche per punire, per dare morte. Del resto Isaia è chiarissimo, il Messia “percuoterà il violento con la verga della sua bocca, / con il soffio delle sue labbra ucciderà l’empio” (Is 11,4). La salvezza costa cara a Dio e i credenti devono sapere questo: nel “massacro” della moltitudine sempre vi è anche  l’esperienza della morte che colpisce “i giusti” oltre che Dio. Ecco alcuni di questi versetti: 

“Mentre un profondo silenzio avvolgeva tutte le cose,

e la notte era a metà del suo rapido corso,

la tua parola onnipotente dal cielo, dal tuo trono regale,

guerriero implacabile, si lanciò in mezzo a quella terra di sterminio,

portando, come spada affilata, il tuo decreto irrevocabile

e, fermatasi, riempì tutto di morte;

toccava il cielo e aveva i piedi sulla terra.

Allora improvvisi fantasmi di sogni terribili li atterrivano

e timori inattesi piombarono su di loro.

Cadendo mezzi morti qua e là,

mostravano quale fosse la causa della loro morte.

Infatti i loro sogni terrificanti li avevano preavvisati,

perché non morissero ignorando il motivo delle loro sofferenze.

L’esperienza della morte colpì anche i giusti

e nel deserto ci fu il massacro di una moltitudine,

ma l’ira non durò a lungo” (Sap 18,14-20).

Sono espressioni che chiaramente si rifanno ai castighi che venivano da Dio così come sono stati narrati dal Libro dell’Esodo, ma con significati che possono valere anche per noi oggi. Leggendoli con attenzione mi sono incuriosito a quello che ho trovato scritto nelle brevi note chiarificatrici della Bibbia di Gerusalemme: “La morte dei primogeniti raccontata nel libro dell’Esodo, diventa l’opera della Parola divina… In questa drammatica evocazione l’autore si ispira al v. 16 di 1 Cr 21,15-27, che parla di Davide che alzando gli occhi ‘vide l’angelo del Signore ritto fra terra e cielo, con la spada sguainata in mano, tesa verso Gerusalemme’. L’insieme prende un significato apocalittico e la parola di giudizio prefigura non l’incarnazione del Verbo (contrariamente all’uso che la liturgia ha fatto di questo testo), ma l’aspetto terrificante della sua seconda venuta”.

È interessante vedere come la Scrittura sacra continuamente si apra a nuove letture e aperture per farci comprendere l’incomprensibile, per dirci che quello che pensa, dice e decide Dio è tanto più grande di noi. Il Signore viene d’improvviso, come un ladro nella notte: mentre tutti pensano alla sicurezza e alla pace, “d’improvviso la rovina li colpirà” (1 Ts 5,2-4). Ma il rimando diventa decisivo se leggiamo il Libro dell’Apocalisse, là dove si parla di “colui” che cavalca un “cavallo bianco”, che “combatte con giustizia”, che “è avvolto in un mantello intriso di sangue e il suo nome è: il Verbo di Dio… Dalla bocca gli esce una spada affilata, per colpire con essa le nazioni… Sul mantello e sul femore porta scritto un nome: Re dei re e Signore dei signori” (Ap 19,11-16).

I credenti sanno che la potenza della parola che viene da Dio è sempre rivolta alla nostra attesa, ma anche al nostro silenzio, solo così c’è vero ascolto ed essa può portare frutto e salvezza. Sempre l’Apocalisse dice che “quando l’Agnello aprì il settimo sigillo, si fece silenzio nel cielo per circa mezz’ora” (Ap 8,1).

Il silenzio di Dio, di cui spesso ci si lamenta può essere dovuto all’ira ma anche al dolore di Dio, dolore per un popolo duro d’orecchi e di cuore, un popolo che non ascolta e sul quale è stato più volte costretto a menare duro, magari poi pentendosi subito dopo come nei giorni del diluvio, e come tante volte accade anche a noi quando ci troviamo costretti ad andare giù duro coi i nostri figli, pentendoci subito dopo, soffrendo più di loro e con loro.

 

Da più parti si invoca un linguaggio fresco e nuovo per dire le antiche parole del Vangelo e della Scrittura tutta. E mi tornano in mente le parole che Dietrich Bonhoeffer scrisse, circa un’ottantina di anni fa, a un bambino in occasione del suo battesimo, là dove si augurava che arrivasse finalmente il giorno in cui gli “uomini saranno chiamati nuovamente a pronunciare la parola di Dio in modo tale che il mondo ne sarà cambiato e rinnovato. Sarà un linguaggio nuovo, forse completamente non-religioso, ma capace di liberare e redimere, come il linguaggio di Gesù, tanto che gli uomini ne saranno spaventati e tuttavia vinti dalla sua potenza” (Resistenza e resa).

Quando la Parola di Dio, quando le parole del Cristo e della croce ci penetrano dentro per davvero, un poco di spavento lo provocano, e anche una buona dose di scandalo. E tuttavia se non battiamo ciglio davanti alla Parola, se ci appare ovvia e scontata, noi non leggiamo più la parola di Dio che salva, ma una parola troppo umana, che rischia di venire subito inghiottita dall’indifferenza e dalla chiacchiera che sempre più sembrano regnare in questo nostro mondo.

 

Daniele Garota

(2. fine)

.