Koinonia Agosto 2022


L’ANGELO DELLA PACE

Il Vangelo nel tempo della guerra

 

“Non si tratta qui di costruire una dottrina cristiana sulla pace, sempre rischiosa e alla fine mai definita una volta per sempre, ma di indicare alcuni punti forti per un discernimento dei segni dei tempi e per confessare la fede al cuore dei conflitti, là dove è in gioco la vita e la morte di milioni di persone”.

Questo il periodo introduttivo del quaderno che riunisce, a cura di Massimo Toschi, sedici articoli sui temi della pace e della guerra pubblicati su Missione Oggi nel 2002. Partendo per le vacanze ho scelto questo volume, tra le varie possibili ‘riletture’ perché mi sembrava che non ci potesse essere niente di più attuale e volevo cercare di riflettere sulle differenze fra la crisi di allora e quella di oggi.

Durante la guerra del Golfo nei primi mesi del 1991 (ricordo ancora l’imponente marcia per la pace a Roma, una delle motissime in tutto il mondo), “il papa dice parole importanti sulla guerra, quasi una condanna definitiva e senza appello, nonostante le incertezze e le riserve di molti vescovi e conferenze episcopali” e si ricordano  le parole della Pacem in terris che mettono fine a 15 secoli di teologia della guerra.  Anche ora, mentre le parole di papa Francesco sono inequivocabili, non credo si possa dire altrettanto dei vescovi delle varie nazioni.

Allora, dice l’articolo, (ma la situazione odierna è poi molto diversa?), appariva “evidente come la Parola di Dio fosse considerata come un’ispirazione che rimane sullo sfondo, piuttosto che sostanza generante la testimonianza cristiana”.  Si ricorda una volta di più come la pace costantiniana tra la Chiesa e l’Impero “ha portato a giustificare le guerre dell’impero come guerre anche della chiesa” e fa nascere la distinzione deleteria “ tra un Vangelo che i singoli possono vivere in tutta la sua radicalità e la responsabilità di chi ha il potere della vita collettiva e deve mediare tra urgenze del Vangelo e la durezza della storia con tutta la sua violenza. La radicalità del Vangelo viene affidata ai monasteri e ai poveri cristiani... Per la politica rimane un generico impegno per la pace e una promozione e conduzione della guerra secondo i principi di una dottrina teologica che vuole ispirare il potere e mediarne l’uso della violenza e delle armi”.

Ma questa dottrina, continua l’articolo, si misurava su un tipo di guerra i cui protagonisti erano i soli militari e l’uccisione dei civili, se deliberata, era considerata immorale e inammissibile.

Nel XX secolo però la guerra è radicalmente cambiata, perché, a partire dalla guerra di Spagna, “il vero e sempre più crescente obiettivo diventa l’uccisione deliberata dei civili”, anche se si continua a mentire sulle proprie vere intenzioni e si continua a parlare, contro ogni evidenza, di ‘danni collaterali’. Inoltre, sempre più, “le guerre non finiscono con la firma di un trattato, perché le mine anti-uomo continuano a uccidere anche oltre la fine del conflitto armato e l’inquinamento prodotto dalle bombe ha effetti devastanti sulla vita delle popolazioni civili”.

Sappiamo che sono queste considerazioni che spingono Giovanni XXIII nel 1963, con la Pacem in terris, “non solo a porre fine alla teologia della guerra giusta, ma anche a rifiutare in radice ogni futura possibilità di guerra... Egli  comprende con assoluta chiarezza che l’era atomica cambia totalmente la qualità della guerra, non solamente nel senso che viene aumentata in senso geometrico la sua potenzialità distruttiva, ma che a causa di questo i civili e la loro uccisione diventano l’obiettivo primario” e questo lo porta a “spezzare definitivamente il legame fra guerra e giustizia”. “Il grido delle vittime diventa come il segno dei tempi che domanda alle chiese di convertirsi, di chiedere perdono per aver giustificato la guerra e di comprendere meglio il Vangelo della pace”.

 

Come conseguenza del Concilio, “l’evento per mezzo del quale Giovanni XXIII ha rimesso il Vangelo al cuore della storia... la pace ha abbandonato per sempre i capitoli delle teologia morale... per tornare ad essere luogo decisivo della confessione della fede”.

Si comprende allora con assoluta chiarezza che “la pace è al cuore della cristologia, la pace è una persona, è Gesù nella totalità del suo mistero. Dunque la pace evangelica è coestensiva alla presenza del Messia povero e pacifico in tutta la storia degli uomini. In questo senso la centralità assoluta della pace diventa coestensiva alla centralità assoluta dell’Eucarestia. E la pace e l’Eucarestia diventano coestensive nel mistero della Vittima, che nella storia si rivela nel volto concreto delle vittime della violenza. Se quindi la guerra, ogni guerra, è l’antivangelo, nessuna guerra può essere più giustificata dal punto di vista della fede... Questo significa percorrere altre vie per risolvere i conflitti internazionali, per piegare dittature e regimi violenti, per combattere il terrorismo”. Si tratta di seguire Cristo, diceva Bonhoeffer, nell’ambiguità della vita, dove male e bene si mischiano in una realtà opaca... Il cristiano deve inventare risposte etiche originali e audaci all’altezza dei tempi drammatici in cui si trova a vivere.

 

C’è come un parallelismo, diceva Missione Oggi alla fine del 2002, tra la ripresa della teologia della guerra e la crisi crescente del pacifismo. Col tempo, possiamo dire che questa crisi ha continuato a crescere e le parole di allora sono validissime anche oggi. A partire dalla guerra dei Balcani, ”c’è stata come una progressiva assunzione, da parte dei movimenti pacifisti, dei punti essenziali della nuova cultura della guerra che si è espressa con il principio dell’ingerenza umanitaria e del disarmare l’aggressore”.  Parlando del dramma di Sarajevo si dice che “alla fine l’unica strada realista per salvare quella città è sembrata l’azione miltare: il pacifismo, per avere peso politico, per incidere sulla situazione, non sa far altro che assumere le categorie della guerra..prende atto che, per realizzare la pace sono possibili, anzi necessari, anche mezzi non pacifici. In questo trovando il sostegno delle chiese e delle religioni, ciascuna schierata su un versante contro l’altro”. Anche oggi il discorso di radicale pacifismo di papa Francesco non è capito, né tanto meno accolto, dalle chiese dei due paesi in conflitto.

Ciò che si è perduto da parte del movimento pacifista non è tanto l’impegno per la pace, per altro condiviso da tutti a parole, ma la consapevolezza che solo mezzi pacifici possono costruire la pace che genera la giustizia.

Parlando poi dell’Afghanistan, si riconosceva già allora che non era stato sconfitto il terrorismo, ma che “in nome di astratti principi formali come l’uso proporzionato della forza, si è riusciti soltanto a cambiare un regime politico rendendo più sicura una linea del petrolio”, con quali conseguenze nel lungo periodo l’abbiamo visto nel corso di quest’ultimo anno.

Anche per quanto riguarda le marce della pace Perugia-Assisi, vale ancora oggi il discorso di allora. “Nate sulla discriminazione della non-violenza sono arrivate a un approdo di grave ambiguità... in una grande confusione delle lingue.  Si è  preferito mantenere l'unità del movimento per la pace, a scapito di una chiarezza di obiettivi... È venuta meno una rigorosa e fondata cultura della pace... Verrebbe da dire che nella seconda metà degli anni '60 c'era una cultura della pace più coerente e rigorosa”. Ma, diciamo oggi, quando si è arrivati alla prova dei fatti, prima nei Balcani, poi dopo il 2001, in Iraq, nel 2011 con le rivoluzioni nei paesi arabi e infine oggi con l'aggressione della Russia all'Ucraina, la coerenza e il rigore non sono più stati così 'facili'. Sempre ricorrendo a Bonhoeffer, che secondo me è una lettura da tempo di crisi per i cristiani adulti, egli dice che sì, l'uomo è salvato dalla sola grazia di Dio, ma la grazia non è a buon mercato:”la grazia a buon mercato è grazia senza sequela, grazia senza croce, grazia senza Gesù Cristo vivo e incarnato”.

“Elaborare una nuova cultura di pace è compito di molti. Ciascuno è chiamato a portare l'originalità del suo pensiero, la ricchezza della sua tradizione  culturale e spirituale”. Anche le chiese e i cristiani, noi diremmo soprattutto le chiese e i cristiani, non possono sottrarsi a questa fatica, a questa responsabilità, oggi più stringente che mai.

Missione Oggi ricorda alcuni punti essenziali da cui partire:

 

1 – il non uccidere. La parola biblica deve di nuovo assumere tutta la sua forza profetica. Si spezza davvero il circolo della violenza quando si decide di dare la vita per i nemici... solo così la violenza non diventa più padrona della nostra vita... Quando si uccide, anche se questo avvenisse per un motivo giusto e nobile, si moltiplica l’odio e l’inimicizia nel mondo...

2 - il fare la pace con mezzi pacifici. Sta qui la grande questione della non violenza attiva. La pace non può essere costruita con qualunque mezzo: deve essere costruita con mezzi coerenti con il suo fine. Citando, non so quanto a proposito, l’implosione dell’Unione Sovietica, il crollo del muro di Berlino e la fine dell’apartheid in Sud Africa, Missione Oggi ribadisce che sono possibili altre vie rispetto all’azione militare. Anzi, aggiunge, i regimi autoritari sono spesso rafforzati dalla guerra, mentre sono sempre destabilizzati dal dialogo della non violenza, che punta non a distruggere, ma a cambiare le coscienze.  Anche i palestinesi, aggiunge l’autore dell’articolo, con la lotta violenta promossa dalle organizzazioni politiche, “hanno ottenuto l’unico risultato di distruggere la vita e la speranza di un popolo. I palestinesi non otterranno mai il riconoscimento dei loro diritti con le armi, ma attraverso la forza non violenta delle loro ragioni”. Alla luce degli avvenimenti degli ultimi 20 anni, mentre concordiamo sull’inutilità della lotta armata per i palestinesi, è ragione di sconforto constatare come essi siano stati sempre più abbandonati ormai anche da tanti paesi arabi che si sono uniti a Israele e agli Stati Uniti nell’unica ricerca del sempre maggiore profitto.

3 – lo stare nella storia dalla parte delle vittime.  “Quando si legge e interpreta la guerra dalla parte di un computer o dalla stanza dei bottoni o di un palazzo della curia o di una facoltà di teologia, è facile dimenticare che oggi la guerra significa prima di tutto uccidere vittime innocenti... Il loro volto e la loro sofferenza invocano pace e non guerra. Il loro patire diventa il discernimento più grande sulla guerra e sulle sue apparenti e sofisticate ragioni”.

4 – il perdono e la riconciliazione. Naturalmente l’autore cita il grande lavoro della Commissione sulla verità e la riconciliazione in Sud Africa. “Non la via della vendetta, che mai costruisce, ma quella del riconoscimento del dolore dell’altro, il confessare la propria colpa rispetto ad esso... Questo apre un processo profondo di ricomposizione del tessuto della vita comune, senza il quale l’odio non è sconfitto”.

 

In conclusione, l’autore dell’articolo cita l’introduzione della Leggenda Maggiore a proposito di Francesco d’Assisi, definito “Angelo della vera pace... predestinato da Dio a preparargli la strada nel deserto dell’altissima povertà...”.

La povertà, l’altissima povertà, la sobrietà come scelta di vita, come unica via per salvare la terra e le specie che la abitano: finché  non ripudieremo la religione del consumismo, l’unica religione che non conosce crisi, finché non capiremo che non abbiamo altra scelta per sopravvivere, per vivere finalmente in pienezza, non potremo conoscere la vera pace.

 

Donatella Coppi

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