Koinonia Giugno 2022


LA CHIESA: TRA ISTITUZIONE E PROFEZIA

 

Facilmente, tra i credenti, quando si chiede cosa sia il regno di Dio si può trovare chi risponde: la Chiesa. E senza che nemmeno si sospetti come questa possa addirittura essere una risposta tra le più fuorvianti dal punto di vista della fede. Una risposta cioè, che non tiene più conto del compito profetico messianico che ha la Chiesa, ritenendola ormai del tutto appiattita nel suo ruolo istituzionale interamente finalizzato alla costruzione anziché all’attesa del regno di Dio. Come dire: Dio in Cristo ci ha dato l’esempio per costruire il suo regno sulla terra, ora spetta a noi tirar su le maniche e realizzarlo finalmente. Una sorta di ipocrisia, questa, che Lévinas chiamerebbe “del borghese adagiato”.

La Chiesa non va confusa col Regno, essendo sempre, prima della seconda venuta del Signore, al di qua del Regno. E tuttavia, al tempo stesso, indispensabile al Regno che deve venire: è grazie a essa che generazioni e generazioni di uomini e donne hanno potuto ricevere i fondamenti della fede, le promesse che Dio ha fatto da tempo all’umanità intera e che siamo a nostra volta chiamati a vivere e trasmettere, per quanto possibile, attorno a noi e a chi viene dopo di noi.

La Lumen gentium ci ricorda che il Signore Gesù diede vita alla Chiesa “predicando la buona novella, cioè l’avvento del regno di Dio da secoli promesso nella Scrittura… un regno del quale la Chiesa costituisce in terra il germe e l’inizio. Intanto, mentre va lentamente crescendo, anela al regno perfetto e con tutte le forze spera e brama di unirsi col suo re nella gloria” (I,5). La fede infatti percepisce, prima e più di ogni altra cosa, la mancanza del Regno il cui re, quando era ancora tra noi, ci ha invitato a invocarne ogni giorno, nell’unica preghiera che ci ha insegnato, la venuta (Mt 6,10).

 

Ai farisei che chiedevano quando sarebbe venuto il Regno, Gesù rispose: “Il regno di Dio non viene in modo da attirare l’attenzione, e nessuno dirà: ‘Eccolo qui’, oppure: ‘Eccolo là’. Perché, ecco, il regno di Dio è in mezzo a voi!’” (Lc 17,20-21). Quest’ultimo versetto ha dato adito a diverse traduzioni e interpretazioni. C’è anche chi ha tradotto: “il regno di Dio è in voi” sottolineando, come ha fatto il teologo liberale von Harnack, che “il regno di Dio viene, quando viene nei singoli, quando entra nella loro anima ed essi lo accolgono” (L’essenza del cristianesimo). Una interpretazione dunque del tutto finalizzata all’impegno etico e spirituale di ognuno di noi qui e ora. E però pare che a essere ben più coerente con la speranza neotestamentaria, sia invece l’interpretazione escatologica. Jeremias dice che quell’affermazione di Gesù andrebbe tradotta così: “Il regno di Dio sarà improvvisamente in mezzo a voi” (Neutestamentliche Theologie I, 104). 

Tutto il Nuovo Testamento rivela che il tempo della Chiesa è un frattempo in attesa che “il padrone torni dalle nozze, in modo che, quando arriva e bussa” vi sia chi apra subito. Un padrone così buono che si stupirà a tal punto, di trovare qualcuno ancora sveglio ad aspettarlo dopo tanto tempo di attesa, che “si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli” (Lc 12,35-38). Il pericolo è dunque quello evidenziato dalla parabola in cui Gesù parla di “un uomo di nobile famiglia” che, dovendo partire “per un paese lontano, per ricevere il titolo di re e poi tornare”, ha a che fare con cittadini che arrivano a fare le cose senza avere più bisogno di lui, o addirittura a mandare “dietro di lui una delegazione a dire: ‘Non vogliamo che costui venga a regnare su di noi’” (Lc 19,11-27).

Subdola è la tentazione di una Chiesa che si sente chiamata a gestire la sua missione qui e ora dimenticandosi che il Signore deve tornare a giudicare i vivi e i morti, potendo soltanto così farci entrare, finalmente, nel “suo Regno” che “non avrà fine”, come dice la fede della Chiesa.

La Chiesa del Signore non è quella che ha in gestione le anime da dirottare in paradiso, ma quella che conserva il grido dello Spirito e della Sposa: “Maràna tha!”, “Vieni Signore Gesù” (1 Cor 16,21; Ap 22,17.20). È in questo grido incontenibile e decisivo infatti, che i credenti di ogni generazione sono come “bruciati dalla fretta di andare ad abbracciare ciò che forma l’oggetto delle nostre speranze - dice Tertulliano -. Le anime dei martiri, sotto l’altare, invocano il Signore gridando a gran voce: ‘Fino a quando, Sovrano, tu che sei santo e veritiero, non farai giustizia e non vendicherai il nostro sangue contro gli abitanti della terra?’ (Ap 6,10). A loro, in realtà, dev’essere fatta giustizia, alla fine dei tempi. Signore, affretta dunque, la venuta del tuo Regno!” (De oratione, 5). Questo significa avere fame e sete di giustizia, questo intendeva Gesù dicendoci di non preoccuparci troppo per il domani. Se dobbiamo guardare “gli uccelli del cielo” e “i gigli del campo”, non è per un pacifico abbandonarci nelle mani della provvidenza, ma per cercare “anzitutto il regno di Dio e la sua giustizia”, considerando tutto il resto, nelle nostre quotidianità, nient’altro che “aggiunta” (Mt 6,25-34).

 “Il bene prezioso che (le) è stato affidato” (2Tm 1,14), la Chiesa ha saputo, nonostante tutto, portarlo fin qui, e ad ognuno di noi suoi figli spetta il compito di conoscerlo e trasmetterlo, così come ci arriva fin dai tempi apostolici, a tutti in tutto il mondo. In questo senso la Chiesa è “una, santa, cattolica e apostolica” e in questo senso già “dove sono due o tre riuniti” nel suo “nome” il Cristo è in mezzo a loro (Mt 18,20). Anche nella chiesina più sperduta nella campagna, in cui un povero prete continua a spezzare il pane, vi è il corpo di Cristo e la Chiesa presente come “corpo” di cui Cristo è “il capo” (Col 1,18).

Alla Chiesa di Pietro Gesù ha consegnato “le chiavi del regno dei cieli” (Mt 16,19), e sarà quella stessa Chiesa, alla fine, a venire giudicata dal “Veritiero”, da “Colui che ha la chiave di Davide”, da Colui che conosce le sue opere e la “forza”, per quanto “poca”, di custodire la sua parola e di non rinnegare il suo nome (Ap 3,7-8).

Alla Chiesa Gesù ha fiduciosamente assegnato un compito di mediazione forte dicendo: “Le potenze degli inferi non prevarranno su di essa” (Mt 16,18). E tuttavia “Guai, guai alla Chiesa cristiana che pretendesse d’aver trionfato in questo mondo, perché allora non è stata essa a trionfare ma il mondo, abolendo l’eterogeneità fra Cristianesimo e mondo: il mondo ha vinto e il Cristianesimo ha perduto” (S. Kierkegaard, Esercizio del cristianesimo).

Se c’è una possibilità di vittoria sul mondo, essa non viene dall’intrallazzo con ricchezze e poteri che ci porterebbe dritti in braccio a chi di questo mondo è “principe” (Gv 12,31), ma dalla “nostra fede” (1Gv 5,4), dalla fiducia che riusciamo ancora a riporre nella potenza di Dio, quella che si è manifestata, soprattutto, nel Cristo debole e crocifisso, che ha vissuto nel nascondimento di Nazaret facendo il falegname: una “debolezza di Dio” questa, che è più forte di ogni potenza umana (1Cor 1,25).

Gesù scappò via quando la gente lo cercava “per farlo re” (Gv 6,15). La Chiesa deve essere povera non ricca, profetica non diplomatica: Dio sarà visto un giorno dai “puri di cuore” (Mt 5,8), non da chi diventa volpe o lupo pur d’arrampicarsi in alto. La Chiesa è chiamata a restare fuori dalle logiche del mondo. La parola Chiesa, ekklèsia, viene dal greco ek-kalein, che significa “chiamare fuori”. La Chiesa è una comunità di persone chiamate a stare sui confini, “con le vesti strette ai fianchi e le lampade accese” in attesa che il “padrone” torni “dalle nozze, in modo” da aprirgli subito appena “arriva e bussa” (Lc 12,35-36). Solo così può testimoniare al mondo ciò che appartiene a Dio, come la pensa Dio. Nessun discorso dottrinale o programma pastorale, potrà mai sovrastare questo umile, fragile, precario, marginale e tuttavia preziosissimo compito di fedeltà, testimonianza, annuncio e attesa.

Quando la Chiesa sta bella comoda nelle sue solide sedi e dimentica di essere pellegrina sulla terra, in esilio, allora non è più credibile, perché non è più la Chiesa pronta a farsi da parte, “nell’attesa che si compia la beata speranza e venga il nostro Salvatore Gesù Cristo”, al quale soltanto appartengono “il Regno, la potenza e la gloria nei secoli”, come dice la liturgia.

 

Difficilissima è la vita di chi è costretto ad attendere a lungo. “Il tempo e l’ora sono tanto più potenti quanto meno l’uomo li conosce”, soltanto Dio sa, “il tempo e l’ora sono impotenti solo davanti a Dio”, e questo “perché egli non è soltanto redentore, ma anche redento e la redenzione quindi per lui è autoredenzione”, dice Franz Rosenzweig. Dio è un re senza regno, orfano come noi del luogo promesso, e dunque come noi in esilio, in attesa. Per questo se nulla di definitivo dovesse un giorno accadere, “la preghiera rimane un sospiro nella notte”. Senza la percezione del vuoto non si attende né si invoca la venuta del Regno, ma il vuoto porta a disperazione, non lo si regge a lungo. Si cerca allora qualcosa che duri, che regga nel tempo. “Ma non appena si istituisce la ricerca del ‘durevole’, dell’‘una-volta-per-tutte’, che solo conferisce fondamento e consistenza a quell’esserci, si vede subito che il cercato non c’è ancora, o, più esattamente: c’è come qualcosa che ancora non c’è” (La stella della redenzione). Ecco, la Chiesa è chiamata a vivere ogni giorno questo “durevole” esserci, come “fondamento”, cioè con fede. Poiché “la fede” altro non è che “fondamento di ciò che si spera e prova di ciò che non si vede” ( Eb 11,1), di “ciò che ancora non c’è”. Soltanto così la Chiesa resterà cristiana, messianica, fino alla fine.

La Chiesa Cattolica così si esprime nel suo Catechismo: “Già presente nella sua Chiesa, il Regno di Cristo non è tuttavia ancora compiuto ‘con potenza e gloria grande’ (Lc 21,27) mediante la venuta del Re sulla terra. Questo Regno è ancora insidiato dalle potenze inique… Per questa ragione i cristiani pregano, soprattutto nell’Eucaristia per affrettare il ritorno di Cristo dicendogli: ‘Vieni, Signore’ (1Cor 16,22; Ap 22,17.20)”.

Non mancando di aggiungere due cose, la prima: “Dopo l’Ascensione, la venuta del Cristo nella gloria è imminente”, può compiersi cioè “in qualsiasi momento”. La seconda: “Prima della venuta di Cristo, la Chiesa deve passare attraverso una prova finale che scuoterà la fede di molti credenti”, al punto che “il Regno non si compirà attraverso un trionfo storico della Chiesa secondo un progresso ascendente, ma attraverso una vittoria di Dio sullo scatenarsi ultimo del male che farà discendere dal cielo la sua Sposa. Il trionfo di Dio sulla rivolta del male prenderà la forma dell’ultimo Giudizio dopo l’ultimo sommovimento cosmico di questo mondo che passa” (671; 673; 675; 677).

Questo ci dice che la Chiesa, accanto a un’idea fiduciosa e provvidenziale di crescita lenta e graduale del Regno all’interno della storia (cfr. Mc 4,26-29), conserva pure un’idea di tragica, quotidiana lotta contro forze di male sempre più subdole e insidiose, forze delle quali soltanto avendo davanti agli occhi il volto insanguinato del Crocifisso, possiamo percepirne la potenza.

 

Daniele Garota

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