Koinonia Giugno 2022


Per ricordare P.Ernesto Balducci a cento anni dalla nascita

 

L’UOMO PLANETARIO. ATTUALITÀ INATTUALE DI UN’UTOPIA (II)

 

Meglio riprendere il discorso appena avviato sullo stato dell’arte in cui si trova oggi l’uomo planetario, adottando solo il punto di vista della razionalità storica, che è poi quello a cui si atteneva Balducci nel formulare e motivare la sua profezia. Messo in rapporto con i populismi, i risorgenti nazionalismi (o sovranismi, come qualcuno preferisce) con la crisi degli organismi internazionali,  e, per altro verso, con i fondamentalismi religiosi e gli attentati jihadisti, - tutti  fenomeni che i mass media per lo più ci fanno leggere solo con gli occhi dell’uomo edito e per giunta nell’ottica dell’immediatezza, non del lungo periodo o della totalità del contesto - non c’è dubbio che l’uomo planetario si può definire non solo inattuale ma inevitabilmente destinato all’insuccesso storico. Eppure, a ben guardare, tra contraddizioni e colpi di coda, si stanno facendo strada consapevolezze nuove o, per usare il linguaggio di Balducci e di La Pira, in mezzo al cumulo delle foglie secche spuntano qua e là gemme e segni rivelatori che naturalmente hanno un senso per chi guarda con gli occhi dell’uomo inedito. Penso, tanto per fare un  esempio, alla delusione, all’indignazione di alcuni e alla rassegnazione di altri, provocate dalle note posizioni e dalle decisioni di Donald Trump in materia di mutamenti climatici e di immigrazione (le foglie secche) quando sembrava che la società occidentale si stesse rendendo sempre più conto non tanto degli sprechi e degli abusi nell’uso delle risorse e della prevaricazione compiuta ai danni dei paesi del resto dell’umanità, ma almeno della gravità dei peccati collettivi compiuti nei confronti dell’ambiente, del clima e del pianeta. Poi, poco più di un mese fa, è arrivata la notizia che alla politica sorda e miope del presidente USA in materia di clima stanno replicando con determinazione i sindaci di alcune tra le città americane più popolose (in testa quello di New York), pronti a mantenere in piedi i provvedimenti già decisi nelle loro città contro le emissioni di CO2  e quindi a  sconfessare quelli del loro presidente. Viene da pensare a La Pira e al ruolo beneficamente eversivo che assegnava alle città del mondo e ai loro sindaci.

Il fondamentalismo islamico e/o il terrorismo jihadista  si possono considerare come una smentita clamorosa della potenzialità, insita in ogni cultura religiosa, di aprirsi all’universalità, ma si possono anche leggere - lo prevedeva  lo stesso Balducci - come «lo scotto da pagare, se non si compie il trapasso all’«etica planetaria», e cioè «l’esplodere dei fondamentalismi» come «inevitabile reazione» alla «progressiva anomia» che si instaura «se non si traduce l’universalità formale della coscienza in un corpo di precetti rispondenti alla nuova condizione umana»9. Fenomeni tragici che, per contrapposizione dialettica, potranno innescare processi di laicità e un risveglio delle coscienze nell’Islam, alla stregua delle guerre di religione tra Cinquecento e Seicento, da cui l’Europa è uscita col secolo dei lumi e col Trattato sulla tolleranza di Voltaire.Naturalmente anche in questo caso nasce una  domanda: e questo risveglio, se e quando ci sarà, si farà  contaminare dagli aspetti meno accettabili della civiltà occidentale (consumismo, arroganza del denaro, egoismo sociale…) o sarà  un contributo originale dell’Islam all’edificazione dell’uomo planetario?

Vi sono poi dei processi storici di grandi dimensioni che a mio avviso confermano l’attualità delle intuizioni balducciane. Mi limito a due esemplificazioni.  Ognuno di noi deve oggi misurarsi con le conseguenze sempre più vistose della rivoluzione informatica e con il mondo multicenticentrico che è in mezzo a noi. Da un lato, la globalizzazione economica e culturale rende sempre più evidente, direi palpabile, la stretta dipendenza tra i popoli e i loro sistemi di vita, dall’altro, induce le diverse tribù  a rivendicare la propria identità e a chiudersi ciascuna nella propria identità, così come i clan privilegiati non intendono rinunciare ai propri privilegi. Come si è accennato, l’uomo planetario, uomo dalle molte memoria, ha due patrie: quella del villaggio di appartenenza, di cui vuole recuperare la memoria sommersa, e quella del mondo. Ha messo fra parentesi l’ideologia dello Stato-nazione, basata sulla concezione di nazioni omogenee con popolazioni immobili. Un’idea che ha messo radici nel XIX secolo ed ha influenzato profondamente la percezione che hanno avuto e hanno di sé gli stati dell’Occidente e i loro abitanti, come anche spesso gli storici, divenuti prigionieri di un’immagine che essi stessi hanno contribuito a creare.

Oggi gli stati europei sono chiamati a ridefinire l’idea ottocentesca di nazione non solo per  recuperare e valorizzare gli elementi europei comuni, o più semplicemente per curare senza miopia i propri interessi,  dando più forza e sostanza politica ad un’Unione europea in difficoltà, ma anche per includervi le immigrazioni che dalla fine della seconda guerra mondiale si sono susseguite con ritmo sempre più incalzante.

Anche l’Africa, gli stati postcoloniali africani, sono alle prese con un problema specularmente analogo: il nazionalismo e l’anticolonialismo, che hanno dato a suo tempo spinta e dignità alle lotte per l’indipendenza dell’Africa, hanno ormai esaurito il loro compito e non sono più una medicina ma un pericoloso tossico, come fin dagli anni Novanta hanno dimostrato la tragedia del Darfur, il genocidio dei tutsi in Rwanda, la guerra tra Eritrea ed Etiopia, il dramma della Somalia,  gli scontri etnici nella Repubblica democratica del Congo, le lotte civili in Liberia, Sierra Leone, Mozambico, Angola… e così via, fino alla situazione odierna in Libia. Anche qui , da un lato, è apparsa in tutta evidenza la fragilità, per non dire l’impotenza, delle organizzazioni politiche o economiche a carattere continentale o subregionali che pure esistono in Africa e quindi l’urgenza di un loro sostanziale rilancio e riforma;  dall’altra, i singoli  stati africani  sono chiamati a decolonizzare davvero la loro storia, contestando i prodotti del colonialismo, a cominciare dall’idea finora coltivata di stati nazionali etnicamente e culturalmente omogenei. Diceva anni fa Giampaolo Calchi Novati, autorevole studioso dell’Africa deceduto lo scorso anno: è giunto ormai il tempo per l’Africa di riappropriarsi di tutta la sua storia, di passare dall’anticolonialismo all’antecolonialismo, senza ignorare il colonialismo, includendolo anzi  tra i fattori che hanno concorso a formare  la multiforme realtà dei paesi postcoloniali. Gli stati postcoloniali devono  rivalutare le diverse etnie, presenti nel loro territorio, come espressione della lunga durata della storia africana e in quanto  legittimi aspiranti ad avere un posto nella dialettica sociale e politica del nuovo stato democratico. Realizzare insomma una diversa idea di nazione basata sul pluralismo culturale reale, contro un’unità nazionale fittizia e ormai perniciosa.

L’altra esemplificazione riguarda le reazioni odierne di tanta parte dell’Occidente al fenomeno delle immigrazioni massicce. Uno dei bisogni fondamentali degli uomini, quello di rispondere, sia a livello individuale che collettivo, alla domanda: chi siamo? si è come amplificato nel villaggio globale. Noi non siamo più nella situazione dei nostri nonni e bisavoli che vivevano il rapporto con gli immigrati credendo nell’assimilazione, un termine, figlio dello Stato-nazione, tratto dalla biologia, che significa “mangiare, digerire” corpi estranei che vengono trasformati all’interno del proprio organismo e resi identici alle cellule che ne hanno sempre fatto parte10. I nostri nonni che vivevano in una società dominata dalla cultura occidentale, sapevano che  la situazione iniziale del contatto con lo straniero, quasi sempre avvertito come sgradevole e scomodo, sarebbe stata passeggera e col tempo superabile. Noi invece viviamo nell’inquietudine e nell’incertezza e talvolta nella paura, perché sappiamo,  anche se non lo vogliamo riconoscere pubblicamente,  che la nostra cultura non è più egemone e di fatto viviamo in mondo multicentrico. Noi dobbiamo fare i conti con la complessità che, come dice Zygmunt Bauman, provoca sempre situazioni ambivalenti, ci umilia e ci  eleva al tempo stesso. Nel cercare di dare una definizione di noi stessi, ci rendiamo conto dei limiti che, nonostante ogni nostro tentativo, non potremo travalicare e, nello stesso tempo, avvertiamo che è cresciuto il potere potenziale persino delle nostre più piccole azioni. Alla domanda “chi siamo?” nessuno può sottrarsi con leggerezza o con fastidio. Due le risposte possibili.

La risposta edita è quella apparentemente più semplice, a cui siamo per così dire abituati perché ampiamente utilizzata nella storia, soprattutto nei secc. XIX e XX: sappiamo chi siamo solo quando sappiamo chi non siamo e solo quando sappiamo contro chi siamo. Chi ritiene che questa sia l’unica risposta possibile, perché connaturata all’essere umano, vede l’immigrazione di massa come una pericolosa invasione e adotta la mixofobia, la paura di mescolarsi con lo straniero, come atteggiamento scorciatoia da cui si aspetta il superamento dell’ansia determinata dal contatto con il diverso. Per sentirsi sicuro ricorre all’erezione di steccati e muri e, sulla scia di Samuel Huntington, pensa che la fine della guerra fredda abbia inaugurato uno scontro di civiltà, da cui dipende la nostra stessa sopravvivenza e che dunque ci si debba schierare senza indugi dalla parte dell’Occidente minacciato nel suo presunto primato e nei suoi valori.

L’altra possibile risposta alla domanda circa la nostra identità nasce dalla mixofilia, che considera l’incontro con il diverso non come un evento da evitare o da rimuovere, ma come un’occasione di scambio in cui ciascuno porta con sé qualcosa di interessante e comunque si conosce, o meglio si riconosce, proprio nell’interazione e nel dialogo con l’altro. Solo così l’individuo, come la società, possono sperimentare un autentico sentimento di sicurezza, perché il timore e lo spavento nei  confronti dell’estraneità diminuiscono dove c’è comprensione reciproca e perché, come diceva Balducci, la sicurezza, o è di tutti, o non è. «È la via dell’uguaglianza nella diversità e della diversità nell’uguaglianza. È appunto l’epifania dell’altro (…) Nel riconoscere «l’altro  come tale, io resto me stesso e in più mi faccio ricco della alterità riconosciuta». O «la provocazione dell’alterità (…) mette in moto la mia predisposizione a trascendermi per cogliere nell’Altro un nuovo connotato della mia identità di uomo», oppure il cumulo dei pre–giudizi « resiste con rigidità, come un nocciolo duro, assumendosi come misura unica di autenticità umana, e allora in nome dell’uomo respingo l’uomo»11. Liquidata solitamente dai sostenitori della realpolitik come utopistica, o peggio come “buonista”, proposta da anime belle, facili alla commozione per ogni barcone della speranza che attraversa e non di rado fa naufragio nel Mediterraneo, la proposta di Balducci e di Bauman è una risposta realistica dettata alla coscienza dalla ragione, l’unica in grado di indicare in una situazione complessa come quella del nostro mondo una via di uscita, che non sia quella della terra desolata che lo scontro di civiltà ci lascerebbe in eredità.

A Sergio Zavoli, che nella bella intervista del 1992, riproposta molto opportunamente nell’ultimo numero di Testimonianze,  chiedeva come si può parlare di tramonto della figura del nemico in una società dove l’aggressività è sempre più generalizzata (figli che uccidono genitori e nonni, fidanzati e mariti che uccidono le proprie ex…, e, noi potremmo aggiungere, automobilisti pronti ad uccidere per un incidente, le baby gang…), Balducci rispondeva con un ragionamento che riassume bene il senso della sua utopia. La generalizzazione dell’aggressione distruttiva è la prova, la conferma che se non facciamo la transizione culturale nella direzione dell’uomo planetario (e questo dipende da ognuno di noi) arriviamo al bellum omnium contra omnes. Prima di Hiroshima, quando la cultura della guerra aveva un senso ed era in qualche modo funzionale al processo storico, «l’aggressività era contenuta e controllabile. Oggi, venuta meno la possibilità di assumerla in una razionalizzazione, essa è abbandonata al suo bruto estro nichilistico. Quindi o cambiamo o moriamo». Per dirla con Freud (1932) o l’aggressività viene subordinata «alla spinta unitiva di eros», o la specie è finita.

Domande e osservazioni suggerite dal nostro embrionale uomo inedito , che potremmo moltiplicare se il tempo lo consentisse, e che sono sicuramente spiazzanti, quasi scandalose, per l’uomo edito che continua ad abitare in noi, ma forse  ci mettono in condizione, nel leggere  i problemi del nostro tempo, di andare oltre la cosiddetta  percezione che , grazie al  bombardamento massmediatico e ad Internet, appiattisce  le nostre coscienze sull’immediato e sul superficiale, addormentando l’energia nascosta dentro di noi e corrodendo la speranza.

Concludo ricordando un giudizio espresso nel 2002 da Pietro Ingrao, che pur aveva coltivato per anni il fascino dell’utopia. Ingrao parlò di Balducci, nel decennale della sua morte, come di un  profeta sconfitto e credo che gli eventi della storia successiva, con i diffusi segni di delusione, di disarmo intellettuale e più in generale di disimpegno collettivo sulle grandi questioni del mondo (penso ad esempio alla crisi del movimento per la pace) che li hanno accompagnati, avrebbero solo confermato la sua sentenza. Che la sconfitta sia connaturata all’attività del profeta, è - si è detto - un dato biblico evidente, e non è motivo di abbattimento né di disperazione,  ma,una volta vissuta  con sofferenza ­ la fase della delusione conseguente al fallimento delle sicurezze - Bonhoeffer direbbe «il penultimo» - «è motivo di uno slancio verso l’universalità del disegno di Dio»12. Secondo dei credenti in cui «vibra la passione per il mondo»13, come La Pira e Balducci, che passarono molte transizioni, alle sconfitte bisogna rispondere  guardando in avanti: quando le convinzioni si sono dissolte «altre: quando le convinzioni si sono dissolte «altre ne dobbiamo avere per obbedire al magistero dei fatti»14: ovvero il presente, anche se amaro, deve essere  assunto coraggiosamente all’interno di un progetto di speranza messianica. Per Balducci, comunque, il valore della sconfitta è  anche un vero assioma che la razionalità di un laico non credente può e deve condividere se ha compreso il mutamento antropologico in atto. Pur nella  consapevolezza del ruolo delle istituzioni e della necessità della mediazione politica, chi ha capito di dover far crescere l’uomo inedito che è in lui, non associa all’idea di sconfitta l’idea negativa di perdita, che è concezione che appartiene alla cultura della guerra, ma ritiene, in linea con  la cultura della pace e della non violenza, che l’uomo si realizza anche, anzi soprattutto, quando è sconfitto15. Anche perché non bisogna mai dimenticare che «la novità è affidata alle viscere della necessità. Che sui passaggi intermedi della sua nascita ci sia buio non deve far meraviglia. Come scrisse Ernst Bloch, “ai piedi del faro, non c’è luce” »16.

 

Aldo Bondi

(2. fine)

 

NOTE

9La terra del tramonto, cit., p. 171

10«L’assimilazione o la subalternità: ecco fino ad oggi il destino degli altri entrati in contatto con l’uomo occidentale. La modernità non ha conosciuto altri esiti» (La terra del tramonto, cit. p. 72).

11«Come si vede, la mutazione antropologica è una opzione che si decide nella sfera etica che in questo caso è anche la sfera in cui trova risposta o meno l’appello della specie alla sopravvivenza» ( ibid. , p. 73).

12E. Balducci, Gli ultimi tempi vol.1/anno A, p. 80

13E. Balducci, L’uomo planetario, p. 28

14Da un’omelia del febbraio 1992 in Gli ultimi tempi, cit. p. 113. « Le vicende dell’umanità sono il quinto Vangelo che dobbiamo leggere tutte le mattine e se non leggiamo questo quinto gli altri quattro non hanno senso» (ibid. p. 111)

15E. Balducci, Il cerchio che si chiude. Intervista autobiografica a cura di Luciano Martini, Genova, Marietti, 1986, p. 122.

16La terra del tramonto, cit. p. 214.        

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