Koinonia Giugno 2022


SINODO COME LITURGIA?

“Ripensare la concezione della Chiesa in prospettiva sinodale”.

 

Intorno agli anni Sessanta del XX secolo si è generalizzata, anche per influsso dell’eco suscitata dall’inattesa decisione di Giovanni XXIII di convocare un nuovo Concilio, un’attenzione crescente per la dimensione conciliare della chiesa, denominata “conciliarità” o “sinodalità”. È un orientamento che sottolinea l’importanza della natura comunionale delle chiese cristiane di ogni tradizione a tutti i livelli e pertanto la necessità che il sensus fidelium e la communio sanctorum possano trovare espressione anche in momenti conciliari.

La celebrazione del Vaticano II ha trasceso, nella sostanza, i limiti di un’assemblea episcopale, coinvolgendo l’intera cattolicità e lo stesso cristianesimo non-romano in un clima di rinnovamento e ha dato ulteriore impulso nella direzione della conciliarità. È stata la riscoperta di una dimensione dell’‟essere” della chiesa del tutto fedele alla tradizione originaria e, pertanto, capace - ancora una volta - di suscitare coinvolgimento e di stimolare un confronto vivo con gli uomini e con l’Evangelo.

Inoltre, l’inizio del nuovo millennio offre un’occasione di riflessione sui grandi cicli storici dell’esperienza cristiana e costituisce uno stimolo a interrogarsi con libertà sul futuro delle Chiese.

A oltre mezzo secolo dalla conclusione del Vaticano II, occorre però riconoscere che la conciliarità ha ottenuto maggiori consensi a livello dottrinale che istituzionale e, tanto meno, ha inciso sulla vita delle comunità. Infatti quasi tutte le forme di organizzazione delle chiese cristiane provano difficoltà e resistenze a darsi istanze stabili di comunione e di partecipazione generalizzata, alle quali sia riconosciuta anche un’effettiva, operante autorità decisionale. La tenace resistenza dell’egemonia “clericale”, concentrata nelle rivendicazioni romane, costituisce un ostacolo verso un rinnovamento conciliare, altrettanto quanto la - simmetrica - radicata passività del popolo credente.

È diffusa la convinzione che sia necessario ripensare la concezione della Chiesa a partire dai dati certi e elementari della fede oggi e che si debba ridisegnare un’ecclesiologia istituzionale coerente. Sembra opportuno un ripensamento tanto fedele alla Tradizione quanto libero e creativo. Insistere a ritenere adeguato per la comprensione della chiesa lo schema centro/periferia pone ormai al di fuori della realtà e costituisce un ostacolo alla realizzazione della comunione.

Troppo frequentemente l’esasperazione di un’ecclesiologia insensibile sia alla centralità della comunità eucaristica che alle identità culturali delle diverse aree, insiste a esaltare il modello del “capo”. Ne è frequentemente conseguito l’azzeramento - o quasi - dello spazio e del riferimento all’azione dello Spirito santo, nonchè la marginalizzazione del popolo fedele. Sembra necessario riconoscere che la ricerca - pure legittima - della certezza e della stabilità nelle strutture della chiesa e nella sua vita concreta esige di essere composta con delicato discernimento col riconoscimento dell’imprevedibile soffio dello Spirito e con la correlativa dinamica dei carismi e, pertanto, richiede nuovi paradigmi.

La chiesa, nella misura in cui si vuole sintetizzata nel vertice di un’immaginaria struttura piramidale, derivata da una obsoleta geometria sociale, rischia di sostituirsi all’unico Signore e allo Spirito. Il modo stesso di intendere la fede risulta profondamente influenzato dall’eclissi della pneumatologia, mettendo in primo piano piuttosto l’adesione passiva del fedele alle strutture ecclesiastiche e alle formulazioni delle sue autorità, che la generosa corrispondenza di tutti al dono divino.

La faticosa e insoddisfacente ricezione del Vaticano II ha mostrato che sono in gioco essenzialmente le potenzialità del vigore profondo del Concilio, della sua dynamis, di coinvolgere la comunità ecclesiale. Ci si rende, cioè, sempre più conto che la novità più significativa del Vaticano II non è costituita dalle sue formulazioni, ma piuttosto dal fatto stesso di essere stato convocato e celebrato. È cioè in gioco la capacità del cristianesimo post-conciliare di discernere quella forza, separando la sostanza viva dagli accidenti morti o comunque privi di vitalità e pertanto ingombranti e distraenti. Non è un discernimento facile nè rapido e, soprattutto, è un discernimento esigente, che implica disponibilità e impegno alla conversione e alla ricerca.

Se le esperienze cristiane del passato condizionano innegabilmente il futuro col peso delle loro realizzazioni e dei loro errori, lo liberano anche. Infatti esse testimoniano della parzialità e perciò della inadeguatezza di ogni esperienza, per convincente che sia, rispetto alla globalità del mistero della Rivelazione e alla ricchezza poliedrica dell’Evangelo. In particolare, vista nell’arco di due millenni l’esperienza cristiana della sinodalità mostra un’alternanza di sistole e diastole, cioè di dilatazioni e di contrazioni. Questa consapevolezza consente di recuperare intatta la fiducia nella forza generante della fede cristiana all’interno di qualsiasi condizione umana e nella legittimità della ricerca di assetti nuovi.

 

Giuseppe Alberigo

In Cristianesimo nella storia [Cr St 28 (2007) 1-40]

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