Koinonia Giugno 2022


FU UNA PENTECOSTE

 

Caro Alberto,

ripensare al Sinodo diocesano fiorentino del 1988-92 per me non è solo un guardare al passato, perché alcune intuizioni di quell’evento sembrano sempre davanti a noi, in buona misura ancora da realizzare. Fu una Pentecoste, vissuta da gran parte della Chiesa fiorentina con grande partecipazione ed entusiasmo, non solo per la sua novità nel non sempre lineare cammino della Chiesa del dopo-Concilio (in Italia fu uno dei primi sinodi diocesani di nuova generazione), ma soprattutto perché il popolo di Dio in Firenze fu sollecitato a prendere la parola, a coinvolgersi, e venne ascoltato.

Dobbiamo purtroppo riconoscere che quella bella stagione non sopravvisse a lungo al vescovo Piovanelli, che ne fu l’anima per averlo fortemente voluto e coraggiosamente condotto; infatti, oramai da anni, il Sinodo è ben poco citato, come fosse archiviato, se non dimenticato; ma non perché superato, bensì, forse, perché richiedeva di prendere sul serio quell’aggiornamento della vita della Chiesa già indicato da Giovanni XXIII nel discorso inaugurale del Concilio. E non tutti erano pronti o disponibili a rimettere in discussione vecchie abitudini e «il comodo criterio pastorale del “si è sempre fatto così» (EG 33).

Personalmente ho vissuto quell’avventura da una posizione privilegiata, sia negli anni della sua remota preparazione (nel Consiglio pastorale diocesano) che durante il suo svolgimento (nella Commissione Centrale), chiamato senza alcun merito e senza alcun titolo, ma solo per la immeritata fiducia del card. Piovanelli, quale semplice cristiano comune che ero e che sono, impegnato nella pastorale di una piccola parrocchia periferica e nella catechesi degli adulti.

Ricordo bene i componenti della Commissione, dal segretario d. Vincenzo Savio (poi vescovo a Livorno e a Belluno) a mons. Gualtiero Bassetti (allora rettore del seminario fiorentino), e tutti gli altri, di me assai più titolati, che in vario modo hanno lasciato una traccia dentro di me. Oltre alle persone, conservo un vivo ricordo dell’itinerario sinodale che nelle Assemblee generali, scandite nei tre tempi del “vedere-giudicare-agire”, aveva i momenti di verifica, sempre con grande libertà e franchezza. Ricordo la celebrazione di apertura, il giorno di Pentecoste 1988, e la conclusione nella Pentecoste del 1992, con quel raggio di sole che all’improvviso si affacciò nel duomo e volle sembrare un segno.

 

Per la Chiesa di Firenze un carattere costitutivo del suo Sinodo fu: cercare se stessa al di fuori di se stessa, per non chiudersi in una pericolosa autosufficienza e autoreferenzialità. Un efficace simbolo fu trovato in un noto disegno della Cupola di Brunelleschi, rappresentata metà in sezione con la veduta dell’interno e dell’intercapedine, e metà in prospetto con la veduta esterna delle vele e dei costoloni; come a dire: guardiamoci dentro, attenti a come siamo visti dal di fuori.

Decisiva fu quindi la fase dell’ascolto: da una parte con la partecipazione più ampia possibile di parrocchie e comunità che si concretizzò in circa 3.000 gruppi che si riunivano nelle case e che coinvolsero circa 35.000 persone; dall’altra con quello che veniva chiamato l’ascolto della città, che vide diversi incontri sia con le realtà culturali e civili che con le Chiese sorelle.

Ricordo anche il coinvolgimento di alcune realtà ecclesiali da anni ai margini della vita diocesana (forse meglio dire “marginalizzate”?) e il dialogo che con esse il vescovo Piovanelli intratteneva: fra queste vorrei citare Testimonianze, Isolotto, e anche Koinonia, a cui Piovanelli si era rivolto così: “Siate ubbidienti, ma profeti. Siate profeti, ma ubbidienti” (Lettera pastorale 1984).

I Consigli pastorali parrocchiali e vicariali erano sollecitati a gestire il capillare ascolto dei fedeli e raccogliere i contributi di gruppi e parrocchie che, attraverso successive sintesi e assemblee vicariali, pervenivano al centro per costituire infine la base di discussione delle Assemblee generali. Le tematiche non erano chiuse, i contributi dovevano essere liberi, anche se erano indicati quattro ambiti fondamentali: Evangelizzazione e sacramenti, Famiglia e sacramento del matrimonio, Giovani e pastorale giovanile, Beati gli operatori di pace.

 

L’esperienza complessiva del Sinodo, quel grande con-venire, e in specie il Documento Finale, consegnato alla Chiesa fiorentina l’11 ottobre 1992, non a caso a trent’anni dall’apertura del Concilio, suggerisce alcune indicazioni pastorali che sento ancora valide per l’oggi della Chiesa:

 

In primo luogo, la sinodalità, allora vissuta con entusiasmo, che se è ormai riconosciuta come carattere essenziale e costitutivo della Chiesa, deve però ancora divenire metodo, essere declinata nelle sue articolazioni e trovare effettiva applicazione a tutti i livelli: sembra un obiettivo tuttora davanti a noi, tanto che la Chiesa universale (in realtà il papa) ha sentito l’urgenza di un Sinodo (il prossimo ottobre) “Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione e missione”. Anche la Chiesa fiorentina è al lavoro su questo, ma il coinvolgimento dei fedeli di trenta anni fa sembra oggi un sogno, vuoi per la pandemia, vuoi per una scarsa consapevolezza del laicato cattolico sulla propria ministerialità e sacerdozio battesimale, vuoi ancora per un resistente clericalismo, spesso così abituale da essere inconsapevole. Occorre forse rischiare anche di sbagliare, ma fidarsi un po’ di più del “sensus fidei” del popolo di Dio, vivere la missionarietà di Chiesa in uscita (in uscita non solo nelle strade del mondo incontro a uomini e donne, ma anche da certe abitudini e mentalità ormai fuori tempo). Ha scritto papa Francesco: “Più della paura di sbagliare spero che ci muova la paura di rinchiuderci nelle strutture che ci danno una falsa protezione” (EG 49), e in questi giorni ha lamentato: “Spesso ho trovato una mentalità preconciliare che si travestiva da conciliare” (Corriere della Sera, 3 maggio).

Una coraggiosa riflessione dovrebbe pertanto essere condotta sulle responsabilità nella Chiesa, ad esempio sui Consigli pastorali che, pur se molto raccomandati, sono ancora facoltativi ed esclusivamente consultivi, e troppo spesso si limitano a compiti organizzativi quando invece dovrebbero essere momento di sintesi, di progettazione e di coordinamento della pastorale in spirito di corresponsabilità e condivisione. E ancora aperto resta il problema di riconoscere la presenza, la partecipazione e l’insostituibile contributo delle donne alla vita della Chiesa, eppure in qualche modo ancora subordinate a un persistente maschilismo, anch’esso spesso inconsapevole. Alcuni passi in questa direzione sono stati fatti, ma molto resta da fare.

In secondo luogo, la centralità della parola di Dio che, anche se da tutti affermata, non è qualcosa di scontato e di ormai acquisito. Ad esempio, dal Sinodo prese vita la Catechesi biblica degli adulti articolata in piccoli gruppi familiari; ne nacquero più di mille, … adesso non so quanti ne restano, ma nella mia piccola realtà marginale, da otto gruppi di allora siamo rimasti oggi a un solo gruppo. Per giustificarsi si dice che c’è una certa naturale stanchezza, che molte altre sono le occasioni che una comunità cristiana si può dare per incontrare la Parola, … Sarà anche vero, ma ho l’impressione che non si sottolinei a sufficienza il dovere e l’urgenza per gli adulti cristiani di divenire cristiani adulti e di crescere nell’ascolto assiduo, attento e orante della Parola che illumina i nostri passi, e quindi nella consapevolezza della fede e nella missione di evangelizzare, sia con la testimonianza della vita che, “se fosse necessario, anche con le parole” (cit. Francesco 14.04.2013); temo che in tante parrocchie questa urgenza di formazione sia relegata in secondo piano rispetto alla catechesi per l’iniziazione cristiana dei fanciulli. A tal proposito dobbiamo però ricordare il rischio, denunciato anche dal papa, che si possa perseguire “una sacramentalizzazione senza altre forme di evangelizzazione” (EG 63). Eppure è dichiarato da decenni, e il nuovo Direttorio per la catechesi (2020) lo ribadisce senza possibilità di fraintesi (n.77), che “la catechesi degli adulti… è da considerarsi come la forma principale della catechesi, alla quale tutte le altre, non perciò meno necessarie, sono ordinate”. Tutto questo fa parte del grande tema sempre aperto sul rapporto fede/religione, troppo spesso confuse, tanto da non rendere ragione né all’una né all’altra.

In questa ottica dell’ascolto/annuncio e del primato dell’evangelizzazione, un frutto non secondario del Sinodo fu la nascita di un apposito ufficio per la Catechesi attraverso l’arte: intuizione che ha avuto fecondo seguito, è sempre attiva ed è veramente coerente con la storia e l’eredità specifica di Firenze: anche Giovanni Paolo ii nella visita dell’ottobre 1986 richiamava la nostra Chiesa a essere fedele a questa “eredità”, a quell’umanesimo che nelle arti aveva trovato un culmine mai superato. Ritengo che questo sia un aspetto da valorizzare ad esempio nella formazione, in specie dei catechisti, tema sempre urgente e inesauribile.

In conclusione e in sintesi, consapevole dei limiti di queste poche note e ricordi, voglio citare le “conversioni fondamentali” che il Documento Finale (al n.120) ancora indica e che non sarebbe male tenere presenti anche oggi in quanto ispiratrici di “un progetto pastorale” sempre da raggiungere: esse richiedono un rinnovamento di mentalità che già allora era sentito come necessario e che, secondo me, non ha perduto la sua attualità:

Da una Chiesa centrata su se stessa a una Chiesa al servizio del        Regno;

Dalla sacramentalizzazione al primato della evangelizzazione;

Dal clericalismo alla corresponsabilità;

Dall’individualismo a una pastorale organica;

Dall’improvvisazione pastorale alla progettualità;

Dall’attivismo alla sapienza della Croce.

 

Con un grato e fraterno abbraccio.

 

Paolo Alacevich

9 maggio 2022

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