Koinonia Maggio 2022


MOLOTOV ALL’ORATORIO: LE CONTRADDIZIONI DELLA FEDE IN GUERRA

 

Nei primi giorni dell’invasione russa, una giornalista radiofonica della Rai è in collegamento con un prete italiano che si trova a Leopoli. «Cosa fanno i giovani del vostro oratorio?», gli chiede. «Aiutano i profughi, organizzano i soccorsi, preparano bottiglie molotov», risponde lui. «Molotov? E lei che ne pensa?», domanda la giornalista. Il prete è imbarazzato, esita, tira un sospiro. Poi risponde che certo non è una cosa da prendere alla leggera, che comunque lui alla preparazione delle molotov non prende parte.

L’episodio ci fa pensare. Se la guerra in Ucraina è anche la nostra guerra, la religione in guerra in Ucraina è anche la nostra religione. Certo, sul terreno le cose sono più visibili, la mobilitazione religiosa è palese. Da una parte la prima vittima sul territorio russo, per la propaganda del Cremlino, è un cappellano militare; dall’altra il canale Ukraine Today trasmette immagini di un prete in preghiera con i resistenti. Dal canto loro il patriarca di Mosca Kirill e il metropolita della Chiesa ortodossa ucraina Epifanio legittimano i due governi.

Come il prete italiano a Leopoli, tiriamo un sospiro e ci rendiamo conto poco a poco. Anzitutto la religione è in guerra in modo profondamente contradditorio. Per un verso i cappellani, le benedizioni, i discorsi suonano accessori, secondari, non determinanti. A Kiev e a Mosca le autorità ecclesiastiche sembrano sempre un passo dietro i leader politici e militari. Per un altro verso, tuttavia, non siamo così sicuri che la battaglia religiosa conti davvero meno di quella politica e militare.

In questa guerra delle menti, delle motivazioni, delle giustificazioni, la fede è indispensabile. Nella lotta per le risorse, le armi, la materia, prevale l’energia. Nel conflitto dell’intelligence, del software, delle valute, vincono l’invisibile e l’immateriale. Mentre l’ago della nostra bussola oscilla tra una religione a rimorchio e una religione motore, ci spiazza poi, e soprattutto, la religione che fa le molotov, la religione in guerra che si tramuta in religione della guerra.

L’ago della nostra bussola, qui, impazzisce. Ci pensa vamo come il mondo dell’alleanza tra religione e liberal-democrazia, della fede plurale e pacifica, come il mondo in lotta contro la religione aggressiva e violenta degli altri, simboleggiata dall’islam armato. Invece in Ucraina la guerra è nostra, è tra cristiani. E non si ferma l’ago impazzito se rammentiamo il disastro dei quasi ottant’anni di ateismo di Stato sovietico, se derubrichiamo la teologia di Mosca a ideologia, se evochiamo i miliziani ceceni e il sostegno di Khamenei, guida suprema dell’Iran, soprattutto, se banalizziamo il discorso religioso altrui.

Semplicemente, drammaticamente, la religione in guerra è dentro di noi, e lo sarebbe anche senza l’influenza sul patriarcato russo della destra cristiana americana, senza l’incontro a Cuba cinque anni fa di Francesco e Kirill, senza il presidente americano Joe Biden che a Varsavia cita a sproposito il «non abbiate paura» di Giovanni Paolo II. La religione in guerra in Ucraina è la nostra religione perché ci fa ripensare il pacifismo cristiano occidentale proprio come fa Crossroads, il recente capolavoro di Jonathan Franzen, perché votiamo il riarmo e facciamo molotov, perché il Papa consacra al cuore immacolato di Maria, insieme a Russia e Ucraina, anche sé stesso e la Chiesa.

Infine, la religione in guerra è la nostra religione perché ci obbliga a fare i conti con i due poteri di cui scrive il 17 marzo scorso il metropolita Hilarion, fiduciario diplomatico di Kirill, al cardinale Jean-Claude Hollerich, presidente dei vescovi cattolici dell’Unione Europea: «il nostro potere» da un lato e «il potere del Signore» dall’altro.

 

Marco Ventura

in “la Lettura” del 3 aprile 2022

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