Koinonia Maggio 2022


Per ricordare Chiara Frugoni

 

CHIARA FRUGONI VISTA DA UN’AMICA

 

Ci conoscemmo nell’ottobre del 1950, nel cortile della scuola media Virgilio, di Roma. Erano nel nostro gruppetto di bambine in attesa di trovare posto in una classe prima, anche le sorelle Gennaro, Clara e Paola.

Chiara era la più alta, bionda, occhi celesti, accento nordico, abbigliamento un poco antiquato, si distingueva da noi romane. Facemmo subito amicizia, una stretta amicizia, tanto che, dopo qualche giorno, sulla scia di un libro molto amato (“Bibi e le congiurate”), decidemmo di diventare congiurate anche noi. Bisognava che il sangue dell’una si mescolasse con quello dell’altra. Non avevamo il coraggio di pungerci un dito e così decidemmo di staccarci una crosticina dal ginocchio (non c’è bambino che non ne abbia una) e di accostare le due ginocchia in maniera che un pochino di sangue dell’una si unisse con quello dell’altra. A distanza di più di settant’anni devo riconoscere che quel patto non è stato mai tradito.

A scuola era la più brava e anche la più studiosa. Le sue traduzioni di latino erano sempre perfette, anche perché, immagino, erano sempre controllate dal padre, Arsenio Frugoni, professore di Storia Medievale. Lei, sempre generosa, si offriva di aiutare le compagne (alle Medie i sessi erano separati), offrendoci i suoi quaderni da copiare.

Ben presto ci frequentammo anche di pomeriggio per fare i compiti insieme, o io a casa sua o lei da me. Mi ricordo le buonissime merende che ci portava la mamma e gli scherzi ai quali ci sottoponeva il fratellino Nini (Giovanni).

Avvertivo, però, nel modo che avevano i suoi genitori di trattare la figlia, una forte differenza rispetto ai miei. Una grande severità, l’obbligo di riportare sempre i voti più alti, il divieto di partecipare a festicciole o passeggiate. Questo mi dispiaceva perché impediva a Chiara di integrarsi completamente nella classe. Decisi allora di scrivere una lettera al padre nella quale gli chiedevo che la lasciassero un poco più libera. Mi rispose con gentilezza e forse, quella lettera, ebbe un minimo effetto: Chiara fu autorizzata a venire con me a portare il latte ai numerosi gatti che popolavano il Pantheon.

Qualche anno più tardi, improvvisamente, Chiara si assentò: si era ammalata di tubercolosi. Fu mandata da persone di fiducia residenti vicino alla loro casa di Solto, dove doveva rimanere a letto tutto il giorno. Ci scrivemmo una gran quantità di lettere, alcune delle quali ancora conservo.

Tornò a scuola l’anno successivo e riprendemmo a frequentarci e a confidarci l’una con l’altra. Eravamo oramai adolescenti ma molto, molto più bambine delle coetanee di oggi. Ci divertivamo con poco, eravamo allegre e senza ombre.

Al liceo Chiara si ammalò di nuovo. Dovette andare in sanatorio e restare molto tempo senza vedere neppure i genitori. Mi disse che il ritratto di un sanatorio fatto da Thomas Mann nella Montagna incantata era assolutamente veritiero. Tornò definitivamente guarita, ma, non ricordo per quale impedimento (forse perché la famiglia aveva lasciato Roma) ci perdemmo di vista. Seppi da Clara Gennaro la terribile sciagura che aveva colpito la famiglia (in un incidente d’auto persero la vita il padre e il fratello).

Ci siamo rincontrate il 1996 all’Università di Tor Vergata e la nostra amicizia riprese come se ci fossimo lasciate il giorno prima. Lei era diventata Professore ordinario di Storia Medioevale, autrice molto stimata di innumerevoli libri, conferenziera apprezzata. Aveva tre figli, uno dei quali adottivo. Divorziata, si era sposata una seconda volta. Le sofferenze e i successi non avevano minimamente cambiato la sua personalità: era sempre lei, serena, fiduciosa, generosissima, disposta all’ascolto, ma anche aperta alla confidenza.

Da allora non ci siamo più perse, anche se io residente a Roma e lei a Pisa, siamo riuscite sempre a vederci e anche a fare insieme qualche viaggetto. Scherzosamente, lei mi diceva che la filosofia (il mio campo di studi) è “aria fritta” e io, con lo stesso tono scherzoso, ribattevo che il Medio Evo è stato un periodo “buio”.

Le devo un grazie particolare: mi ha sempre molto incoraggiato a dipingere, se non ci fosse stata lei non lo avrei mai fatto con continuità. Mi mancherà enormemente.

 

Anna Marina Storoni Piazza

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