Koinonia Maggio 2022


LA CROCE DI GESÙ (II)

 

Parte seconda: L’onnipotenza dell’amore

 

Oltre a essere sofferenza che mai aveva cercato, quella del Cristo è anche sofferenza che qualcuno volontariamente gli ha procurato e con un certo accanimento. E non si trattava di delinquenti comuni, dai quali la forza pubblica o i vicini di casa avrebbero potuto magari difenderlo, ma di gente inviata dall’ordine costituito di allora, politico e religioso insieme, forze da cui nessuno se non Dio avrebbe potuto prenderne le difese e liberarlo. La sofferenza vera del Cristo, quella che trafigge più dei chiodi, è stata quella di essere abbandonato da tutti, persino da Dio.

Anche la sofferenza ha i suoi gradi: soffrire a causa della natura o del caso è altra cosa che soffrire a causa di esseri umani, soffrire a causa di delinquenti è altra cosa che soffrire a causa di chi ci governa, soffrire a causa di estranei è altra cosa che soffrire a causa di amici che ci tradiscono lasciandoci lì, soli, col nostro grido inascoltato. E non è solo paura dettata dai poteri che ci si avventano contro, ma paura che viene dall’idea stessa di dover soffrire ingiustamente e non poterlo dire nemmeno a coloro che abbiamo più cari, perché farebbero fatica a comprenderci. Non è forse accaduto tutto questo al Cristo?

C’è una sventura che ci rende vermi e che tutti disprezzano, ci ricorda Simone Weil: “La natura dell’uomo è comune a quella dell’animale, le galline si precipitano a colpi di becco sulla gallina ferita”. Si provi a raccontare a qualcuno, che sembra così attento alla nostra situazione, di un nostro male, di una sventura che ci ha colpito di recente fino a farci rasentare la disperazione, e sarà allora facile notare come quello pian pianino cominci a ritrarsi, fino a chiudere cuore e orecchie, fino a farci sentire giù in basso. E chi tra noi non è così? Ammettiamolo. Ha ragione Simone Weil: “Eccetto coloro nella cui anima Cristo trionfa completamente, tutti gli uomini disprezzano più o meno gli infelici, benché quasi nessuno abbia coscienza di questo disprezzo” (L’amore di Dio).

Gesù deve avere incontrato spesso questo ritrarsi d’amici dinanzi al proprio dolore. “Dio non voglia, Signore; questo non ti accadrà mai”, gli dirà Pietro, traendolo “in disparte” subito dopo averlo sentito parlare di quanto di terribile gli sarebbe accaduto, “da parte degli anziani, dei capi dei sacerdoti e degli scribi” che lo attendevano a “Gerusalemme”. Cosa gli disse infondo di male qui Pietro che anche ognuno di noi non glielo avrebbe detto? Il fatto è che dire così è pensarla “secondo gli uomini” e non “secondo Dio” (Mt 16,21-23). Esiste un momento in cui diventa estremamente necessario entrare col cuore, con la mente e con tutte le forze nello scandaloso e terribile contesto della croce di Cristo, costretto a portarla. Se così non facessimo infatti, volgendo lo sguardo altrove e magari con le migliori intenzioni, noi non capiremmo nulla, né del suo dolore, né del prezzo che ha dovuto pagare per salvarci. Ogni cristiano è tenuto a comprendere la croce di Gesù per quel che è, provando “tristezza e angoscia”, proprio come egli la provò quando, nel Getsèmani, pregava il “Padre” cadendo “faccia a terra” (Mt 26,37-39).

Gesù è sulle orme di Giobbe che s’avvia alla morte, non su quelle di Socrate, a Gesù non interessa la sapienza e il distacco per affrontarla, ma la redenzione, il riscatto dei sofferenti in carne e ossa. Sarà proprio Gesù, “l’Agnello”, ad aprire “il quinto sigillo”, per far ascoltare a Giovanni le grida e le invocazioni di coloro che sono stati “immolati a causa della parola di Dio e della testimonianza che gli avevano reso” (Ap 6,9).

Come ha affermato in un suo folgorante pensiero Angelo Silesio: “L’amore trascina Dio nella morte”, nella condivisione massima col destino dell’uomo caduto. Ma il Dio che si è reso impotente per amore ci ha forse rivelato la massima tra le potenze. È infinita la potenza di chi crea cieli e terra, ma forse ancor più grande è quella di Dio che, dopo essere sceso tanto in basso fino a morire, riesce ad aprire quella breccia attraverso la quale anche noi potremo un giorno uscire finalmente liberati, in “un cielo nuovo e in una terra nuova” (Ap 21,1), là dove Dio “eliminerà la morte per sempre” e “asciugherà le lacrime su ogni volto” Is 25,8); dove “non si ricorderà più il passato, / non verrà più in mente, / poiché si godrà e si gioirà sempre / di quello” che Dio sta “per creare” (Is 65,17-18). Sì, sarà una sorta di nuova “creazione” a nascere sorgendo dal fondo di dolore e di morte in cui saremo fino all’ultimo scesi col Signore. Le Scritture ci parlano del “dolore” di donna che sta per partorire (Gv 16,21), di “doglie” messianiche, apocalittiche (1Ts 5,3; Rm 8,22; Ap 12,2). Dio ha ad un certo punto raggiunto la forza di rinunciare alla propria potenza per poi riprendersela di nuovo, alla fine, pur con tutto il rischio che questo comporta. E solo così portando con sé gli ultimi, come fa il pastore che torna su dal dirupo con in spalla la pecorella sanguinante e ferita, per la quale ha dato tutto, fino a morire, pur di salvarla.

Due icone richiamano con forza quella del Crocifisso che riscatta e redime. La prima, che troviamo nei vangeli: il Signore “al suo ritorno” sarà a tal punto contento di trovare alcuni “ancora svegli” ad aspettarlo, che “si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli” (Lc 12,36-37). La seconda, che troviamo nell’Apocalisse, là dove ci è dato vedere il Cristo quale “Agnello in piedi… in mezzo al trono” che regna, ma anche che  reca su di sé i segni dell’immolazione e della morte (5,6). Alla fine, a noi poveri credenti ridotti al lumicino della fede, dopo l’estenuante attesa, il Risorto ci dirà, come a Tommaso: “Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!” (Gv 20,27).

Nessuno, neppure Dio, potrà far sì che il male patito non sia mai stato. Nel regno di Dio non potranno essere ricompensate le sofferenze come niente fosse: le ferite restano, le lacrime saranno ancora tutte da asciugare, pezzi d’umanità saranno andati per sempre perduti. Se al “pastore” che ha fatto di tutto per salvare la sua pecora, cercandola dappertutto fino a dare la vita, non restano che “due zampe o il lobo d’un orecchio” (Am 3,12), perché il resto l’ha inghiottito la belva feroce, non si potrà saltare con spensierata allegria. La gioia sarà invece quella semplice, contenuta e tuttavia dolcissima come nessun’altra, che si ha dopo lo scampato pericolo, dopo essere riusciti a salvare il salvabile.

Sta scritto che Dio “eliminerà la morte per sempre” e che “asciugherà le lacrime su ogni volto” (Is 25,8). Ma forse pure a noi toccherà alla fine asciugarle su quel suo “volto” che da sempre cerchiamo (Sal 26,8) senza averlo mai ancora visto (1Gv 3,2). Nel regno di Dio porteremo tutto il nostro dolore, così come porteremo tutto il nostro amore, quella “carità (agàpe)” che “non avrà mai fine” (1Cor 13,8). E questo perché amare è una cosa sola col soffrire con chi soffre. La gioia indicibile del regno è quella della consolazione, vissuta nella memoria di ciò che si è patito insieme a Dio. Il Cristo, come Giobbe, non avrebbe mai voluto né dovuto soffrire: questo dicono quelle cicatrici del Risorto che resteranno nella sua carne in eterno. La sofferenza di Cristo in croce rivela la preziosità della salvezza, nostra e di Dio, nel senso che Dio non solo ci salva ma anche, in Cristo che agonizza fino alla fine è, in qualche misteriosa misura, insieme a noi salvato. Senza il dolore e la morte di Dio in Gesù, non ci sarebbe stata salvezza,né per noi né per Dio. “Salvezza, gloria e potenza / sono del nostro Dio” dopo che avrà con i suoi giusti giudizi “condannato la grande prostituta”, che trafficava con “re”, “mercanti” e “i grandi della terra”, versando fino alla fine “il sangue di profeti e di santi” (Ap18,13;19,2), non prima.

Ma il dolore è prezioso soltanto dopo che ci è precipitato addosso senza che assolutamente lo volessimo. Volere infatti prima il dolore di qualcuno, anche se dovesse servire a chissà quale salvezza, sarebbe crudeltà inaudita, abominio. Chi torturerebbe anche solo per un istante un bambino sapendo che attraverso quella tortura salverebbe non solo lui ma anche tutti i bambini del mondo e di ogni tempo? La sofferenza programmata e concepita a priori è quanto di più lontano ci sia dalle intenzioni e dalla vicenda dolorosa del Dio crocifisso. Forse non avrebbe nemmeno trovato la forza di crearlo il  nostro mondo, sapendo prima che avrebbe poi dovuto distruggerlo ai tempi di Noè (Gen 6,6). E nemmeno d’incarnarsi essendo fin da prima sicuro della crocifissione del Figlio e della distruzione apocalittica dell’ultimo giorno, quella che improvvisamente travolgerà “tutti” come, appunto, il diluvio “ai giorni di Noè” (Mt 24,37-39). Il mistero del dolore di qualcuno ci abbia portato dei vantaggi o persino salvezza, deve essere adorato con infinita gratitudine, ma soltanto dopo non prima, soprattutto invocando la fine del dolore e della morte per tutti, la risurrezione dei morti. Risurrezione che viene da Dio che ha pianto e patito l’indicibile,fino a morire, non da un copione a lieto fine.

Ma là dove la coscienza di ciò non venga a sua volta rimossa dai compiacimenti estetici o dalla fredda chiacchiera teologica, un’altra domanda angosciante ci si presenta subito davanti: ma potrà salvarci un Dio così ridotto all’impotenza e alla sconfitta? Potrà salvare il mondo, potrà fare nuovi cieli e terra, potrà spaccare le tombe e far uscire vivi i morti? La fede dice sì, lo può. Anzi, dice che è l’unico Dio a poterlo fare. Pensare che tutto quanto accade sia Dio a volerlo, persino il male degli innocenti e chissà per quale finalità di bene, è una vigliaccheria che ci accomunerebbe ai “pagani di questo mondo”, costretti a pensarla così come la pensano gli uomini non avendo riferimento alcuno a un “Padre” che darà a noi “il Regno” (Lc 12,29-32). Solo il credente che ha il coraggio di pensare come non sia assolutamente Dio a volere il male e la morte, ma che anzi sia anch’egli costretto, per amore di noi e della nostra salvezza, a subirli fino alla fine, può confidare nella vittoria di Dio sul male e sulla morte. Mai si era saputo, prima di Cristo, che Dio fosse disposto a mettersi nelle nostre mani fino a farsi ammazzare. Mai un Dio si è rivelato così potente come quando è stato in grado di farsi “obbediente fino alla morte e alla morte di croce” (Fil 2,8). E soltanto la potenza di questo Dio morto per amore riuscirà a salvarci dalla morte e per sempre, nessun’altra.

Ma due cose ancora ci si fissano nella mente e nel cuore, se ascoltiamo fino in fondo quanto ci ha detto il Signore. La prima: “la fede” è un grido d’invocazione appeso a una promessa così lontana che Gesù stesso dubita di trovarla ancora tra noi nel giorno del suo ritorno “sulla terra” (Lc 18,8). La seconda: è così “stretta” la “porta”, e così “angusta la via che conduce alla vita”, che “pochi sono quelli che la trovano!” (Mt 7,14). Sarà potentissimo, inimmaginabile, il gesto col quale Dio redimerà il mondo e la storia, ma pochi potrebbero essere quelli che si salvano. E questo perché la sua è onnipotenza d’amore, un amore capace di lasciarci liberi persino di crocifiggerlo.

A noi spetta di desiderare la salvezza di tutti, della “pecora” più sporca e lontana soprattutto: il Padre celeste è uno che con pazienza somma “fa piovere” e “sorgere il sole sui cattivi e sui buoni” (Mt 5,45), “non volendo che alcuno perisca” (2Pt 3,9). Ma se la salvezza dovesse alla fine risultare povera, come lo è un brandello strappato all’ultimo momento dalle grinfie di un “mondo perverso” (Gal 1,4), non sarebbe certo a causa di un Dio che non è stato capace di amarci “fino alla fine” (Gv 13,1).

 

Daniele Garota

(2. fine)

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