Koinonia Maggio 2022


Per ricordare P.Ernesto Balducci a cento anni dalla nascita

 

L’UOMO PLANETARIO. ATTUALITÀ INATTUALE DI UN’UTOPIA (I)

 

Credo che l’ossimoro “attualità inattuale” utilizzato da Ernesto Balducci nel 1977, nel decennale della morte di don Milani, esprima adeguatamente il senso e il destino della dimensione profetica entro cui si muove anche  l’utopia1  dell’uomo planetario. Rivolta a ciò che viene, che deve venire, la profezia non può che essere inattuale sul piano della realizzazione storica: «il modo di essere della profezia nella storia è il fallimento, la cui cifra per eccellenza è la croce di Gesù Cristo». La sua attualità si gioca a livello delle potenzialità latenti, come lievito e fermento della storia stessa: «nel codice razionale della storia il fallimento è una sconfitta, nel codice della profezia è una vittoria: la croce è Pasqua»2. Qualcuno potrebbe osservare che l’ossimoro, azzeccato per la profezia di don Milani che si muove su un terreno sostanzialmente prepolitico, si addice meno per l’utopia dell’uomo planetario che ha invece un carattere politico ed è laicamente costruita sui  meccanismi dei processi oggettivi.

Per verificare la fondatezza di queste affermazioni vale la pena ricordare  brevemente la genesi e le linee essenziali  dell’uomo planetario di Balducci. Sul finire degli  anni Settanta, deluso dai ritardi ed incertezze con cui procedeva la riforma della Chiesa istituzionale secondo le indicazioni conciliari,  Balducci concentrò la sua attenzione sull’incalzare delle vicende storiche, dove si intrecciavano i segni di un’incombente catastrofe apocalittica e l’emergere di movimenti volti a un’emancipazione inedita della condizione umana. Tra gli eventi che più lo colpirono, concentrati nel triennio 1979-1981: la rivoluzione khomeinista in Iran, che portò alla ribalta la portata destabilizzante di una religione come l’islamismo; l’invasione russa dell’Afghanistan che rivelò il volto imperialista dell’URSS; il rapporto Brandt su Nord e Sud nel mondo che mise in luce la stretta interdipendenza tra Nord e Sud e la necessità di cambiare urgentemente passo e politica da parte dei paesi sviluppati del  Nord. Infine, dopo l’elezione di Ronald Reagan a presidente USA, la ripresa della corsa agli armamenti nucleari e il dispiegamento dei missili in Europa, che con la crisi del novembre 1983 fece temere lo scoppio di una catastrofica guerra nucleare. Una situazione in cui Balducci vide il «collasso della civiltà produttiva»3: gli arsenali atomici punto di approdo di una ragione messa al servizio di una scienza e di una tecnica finalizzate, da Bacone in poi, al dominio sulla natura e alla manifestazione di una volontà di potenza, che sono all’origine della rivoluzione

industriale occidentale e dell’idea di progresso. Al pericoloso riaffiorare in quello scorcio di anni delle dinamiche della violenza si accompagnava la crescente consapevolezza che lo sviluppo tecnologico dell’Occidente portava con sé il trionfo della quantità sulla qualità - a un di più di sviluppo corrisponde un di meno di qualità di vita - una sempre più grave  degradazione dell’habitat umano e la degenerazione ecologica e climatica del pianeta.

Una situazione comunque segnata dal paradosso che dal collasso e dalla decadenza sorgeva un’immensa speranza, una speranza non a buon mercato, che sarebbe stata l’equivalente di una droga, ma una speranza che aveva dalla sua parte la razionalità della storia, anche della storia successiva al 1945,  che ha pienamente confermato la lezione di Hiroshima condensata da Balducci, com’è noto, nelle «tre verità di Hiroshima»:  1° il genere umano ha un destino unico di vita o di morte4; 2° l’imperativo morale della pace, ritenuto da sempre un ideale necessario anche se irrealizzabile, è arrivato (per la prima volta nella storia) a coincidere con  l’istinto di conservazione e di sopravvivenza proprio della specie5; 3° la guerra ritenuta da sempre una extrema ratio, uno strumento limite della ragione, è uscita per sempre dalla sfera della razionalità6

Assumere quindi, nei primi anni Ottanta, la causa della pace non significava soltanto reagire all’ennesima crisi nei rapporti tra Usa e URSS, ma abbracciare il tema della ben più ampia crisi antropologica che avrebbe caratterizzato il terzo millennio, a partire dalla difesa dell’ambiente e della qualità della vita e delle relazioni umane. Di qui l’adozione della prospettiva dell’uomo planetario come idea regolatrice (nel senso Kantiano) da seguire nel radicale rinnovamento antropologico che l’umanità è chiamata a compiere, pena la sua sopravvivenza, nel giro di qualche  generazione. La cultura della modernità è, secondo Balducci, ambivalente. Ha un volto negativo, quello che ha prodotto l’uomo edito, che, dal neolitico in poi rifiuta l’altro come  altro in nome di un’identità che si propone come assoluta e che, facendo leva sulla figura del nemico, si è servita della guerra come strumento privilegiato dello sviluppo storico. Ma ha anche un volto positivo: quell’afflato di universalità che gli ha permesso di elaborare una cultura adatta a tutte le umanità (vd. la cultura dei diritti umani) che oggi costituisce un possibile punto di appoggio per avviare un nuovo processo storico. L’uomo non si esaurisce nell’uomo edito, ci sono in noi possibilità che vanno oltre ciò che siamo e occorre indicare sbocchi di realizzazione storica a  questa energia nascosta.

Si tratta anzitutto di liberare la ragione dal suo utilizzo piegato alle esigenze di dominio dell’uomo edito, e restituirla alla sua funzione autentica, quella di strumento critico capace di rimettere costantemente in questione se stesso e quindi in grado di comprendere le peculiarità delle diversità. L’uomo planetario è  infatti  «l’uomo dalle molte memorie», capace di superare l’omologazione e il conformismo, e di recuperare le culture delle «Barbiane del mondo», dando la parola ai  popoli sommersi o emarginati dai vincitori. Ha un ethos cosmopolitico e planetario, fondato sull’alleanza degli uomini con la natura e con il cosmo, quale unica possibilità di costruire il futuro delle prossime generazioni. Il fondamento di questa etica è la ragion di specie,  espressa nella regola «ama la tua specie come te stesso» o, meglio, «ama l’insieme delle creature come te stesso», e si concretizza nell’imperativo categorico: «agisci in modo che nella massima della tua azione il genere umano trovi le ragioni e le garanzie della propria sopravvivenza». A parte l’ineluttabile conseguenza della scelta non violenta, sono tre le principali implicazioni politiche: il superamento della tradizionale visione dello stato sovrano, ormai inadeguato ad affrontare i problemi supremi della fase estrema della modernità, come i problemi dell’ecologia, della droga e della sicurezza dei cittadini; la costituzione, urgente,  di un diritto cosmopolitico planetario che abbia un’effettiva giuridicità e la realizzazione di una «comunità mondiale».

Questa visione, che va oltre le tradizionali concezioni del pacifismo, costituisce il quadro entro cui si deve muovere il mutamento culturale, in gran parte da definire,  che metta fine, nelle coscienze, all’uomo del neolitico. A fondamento della cultura della pace, indispensabile per  accompagnare  una transizione che è istituzionale e antropologica, c’è una virtù che non può essere insegnata: la fede dell’uomo nell’uomo, il punto su cui ha sempre insistito padre Turoldo e che Balducci traduce come fede dell’uomo nelle risorse della specie, risorse latenti perché represse o mortificate nelle gelida stagione del cinismo morale. I capitoli più importanti della cultura della pace sono:  la passione ecologica (per ragioni fisiche - l’entropia - il rapporto tra l’uomo e l’ambiente non può più essere quello che è stato); il rapporto paritario tra uomo e donna a partire dall’esercizio della sessualità (l’uomo del neolitico è un uomo dimidiato, che  ha vissuto il rapporto con la donna all’insegna della  violenza);  la nuova dialettica che si è aperta nelle religioni e  ne sta sgretolando le forme storiche  facendo emergere, per limitarsi al cristianesimo, il suo nucleo profetico, la sua passione messianica per l’uomo del futuro, che investe la totalità delle speranze degne dell’uomo, prime fra tutte  la giustizia e la pace.

Come la cultura della modernità, anche le religioni sono contrassegnate da un’intrinseca ambivalenza: da un lato, in molte delle loro espressioni, sono sistemi  caratterizzati dal particolarismo della loro storia, che riproducono l’universo etnico di cui sono espressione; dall’altro sono la voce dell’uomo inedito, il sospiro della sofferenza umana, il trascendimento sul presente. Dato che ormai «l’uomo in quanto specie, e con l’uomo l’intera biosfera, sono entrati nell’estrema precarietà e, quindi, di pieno diritto, nella sfera a cui è destinato il messaggio di salvezza», le religioni sono chiamate a dare una risposta a «domande che sono planetarie» e devono affrontare «una crisi che sembra mortale», incontrando gravi difficoltà  nel  trascendere la propria configurazione storica di culture chiuse, fatto comunque che permette a ciascuna di  comprendere di essere solo un frammento del tutto, che quindi può e deve aprirsi alla diversità. Per questo le grandi religioni, attraversate, ognuna a suo modo e con i suoi tempi, dalla tensione fra arroccamenti nel proprio particolare e urgenza di integrarsi in una totalità riconciliata, sono destinate in qualche modo a morire a se stesse, per  recuperare l’intuizione originaria e protendersi verso l’ineffabile e l’assoluto, il deus absconditus, che è il correlativo di ciò che è l’uomo inedito. Una riscoperta della dimensione originaria che l’esercizio rigoroso e laico di una ragione adulta individua in due modalità dell’esperienza religiosa - quella mistica e quella profetica, che non a caso  hanno spesso  suscitato  la dura reazione polemica delle istituzioni delle confessioni religiose di appartenenza -  e che dovrà «crearsi un nuovo linguaggio simbolico che abbia l’età dell’uomo» e sia in grado di additare un orizzonte di pienezza.  Non sono certamente risposte all’altezza del tempo né quella sorta di «politeismo di ritorno» che invita  a  forme equivoche di ricorso al sacro e di «pratiche irrazionali», che se  soddisfano bisogni umani lasciati scoperti dall’attivismo della «città secolare», producono come primo effetto  «il disinteresse per il futuro del mondo», né, tanto meno,  la tentazione preoccupante del fondamentalismo, che ha come presupposto «il rifiuto della storia come legge dell’esistenza a tutto vantaggio di un momento mitico sottratto alla sua relatività e sollevato al ruolo di modello assoluto»7.

Un ulteriore capitolo riguarda la scuola: è con la memoria che si conquistano le coscienze e la scuola è il luogo della trasmissione della memoria. Per Balducci la crisi della scuola, già denunciata nel 1973 dal Rapporto Faure promosso dall’UNESCO, dipende dal fatto che la scuola è ancora un organo di diffusione della cultura dell’uomo edito (o di guerra) in oggettivo contrasto con i processi di crescita e di cambiamento sopra indicati, che non hanno  ancora trovato spazio adeguato nella scuola. Basta vedere i libri di testo, dove continua a dominare un eurocentrismo che non corrisponde più alla realtà in movimento del presente e non soddisfa l’esigenza di una cultura della pace. Solo una  cultura  planetaria può provocare un’eco nelle coscienze! Per questo tra il 1981 e il 1985 Balducci lavorò alacremente, insieme ad alcuni amici, per costruire alcuni innovativi strumenti didattici per la secondaria superiore - oltre all’antologia Il realismo dell’utopia, un fortunato manuale di ed.civica Cittadini del mondo e una storia della filosofia in tre volumi che non caso si intitola Storia del pensiero umano - e per realizzare  il progetto ambizioso di una Storia delle religioni a carattere divulgativo (150 fascicoli settimanali destinati alle edicole per un totale di 10 volumi, da realizzare col contributo di molti esperti) progetto poi lasciato cadere dalla Fabbri editore, quasi a metà dell’opera, che comunque fornì materiale e idee per il noto saggio de L’uomo planetario. Lavori e progetti, come il contemporaneo avvio delle Edizioni cultura della pace, pensati proprio per offrire alle nuove generazioni una memoria storica diversa da quella codificata nel sapere dominante, facendo emergere dal patrimonio letterario o filosofico ricevuto in eredità tutto ciò che era stato relegato ai margini perché riconducibile alla sfera dell’utopia. Un gran lavoro da fare questo per una cultura della pace, perché le coscienze sono sempre in ritardo rispetto alla transizione in corso, inadeguate rispetto alla gravità e all’urgenza dei problemi. Per questo Balducci non smetteva di citare gli ammonimenti di Einstein (dopo Hiroshima tutto è cambiato, fuorché il nostro modo di pensare) e aggiungeva che «se l’Europa non è grado di compiere la metanoia culturale , se non produce più futuro, allora è tempo che passino in primo piano gli emarginati e quelli che non sono omologati e si dia loro la parola. C’è una dialettica antropologica che emerge, che io vedo nella faccia dell’indio, del nero» e «aspetto che gli indios mi parlino del Vangelo nella loro lingua». Insomma solo «chi porta in sé l’uomo inedito è capace di ascoltare la profezia»8.

Oggi, a un quarto di secolo di distanza dalla morte di Balducci, siamo testimoni che  la  mutazione antropologica, anche se non ce ne accorgiamo, è in atto, con tutte le  lacerazioni e i momenti di caduta che un processo del genere comporta. Le drammatiche vicende storiche che  hanno caratterizzato questi 25 anni hanno accelerato ed accentuato sia i processi di planetarizzazione sia le immigrazioni di massa, che oggi dovremmo chiamare più appropriatamente diaspore, dato che l’Europa e l’Occidente, dopo aver perduto prima la centralità politica e poi quella economica, non detengono più lo status di cultura dominante e solo illusoriamente possono cercare di assimilare i nuovi arrivati. Direbbe Don Milani: non possiamo più comportarci come se il mondo fossimo noi, noi occidentali. Credo che sia ormai manifesto, salvo ai più refrattari, che la maggior parte dei problemi del nostro tempo necessitano di essere affrontati su scala regionale e mondiale: la salvaguardia del pianeta, il dominio della tecnoscienza, la ricerca scientifica e farmaceutica, il potere della genetica, la subordinazione alla finanza dell’economia e della politica, la questione del lavoro, la diffusione del terrorismo internazionale e l’urgenza di un nuovo ordine mondiale. Tutte questioni che, fra l’altro, si tengono insieme e hanno come presupposto fondamentale la necessità di ridurre, se non di colmare, il divario tra Nord e Sud del mondo. È quanto mise chiaramente in luce il grande vertice sull’ambiente organizzato nel 2002 - a un anno di distanza dal crollo delle Torri gemelle - a Johannesburg in Sud Africa e che con forza è stato denunciato nella Laudato si’ di papa Francesco: il divario sempre maggiore tra le parti ricche e le parti povere del pianeta è la causa principale delle tensioni internazionali e l’ostacolo principale per una soluzione mondiale dei problemi appena ricordati.

L’accenno a  papa Francesco e  al suo magistero  che sta sintonizzando il  linguaggio della Chiesa istituzionale sulla dimensione profetica - come del resto dovrebbe  fare per sua natura, secondo la Lumen gentium - quando sottolinea come fondamentali e prioritarie le opzioni dei poveri, degli immigrati, delle periferie, nonché la salvaguardia del pianeta o la promozione della pace, con la conseguente sfida  lanciata contro i mercanti d’armi, e le iniziative ecumeniche e interreligiose, fa pensare che istanze significative dell’uomo planetario siano penetrate o stiano penetrando nell’autocoscienza di almeno una parte del mondo cattolico, suscitando non a caso forti resistenze e opposizioni sia all’interno che all’esterno della Chiesa. Ma nascono anche domande che forse Balducci non avrebbe disdegnato, quali, per esempio: quando è fatta propria dall’istituzione, che per natura tende all’autoconservazione, la denuncia profetica è ancora in grado di mantenere la sua forza di penetrazione e di rinnovamento? Se fino ad oggi l’istituzione non è riuscita a realizzare  quelle riforme strutturali che il Concilio indicava, come e in che misura sarà capace di emanciparsi  dalle forme storiche  in cui è incapsulato il messaggio liberante del Vangelo? Un vescovo di Roma che viene dalla fine del mondo ma che è anche un frutto della cultura occidentale, come Bergoglio,  riuscirà ad aprir la strada al tempo in cui saranno le Barbiane del mondo a parlare del Vangelo nella loro lingua? Domande a cui naturalmente non provo neanche ad abbozzare una risposta perché è  prematuro, perché il pontificato è in corso (e può riservarci sorprese), perché le conseguenze dell’azione di un pontefice (più ancora che di uno statista o di un governo) si colgono a distanza. 

 

Aldo Bondi

(1.continua)

 

 

 

NOTE

 

1Da non confondere con l’«utopismo», il cui risultato «è sempre la conservazione o, peggio, la disgregazione anarchica ». Mentre infatti l’utopismo «è ogni progetto di novità non mediato con le possibilità e le tendenze sociali esistenti», l’utopia comporta «discernimento critico» e ricerca razionale del  «bisogno da cui son mossi, dall’interno, gli uomini e i gruppi sociali» (E. Balducci, Le ragioni della speranza, Roma, Coines, 1977, p. 23

2E. Balducci, Francesco d’Assisi, S. Domenico di Fiesole, ECP, 1989, pp. 168–169    

3E. Balducci, Il terzo millennio, Milano, Bompiani, 1981, p. 48

4Negli anni Cinquanta era una verità intuitiva, di natura etica; dai primi anni Ottanta, dopo il crollo dell’immagine eurocentrica della storia, è diventata anche una verità economica -  vd. rapporto Brandt -  oggi è anche  una verità finanziaria, ecologica e politica.

5Fino ad Hiroshima l’istinto era indicato come la radice inestirpabile dell’aggressività distruttiva, per cui  la guerra era ritenuta una legge indispensabile della specie. Dopo il 1945, da quando la voce della coscienza e la voce dell’istinto sono divenute una sola voce (e non era mai capitato prima che la sfera della morale e quella dell’istinto venissero a coincidere), anche  la guerra (come è successo per la schiavitù o per il primato dell’uomo sulla donna) si è rivelata  un portato non della natura ma della cultura. Non ha più senso dire che l’uomo è per natura pacifico o è per natura violento, come si dibatteva nella cultura europea del Sei-Settecento: la natura dell’uomo è nel suo farsi, cioè nella sua cultura; l’uomo è così come si fa.

6Hegel e B. Croce potevano anche sostenere che il progresso dei popoli si avvera attraverso le guerre; l’antico adagio sfornato dall’imperialismo  romano  “se vuoi la pace devi preparare  la guerra” aveva almeno  l’apparenza del realismo, ma dopo Hiroshima va  sostituito   con “se vuoi la pace prepara la pace”, uno slogan che nel sottolineare  la novità radicale del nostro tempo, indica che il gran lavoro da fare è approntare una cultura della pace che subentri alla cultura della guerra.

7E. Balducci, La terra del tramonto, San Domenico di Fiesole, ECP, 1992, pp. 132-135. È in questo quadro che viene recuperata l’universalità e la centralità della persona di Cristo nella storia e nel cosmo, partendo dalla dialettica tra la particolarità di Gesù di Nazareth, interno come ogni altro uomo a una determinata cultura,  che ha benedetto ciò che nell’uomo è nascosto e segreto,  e il Gesù che diviene, nel momento della crocifissione, il Cristo, il Messia dell’umanità in forza della potenza di Dio che lo risuscita dalla morte. A fondamento di questa cristologia è una theologia crucis che esprime il vero senso dell’azione messianica di Gesù: il mistero della Croce, che è «il segno incancellabile della estraneità della fede cristiana ai sistemi culturali e religiosi» (ibid.,  p. 141) viene designato come il luogo privilegiato della transizione all’Altro, dove si manifesta un tipo di universalità capace di assumere la diversità intrinsecamente rispettandola.

8Dall’intervista di S. Zavoli a Balducci del 27 marzo 1992, ripubblicata ora in Testimonianze 512-513 (a. LX, nn. 2–3), pp. 108-109   

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