Koinonia Aprile 2022


LA CROCE DI GESÙ (I)

 

Parte prima: Dio sulle spine

 

Gesù di Nazaret è sacerdote “a somiglianza di Melchìsedek, un sacerdote differente” da “Aronne” e dagli altri, dice la Lettera agli Ebrei (7,11-17). Egli viene dall’alto, da un luogo colmo di mistero. “Questo Melchìsedek infatti, re di Salem, sacerdote del Dio altissimo, andò incontro ad Abramo mentre ritornava dall’avere sconfitto i re e lo benedisse; a lui Abramo diede la decima di ogni cosa. Anzitutto il suo nome significa ‘re di giustizia’; poi è anche re di Salem, cioè ‘re di pace’. Egli, senza padre, senza madre, senza genealogia, senza principio di giorni né fine di vita, fatto simile al Figlio di Dio, rimane sacerdote per sempre” (7,1-3). Gesù, non solo è “Figlio di Dio” (Mt 26,63), è anche “l’Alfa e l’Oméga, il Primo e l’Ultimo, Principio e la Fine”, come dirà il libro dell’Apocalisse (22,13). Non è un uomo qualsiasi Gesù, ma “Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero, generato non creato, della stessa sostanza del Padre”, dicono i credenti. Questo è il primo elemento.

Ma ve n’è anche un altro, ed è questo: il suo non è il sacerdozio di chi sacrifica agnelli, ma sacerdozio di chi addirittura diventa vittima e Agnello; Gesù offre “se stesso”, e “una volta per tutte” (Eb7,27). Dopo questo sacrificio nessun altro sacrificio ha senso, come dire: più di così non si può. Egli è “sommo sacerdote dei beni futuri”, è colui che procura “una redenzione eterna”. Ciò non riguarda un mero passato di cui fare memoria nelle nostre eucaristie presenti, riguarda soprattutto il futuro; egli infatti “apparirà una seconda volta, senza alcuna relazione con il peccato, a coloro che l’aspettano per la loro salvezza” (Eb 9,11.12.28). I credenti, accostandosi alla mensa eucaristica, annunciano la morte del Signore e ne proclamano la risurrezione, nell’attesa della sua venuta. Non fanno cioè soltanto memoria di quanto il Signore ha fatto, ma si protendono incessantemente all’attesa di quel che ha promesso di fare per noi in futuro, quando “di nuovo verrà nella gloria, a giudicare i vivi e i morti”. Per questo l’imperativo evangelico è “Vegliate”. Perché? Perché non sappiamo “in quale giorno il Signore (nostro) verrà” (Mt 24,42). È vero, saranno beati coloro che verranno trovati operosi, attenti alla fame degli affamati e alla sete degli assetati, ma vero guaio per la fede è l’essere trovati così presi dai nostri campi e “affari” da non percepire più né il bisogno che ha Dio di averci alla “festa di nozze per suo figlio” (Mt 22,1-5), né il nostro essere “servi inutili” (Lc 17,10).

C’è nel vangelo di Giovanni un’espressione forte di Gesù: “Prima che Abramo fosse Io Sono” (8,58). Ecco, noi percepiamo in quel “Io Sono” tutta la premura e la vicinanza espressa da Dio a Mosè dal “roveto”, là dove si presentò come “Io sono colui che sono!” (Es 3,4-15). Perché - ci si chiede in un midrash - Dio si manifesta in un roveto? Perché egli è nella sofferenza come Israele è nella sofferenza. Egli è per così dire sulle spine come Israele è sulle spine. Il Dio dell’Esodo è un Dio che ascolta il grido degli oppressi e scende per liberarli. Non però come un apatico dio dell’Olimpo, piuttosto come colui che soffre col suo popolo che soffre. La mistica ebraica parlerà della Shekhinah che è in esilio, cioè di quella parte di Dio – che potremmo tradurre con “Presenza” o “Dimora” – che soffre, scende e cammina fianco a fianco con Israele. Anche Gesù avrà il capo trafitto dalle spine. È tutta interna a Israele la vicenda e la figura di Gesù di Nazaret, questo non va mai dimenticato. In Gesù che soffre si incarna la profezia del Servo sofferente di IHWH di cui parlò Isaia.

La Chiesa degli ultimi decenni ci ha fatto un grande regalo insegnandoci a chiamare gli ebrei ‘nostri fratelli maggiori’, poiché nulla capiremmo del cristianesimo se lo privassimo della “radice” che lo “porta” (Rm 11,18). È molto importante scavalcare quella sorta di deviazione che c’è stata nel momento in cui Agostino si mise ad attingere da Platone e Tommaso, diversi secoli dopo, da Aristotele: solo tornando alla grande esperienza di Israele noi potremo percepire con più chiarezza il Dio che si manifesta attraverso Gesù di Nazaret. Gerusalemme non è Atene. Il Dio di Israele è Dio del pathos – come ci ha detto Heschel – e non ha nulla a che vedere col dio di Aristotele, impassibile, ordinatissimo e apatico, privo di bisogni e di amici.

È questo il motivo per cui ad Atene i filosofi scoppiarono a ridere in faccia a Paolo, quando lo “sentirono parlare di risurrezione dei morti” (At 17,32). A loro sembrava assurda sia l’impotenza che la potenza di Dio: assurdo che Dio si abbassi fino a noi, ma anche che riesca a innalzarsi fino a rompere quelle necessità naturali ed eterne di cui la morte è il più evidente dei segni. Insomma, il filosofo non si scandalizza del morire, si scandalizza piuttosto del fatto che Dio possa un giorno farli risorgere i morti.

Il Dio di Israele è un Dio disposto a imparare, a prendere lezioni da credenti come Abramo. Ma pensiamo anche a Giacobbe, colui che sfida Dio al “guado dello Iabbok”, lottando accanitamente con lui per tutta la notte, fino a vincerlo, fino a esigere benedizione. “Lasciami andare” gli ordina Dio. “Non ti lascerò, se non mi avrai benedetto!” è la risposta. E sarà quello il momento in cui Dio gli dice: “Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto!” (Gen 32,23-30). Esperienza potentissima. In Israele noi troviamo uomini capaci di prendere Dio per il bavero, re capaci di umiliarsi fino a farsi prendere a sassate da persone qualsiasi (2Sam 16,5-24): Davide danzerà mezzo nudo e pieno di gioia davanti all’arca, mentre la moglie lo disprezza guardandolo dall’alto di una finestra (2Sam 6,12-22). Israele sarà il popolo in grado di tenere testa al suo Dio fino all’ultimo giorno, di chiedergli ragioni della tribolazione che gli tocca vivere. Ad Auschwitz ci sono stati credenti ebrei che proprio mantenendo la fede hanno sofferto il male tutt’altro che con rassegnazione.

Gesù è venuto per chiamarci “amici” (Gv 15,13-15), e lo ha fatto non solo a parole, ma coi fatti e nella verità: il Verbo, la Parola, in Gesù si fa carne e sangue. In Gesù Dio diventa bambino bisognoso di una madre, uomo che partecipa al nostro patire: in Gesù Dio “imparò obbedienza dalle cose che patì” (Eb 5,7). Con Gesù, dunque, Dio si abbassa ancora, fino a morire la morte infamante degli ultimi tra noi. In Gesù Dio tocca il fondo dell’abisso, tocca la disperazione. C’è tra noi qualcuno che ha avuto occasione di scendere in un gorgo di dolore dal quale s’è messo - magari in ginocchio, magari di notte non riuscendo a dormire – a gridare verso Dio per chiedergli di non essere abbandonato? Sappiamo noi cosa significa sudare sangue, cadere con la faccia a terra, cercare amici che stanno là, ma non c’è verso di coinvolgerli nel proprio dolore? Ecco, tu tremi di paura, l’angoscia ti prende alla gola fino a soffocarti ed essi dormono. Terribile. Ma almeno ci sarà Dio in cielo, egli non può abbandonarti, egli è l’“Abbà”, il tenero babbino capace di tenerti unito a sé guancia a guancia. Egli è il Padre che “sa di quali cose (abbiamo) bisogno prima ancora che gliele” chiediamo (Mt 6,8). E invece no purtroppo, invece t’accorgi che persino Dio ti abbandona. Duro è morire dicendo: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mc 15,34).

Se il nostro cuore non fosse indurito da intere generazioni di abitudini devote, di esercizi spirituali, di mistica a buon mercato, forse saremmo colpiti fino a non dormire più di notte. In tanti, da Kierkegaard a Dostoevskj a Peguy, a Bloy ci hanno aiutato a riflettere in questo senso. Non solo infatti l’imborghesimento del cristianesimo, ma anche quella sottile via mistica che vorrebbe partecipare a ogni costo alla sofferenza del Cristo che soffre, ci porterebbe qui fuori strada. Gesù non ha scelto il suo soffrire, il suo non è stato l’esercizio spirituale di chi ama ritirarsi nel chiuso della propria cella macerandosi il corpo. Ho sentito parlare di qualcuno che è andato nel deserto per stare lì tre lunghi anni in solitudine a meditare sul grido di Gesù in croce. Tre anni è durata l’intera sua vita pubblica e in tre soli giorni egli è morto e risorto. Senza fretta, senza l’urgenza di colui che grida “Perché?”, non si comprende nulla di quanto Gesù ha sofferto, nulla della sua disperazione e nulla della sua speranza.

Un teologo attento come von Balthasar, pure molto legato alle vie della mistica, sottolinea il clima di urgenza che si respira nell’ultimo libro della Bibbia. Lì, egli dice, “si afferma già nel primo versetto e viene ripetuto alla fine: ‘Le cose devono presto accadere’ (1,1; 22,6). È un movimento che procede velocemente dall’avvenire verso il presente: ‘Ecco, io verrò presto!’ (22,20)… Nell’Apocalisse non si dà un tempo che non sia incalzante, che non si estenda verso ciò che verrà, sicché le anime gridano a Dio: ‘Fino a quando?’ (6,10)”. Dunque un “tempo che incalza verso il futuro (e che) terminerà con la presenza della ‘fine dei tempi’”. Per questo vi s’incontra spesso il termine greco hypomoné, che non andrebbe tradotto semplicemente “con ‘pazienza’, sarebbe troppo poco”.Qui si tratta piuttosto di “resistere in battaglia, con l’occhio esplicitamente rivolto a qualcosa che sta per venire, dunque attendere, e di conseguenza opporsi a tutto ciò che non è ciò che si attende” (Il libro dell’Agnello).

Il pericolo è altrimenti quello di crogiolarsi nella contemplazione, accontentandosi di un planare verso zone in cui non si ha più a che fare con il Dio della storia e coi fratelli che soffrono al nostro fianco. Chi contempla sta tutto quieto nel suo eterno presente, imperturbabile nel suo silenzio, non grida, non si scandalizza di nulla, non attende più nulla. La deriva stoica e buddista è sempre in agguato, facile è cadere in quelli che Lévinas ha chiamato: “abissi di interiorità senza sponde” (Dal sacro al santo). Gesù non fa del dolore un ideale, la croce non è un fine della sua vita, ma lo spettro che cerca con tutte le forze e fino all’ultimo di evitare. Come Giobbe Gesù si ribella al male, lo combatte: guarisce i malati, libera gli indemoniati, risuscita i morti, guarisce sordi, ciechi, muti, zoppi; tutte le forze di Gesù sono contro il male, un male che ha dovuto subire per primo per poterci salvare. Gesù ha voluto vivere solo per un attimo l’esperienza della trasfigurazione, invitando poi i discepoli a scendere con lui dal monte per condividere la terribile esperienza della sofferenza e della croce (Mt 17,1-12).

Noi non aspettiamo tranquilli la morte per essere in paradiso con la nostra anima, noi aspettiamo la venuta di colui che vince la morte ponendo fine a ogni ingiustizia sulla terra: Gesù è venuto per guarire i malati, rendere giustizia agli oppressi e risuscitare i morti. “Chi soffre è sempre in stato di attesa” ha scritto Pavese ne Il mestiere di vivere, attesa che finalmente finisca il soffrire. Il “beati quelli che sono nel pianto”, non è riferito ad uno status ideale, ma alla venuta del tempo messianico che li renderà “consolati” (Mt 6,4), che rovescerà “i potenti dai troni” innalzando “gli umili”, che ricolmerà “di beni gli affamati” rimandando “i ricchi a mani vuote” (Lc 1,52-53). La promessa è che la città eccelsa e potente di coloro che abitano in alto, sarà “rovesciata fino a terra, rasa al suolo”, mentr’ecco giungere numerosi a calpestarla, “i piedi degli oppressi, i passi dei poveri!” (Is 26,5-6).

Non dobbiamo temere di trovare similitudini significative tra il Magnificat e i desideri più autentici di certi animi rivoluzionari del nostro tempo. Quella del cristianesimo è una prospettiva rivoluzionaria nel senso più radicale del termine,una prospettiva senza la quale non capiremmo nulla nemmeno della nostra modernità. 

 

Daniele Garota

(1.continua )

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