Koinonia Aprile 2022


Al seguito di Domenico di Guzman “luce della chiesa”

 

PARLARE CON DIO PARLARE DI DIO

 

Il beato Giordano di Sassonia, primo successore di san Domenico e suo primo storico, nel suo “libellus” sugli inizi dell’Ordine dei Predicatori, scrive del suo fondatore: “Era assai parco di parole e, se apriva la bocca, era o per parlare con Dio nella preghiera o per parlare di Dio. Questa era la norma che seguiva e questa pure raccomandava ai fratelli”. E fa questa annotazione: “Di notte nessuno era più assiduo nel vegliare in preghiera. Alla sera prorompeva in pianto, ma al mattino raggiava di gioia. Il giorno lo dedicava al prossimo, la notte a Dio, ben sapendo che Dio concede la sua misericordia al giorno e il suo canto alla notte”.

Sono parole che definiscono la personalità e la fisionomia apostolica di Domenico, ma al tempo stesso denunciano l’impostazione mentale, istituzionale e spirituale del suo Ordine dei Predicatori, di cui non c’è bisogno di rilevarne l’attualità, se solo si cerchi di viverne lo spirito.

Sì, parlare con Dio: è l’ “ora” e l’ “opus Dei” (preghiera e ufficio divino) di san Benedetto, in quanto comunicazione intima e pubblica insieme con Dio. Ma ad esse non fa seguito l’altra parola classica “et labora”, nel senso pratico ed esercizio di manualità. Le altre parole sono invece “parlare di Dio”, ma è chiaro che anche questa formula non ha un significato generico, ma segnala qualcosa di caratterizzante, alla pari di quella benedettina, nel senso di un lavoro apostolico, di consacrazione al servizio del vangelo.

Proprio avendo presente e a cuore l’istanza generale di evangelizzazione, è parso giusto tenere in secondo piano la connotazione domenicana di Koinonia, per operare nello spazio comune dell’annuncio del vangelo senza quartiere. La lunga esperienza di questi anni ha portato alla costatazione che da ogni parte si cercava in realtà un modo proprio e qualificante di evangelizzazione, mentre una evangelizzazione in quanto tale rimaneva penalizzata e quasi accessoria rispetto alle modalità o alle metodologie  adottate secondo stili e spiritualità preordinati.

Di qui la spinta a rivestirsi dei panni del frate domenicano - mai interiormente dismessi - nel solo intento di far valere la sua specificità, che è però quella di guardare al tutto della evangelizzazione, e non solo a suoi aspetti e momenti di effettuazione pratica: e cioè come comunicazione di Dio a noi per trasmetterla agli altri come grazia e dono di salvezza mediante la fede. Tutto molto semplice e lineare, a condizione che i due momenti non vengano separati e una forte tensione interiore si sviluppi tra i due poli: la contemplazione e la predicazione. Quanto san Tommaso definirà in questi termini: contemplare e comunicare agli altri il frutto della contemplazione (contemplari et contemplata aliis tradere). Non come attività giustapposte, ma come azione unitaria per quanto distinta.

Il legame tra queste due sfere è nello “studio”, che incrementa la contemplazione e prepara alla predicazione. Contemplazione-studio-predicazione: è questo l’asse portante su cui si impernia la personalità e la spiritualità di Domenico di Guzman, quasi centro da cui si irradiano scelte e decisioni da cui prenderà vita l’Ordine dei Frati predicatori. Domenico incarnava in sé una istanza di chiesa storica, che lo porta inevitabilmente ad una risposta non solo spirituale ma istituzionale: un ritorno alla chiesa apostolica, che sarebbe riduttivo intendere come comunità monastica  o come organizzazione operativa. Per cui anche ogni convento è concepito come “casa di predicazione” e strutturato al suo interno di preghiera liturgica e personale, di vita comune e  di studio come mezzi.

Simile orientamento, che guarda “ad extra” e al mondo, porta a modificazioni interiori rispetto al “parlare con Dio” e al “parlare di Dio”. Se la matrice comune  rimane la Scrittura o “sacra pagina”, questa non è più soltanto materia di “lectio divina” per una crescita personale, ma deve tornare ad essere messaggio di salvezza per tutti. Di qui la nascita di un’attitudine nuova dello spirito, e cioè la “teologia come scienza”, e cioè come via di comunicazione obiettiva  della fede. È il passaggio che avviene dalla “lectio divina” alla “quaestio disputata”: dalla lettura della Parola di Dio che diventa meditazione, orazione e contemplazione, per arrivare ad un massimo di concentrazione e interiorizzazione del cuore, ad una lettura  che stimoli, riempia e attivi anche il pensiero, e in qualche modo soddisfi non solo il cuore ma anche l’intelligenza.

Certamente si può parlare di teologia in tanti modi grazie al comune riferimento alla Scrittura, per cui abbiamo una teologia biblica, una teologia spirituale, una teologia mistica, una teologia morale, una teologia pastorale ecc.., dove l’aggettivo delimita il campo teologico e si impone ad una esigenza teologica di pura conoscenza. C’è sempre una finalità accessoria, di cui la parola teologia è solo coefficiente. È possibile concepire una teologia  come tale, come un tutt’uno che ingloba tutte la varie branche  della fede in tutte le sue sfaccettature? È la sfida che va sotto il nome di “Somma teologica”, che segna un’epoca, una cultura, un modo di essere: qualcosa che è più vicino a noi di quanto non si creda, stando almeno al breve prologo di san Tommaso alla sua opera.

Quando perciò si dice “teologia” sarebbe bene dire anche cosa effettivamente si vuole intendere e non rimanere nel generico e nell’indistinto. So perfettamente di fare un’affermazione che si ritiene oziosa e che cade nel vuoto, ma esiste una vera e propria “questione teologica”, che richiederebbe qualche puntualizzazione. Si dice giustamente che il Vaticano II è stato preparato, alimentato e condotto da teologi. Stranamente nel dopo Concilio la teologia è caduta in discredito, ed invece di fare da collettore e da linea guida del Concilio nel suo insieme, si è come frantumata dando origine a teologie di ogni tipo e di ogni cosa (teologia della morte di Dio, teologia delle realtà terrestri, teologia politica, teologia della speranza, teologia della liberazione ecc…) ma lasciando l’orizzonte senza luce. Sintomo di questa crisi è la rivendicazione del primato dell’ortoprassi rispetto alla ortodossia!

Stando così le cose, la scelta è tra portare acqua ai tanti mulini attivi qua e là,  ciascuno con la sua etichetta di produzione, o tentare il recupero di una “ragione teologica” di fondo, che raccolga e orienti in una visione d’insieme e differenziata i tanti frammenti dispersi di pensiero. Va bene che si voglia ascoltare la base e partire dal basso, ma quale è poi la prospettiva in cui muoversi e sotto quale luce  potersi ritrovare per non andare avanti  in ordine sparso?

Il paradosso in cui ci troviamo è che mentre tutta la tensione del Concilio è stata verso il mondo, la spiritualità che ne è seguita e ha preso campo va in senso centripeto e sviluppa modelli comunitari e celebrativi autoreferenziali. Prova ne sia il fatto che mentre la “lectio divina” è divenuta prassi generale, di “quaestio disputata” o simili non si fa neppure il nome. E questo quando si continua ad invocare una fede matura e cristiani adulti: adulti come e in che cosa? È bastata l’operazione del Catechismo universale della chiesa per arrivare a tanto, o siamo sempre sulla linea di partenza, e c’è sempre da trovare continuità e omogeneità tra “parlare con Dio” e “parlare di Dio”?

In effetti, come detto, il “parlare con Dio” ha avuto il suo sviluppo interno come pietismo, misticismo, devozionismo, estetismo, mentre il “parlare di Dio” non riesce a diventare pensiero, cultura, visione del mondo e della vita, e rimane  sempre allo stato di testimonianza entusiasta, magari da affiancare con iniziative, opere, prestazioni caritative. Per cui, più che “parlare di Dio” non si fa che parlare di sé e proporre se stessi.

Stando così le cose, non può mancare una ripercussione all’interno  di quella che abbiamo imparato a chiamare, con santa Caterina, la “navicella di Domenico”. E allora ci ritroviamo davanti ad un altro paradosso: che un gruppo di persone che hanno consacrato la vita al servizio del vangelo per il mondo - e quindi  a vocazione teologica - non si ponga più neanche il problema, dato per risolto secondo le leggi di pura conservazione. L’esperienza insegna che è controproducente agitare le acque e suscitare confronti; ma al tempo stesso nessuno può negare che il problema esiste e può impedire che personalmente me ne faccia carico, per una semplice ragione di verità e di coerenza.

Che le situazioni di fatto vadano accettate e tollerate è fuori discussione, ma che diventino regola e misura ultima di una vocazione e scelta di vita non è moralmente ammissibile, perché a pagarne il prezzo non siamo noi, ma i destinatari della nostra missione. Col linguaggio di Domenico si direbbe che sono i “Cumani”, quanti il vangelo lo devono ascoltare e scoprire per la prima volta o riscoprire nella sua potenza salvifica. Mi sia lecito perciò nutrire ed esprimere un desiderio:  che questo compito venga riconsiderato nella sua impostazione e strutturazione originaria e non solo come copertura di tanti nostri modi di essere.

In conclusione: se in un primo tempo il riferimento a Domenico di Guzman era in qualche modo sospeso, ad evitare ambiguità e fraintendimenti con l’esistente,  ormai è il momento di dichiarare apertamente che la via da lui tracciata per il suo Ordine è ciò di cui la chiesa di oggi ha bisogno. E ad essa vogliamo attenerci con tutti i nostri limiti, ma anche con tutto l’entusiasmo e la dedizione di cui egli ci è di esempio!

 

ABS

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