Koinonia Marzo 2022


i Misteri eleusini

 

In luoghi non troppo distanti da quelli dove i cosiddetti Presocratici (meglio definiti “Sapienti” ionici) operavano e in tempi più o meno coincidenti, in tutto l’ambito del mar Egeo, prendeva nuovo vigore un antichissimo culto, molto diverso dal politeismo ufficiale, denominato Mustèria (Misteri).

Le sue origini risalgono alla metà del secondo millennio a. C. e i riti ad esso connessi erano stati celebrati per secoli parallelamente a quelli professati nell’ambito della religione olimpica, senza che, tra essi, si manifestassero intolleranze o antagonismi.

Caratteristica di questo culto fu l’intento fondamentalmente soteriologico, la partecipazione individuale e spontanea e il fatto che i riti si concludessero con una cerimonia di “iniziazione” mantenuta nel più rigoroso segreto.

Testimonianze archeologiche dimostrano che, nel sesto secolo a. C., il culto dei Misteri ebbe un forte incremento ad Eleusi, la sede più importante delle celebrazioni in Grecia, a pochi chilometri da Atene. Notevoli lavori di ampliamento del Santuario provano l’accresciuta partecipazione a questo rito. Anche gli scritti di Onomacrito, poeta e filosofo vissuto alla corte di Pisistrato, che mise per iscritto opere attribuite a Museo e ad Orfeo ispiratori di quella forma di spiritualità, sono prova del maggiore interesse suscitato.

I Misteri non costituivano una vera e propria “religione”, né in senso dottrinale, né comunitario e non risulta che esistesse una corporazione stabile di “sacerdoti” deputati alla loro celebrazione. I riti non si svolgevano secondo una liturgia rigida ed erano officiati da personaggi carismatici itineranti che si tramandavano di padre in figlio il loro potere sacramentale.

L’assenza di una riconosciuta comunità preposta ai riti misterici potrebbe esser dovuta al fatto che, a differenza della religione olimpica, i Misteri avevano sempre avuto un carattere principalmente soteriologico, fondato sulla certezza che, dopo la morte del corpo, avesse inizio una seconda vita, migliore della prima. Si riteneva che la continuità tra l’esistenza precedente e quella successiva fosse garantita soltanto a coloro che avevano completato il rito ed erano stati dichiarati “iniziati”.

È sufficiente riflettere sul fatto che il termine “iniziazione” in greco si dice “teletè” (da télos che significa “fine”), mentre, in latino, è reso con initium, di significato opposto. Nulla meglio di questo paradosso semantico può spiegare come, nella visione misterica, la fine della vita sulla terra non fosse pensata come “conclusione” dell’esistenza, ma come momento iniziale di una nuova vita.

Si legge nell’Inno a Demetra:

“Felice tra gli uomini che vivono sulla terra, colui che è stato ammesso al rito!

Ma chi non è iniziato ai misteri, chi ne è escluso, giammai avrà

Simile destino, nemmeno dopo la morte, laggiù, nella squallida tenebra”.

Potersi assicurare un’esistenza oltre la morte costituiva, come è naturale, un bene molto ambìto, tanto che alcuni malintenzionati si approfittavano dell’ingenuità di quanti erano disposti a elargire beni per accaparrarsi questo privilegio. 

Ancora in età classica, Platone lancia i suoi strali nei confronti di: “ciarlatani e indovini (che) si presentano alle porte dei ricchi e li convincono che con sacrifici e incantesimi hanno ottenuto dagli dèi il potere di rimediare con giochi e feste all’eventuale ingiustizia di uno…” (Rep., II, 364 b).

Queste denunce fanno presumere che la mancanza di una categoria riconosciuta di celebranti e l’alone di segretezza che avvolgeva i riti potessero avere lo scopo di proteggere non solo i contenuti del rito, ma anche i suoi officianti.

 

Sta di fatto che i riti misterici convissero per secoli con quelli della religione statale: ne è prova la dovizia di culti, festività, sacrifici tributati agli dèi olimpici nel medesimo lasso di tempo ad Atene. La tolleranza per tutte le forme di spiritualità, caratteristica del politeismo greco, fece sì che i Misteri coesistessero con la religiosità olimpica tramandata dall’epica, senza che si verificassero conflitti o antagonismi.

Sono tuttavia riscontrabili alcune differenze tra i due culti, che non poterono non provocare qualche dissenso: mentre i riti civici erano osservati comunitariamente da tutti i “cittadini liberi” (ateniesi, maschi e proprietari di beni) e dissociarsene era considerato reato, gli adepti ai culti misterici (sia greci che stranieri, sia uomini che donne, sia schiavi che liberi), vi aderivano a titolo personale. Riferisce Erodoto: “Questa festa la celebrano ogni anno gli Ateniesi in onore della Madre e della Figlia (Demetra e Persefone), e chi di loro, o degli altri Greci lo voglia, può farvisi iniziare”. 

Massima libertà di adesione dunque: a differenza di quanto avveniva per le celebrazioni che si realizzavano nell’ambito della religione olimpica, quelle dei Misteri prevedevano una partecipazione privata, visto che chiunque ne avesse avuto voglia avrebbe potuto accedervi.

È presumibile che tale estensione del permesso di partecipazione, oltre ad alcuni atteggiamenti irriverenti nei confronti del pensiero razionale e del moralismo imperanti nella mentalità greca, abbiano provocato qualche mugugno tra i benpensanti. Nelle Baccanti di Euripide, Penteo, re di Tebe, è il portavoce più esplicito di questa riprovazione.

Il fenomeno che dovette suscitare maggiore biasimo, in un mondo nel quale il dominio del lògos si stava sempre più affermando, fu il diffuso ricorso, non solo nel rito misterico, ma nella stessa teologia che ne costituiva il presupposto, ad una forma di esaltazione, alienazione mentale, furore o ascesi, perseguita, sebbene in maniera diversa, da tutte e tre le divinità che questo culto presidiavano: Demetra, Dioniso e Orfeo.

Possiamo, per brevità, definire “transe” (dal latino trans-ire = “andare oltre”) il fenomeno che caratterizza i Misteri e che consiste nel superare i limiti della conoscenza sensoriale e del controllo esercitato dall’intelletto. Com’è facilmente intuibile, esso non era compatibile con la proverbiale “misura” ellenica.

È stato perfino supposto che la transe fosse stata intenzionalmente descritta come ritorno al caos e quindi come manifesta trasgressione, nell’intento di renderla funzionale all’atteggiamento opposto, caratterizzato da razionalità, equilibrio, aderenza ai costumi e alle leggi della città. In questo senso essa avrebbe svolto la funzione di contrasto, negativo e riprovevole, dell’ordine e della moralità.

Anche la partecipazione delle donne, soprattutto laddove era preponderante il culto di Dioniso, era considerata scandalosa. Le Baccanti, infatti, avevano un ruolo di primo piano in questi riti, ai quali partecipavano nottetempo, abbandonandosi a danze e cori esacerbati e forse anche (l’argomento è controverso) a comportamenti sessualmente dissoluti.

Uno spaccato, che rende tutta la conflittualità tra i due universi, quello della pòlis e quello della spiritualità dionisiaca, è la tragedia di Euripide, Le Baccanti, nella quale il tragediografo estremizza il contrasto. Da un lato l’equilibrio, la razionalità, la morale, la sottomissione delle donne, cioè l’ordine costituito descritto anche nei suoi aspetti più oppressivi, dall’altro la dissolutezza e gli eccessi violenti della follia, ma anche la liberalizzazione del sentire individuale, l’apertura al diverso, il recuperato contatto con la natura e con la divinità.

Anche se la vera posizione di Euripide è a tutt’oggi argomento di discussione, la sua tragedia (uscita postuma nel 406/7 a. C.) mette indiscutibilmente in luce l’antagonismo tra l’anima dionisiaca dei Misteri e la tradizione ellenica. È soprattutto il ruolo delle donne e della loro propensione all’irrazionalità più sfrenata e aggressiva che costituisce il motivo di maggiore incompatibilità. Non a caso Dioniso è descritto con fattezze femminili: riccioli che gli scendono sulle gote, pelle bianchissima: “… uno straniero effemminato che attacca una nuova peste alle donne e insozza i letti”.

Non soltanto Dioniso era considerato dai Greci “straniero”, ma anche le altre due divinità preposte ai Misteri: Demetra era vista come la versione greca della Magna Mater anatolica universalmente venerata in tutto l’Oriente, e Orfeo (come Dioniso) era ritenuto di origine tracia. Ci fu anche chi volle sostenere che né Dioniso né Orfeo fossero vere divinità. Euripide insinua il sospetto che il primo non fosse realmente figlio di Zeus, e quanto al secondo, una versione del mito di Orfeo lo voleva figlio, non di Apollo, ma di Eagro, re di Tracia.

È tuttavia innegabile che tutte e tre le divinità erano state assorbite nel pantheon greco: Demetra è la divinità che Omero nomina più volte come latrice di nutrimento per tutti gli uomini e che Esiodo colloca nella prima generazione degli dèi, sorella di Estia, Zeus, Hera, Ade. 

Quanto a Dioniso, sebbene si fosse caratterizzato diversamente a seconda dei paesi che lo avevano venerato, una volta entrato nel pantheon olimpico, in quanto figlio di Zeus, si era “grecizzato”, aveva, cioè, acquisito caratteristiche compatibili con la cultura ellenica.

Orfeo, il preteso teorizzatore dei riti (detti, per l’appunto, “orfici”), pur essendo, come Dioniso, latore di un messaggio di rottura rispetto alla tradizione omerica ed esiodea, era stato integrato in quanto presunto figlio di Apollo.

In questa dialettica di integrazione/opposizione tra le due anime della religiosità greca, si può cogliere il processo che condusse i Greci di età arcaica ad acquisire una più completa consapevolezza di sé: dietro ad essa è possibile scorgere l’antagonismo tra l’organizzazione della pòlis, che sempre più stringeva il cittadino nelle maglie di un condizionamento capillare e selettivo, e il progressivo bisogno di autodeterminazione, liberazione, individuazione.

 

L’origine etimologica del termine “Misteri” (tà mustèria) è riconducibile al verbo mùo che indica il chiudersi degli occhi, ma anche di altri orifizi (bocca, orecchie). L’etimo spiega non soltanto l’inadeguatezza dei cinque sensi e dell’espressione verbale ad entrare in contatto con i riti, ma anche il divieto, imposto a chi aveva subìto l’iniziazione (il mustes), di riferire a chicchessia quel che accadeva durante il rito.

La proibizione di raccontare quel che avveniva nel momento culminante dell’iniziazione era così assoluto che chi si fosse reso colpevole di inosservanza sarebbe stato punito con la morte.

A tutt’oggi si ignora in che modo si svolgessero questi riti: anche le rare voci che si sottrassero al divieto sono tutt’altro che attendibili. Sia per l’ora notturna in cui si eseguivano, sia per l’assunzione del ciceone (bevanda esilarante), sia per la musica eccitante, i riti provocavano negli adepti un’esperienza talmente sconvolgente da non poter essere espressa in parole. Che si manifestasse come sofferenza o come gioia, come terrore o pacificazione, stupore o scandalo, si trattava comunque di un vissuto che in nessun modo sarebbe stato possibile riferire: nessuna “parola” sarebbe stata adeguata a rievocare ciò che si era realmente provato.

La cerimonia finale dell’Iniziazione era infatti dichiarata àrrètos, termine da intendere sia come “irriferibile”, che come “da non riferire”, sia un’impossibilità che un divieto.

Val la pena di soffermarsi a considerare l’importanza di questo concetto di àrrètos così insistentemente ribadito: sappiamo quanto contasse, nel pensiero dei Sapienti ionici, il lògos, inteso sia come “parola” proferita, espressione di significati reconditi, sia come “senso ultimo” dell’universo (da alcuni associato al “Verbo” giovanneo). Anche nei Veda indiani la Parola ha un valore metafisico. L’importanza data al linguaggio verbale aveva portato queste culture arcaiche a farne un uso molto oculato: essa non era vista come frutto di una convenzione, ma come custode di verità intrinseche.

In più luoghi gli stessi Sapienti dimostrarono di voler mantenere un alone di segreto, o, perlomeno, di cripticità alle loro espressioni verbali. Le spiegazioni sociologiche di questo aspetto della cultura sapienziale che fanno riferimento a misure di opportunità politica o di rivalità tra scuole di pensiero, non sembrano cogliere nel segno, o, quanto meno non esauriscono il problema.

In particolare, per quanto riguarda i Misteri, proprio il fatto che essi promettessero quello che fino ad allora era stato considerato impossibile (la sopravvivenza dopo la morte), rendeva indispensabile la segretezza del rito: questo “passaggio di soglia” inusitato e sconvolgente, non poteva essere spiegato in forza delle nude parole, occorreva un tipo di conoscenza e di espressione diverso.

Ci conforta in questa interpretazione un passo dell’Inno omerico a Demetra, nel quale si dice: “Demetra… rivelò i misteri solenni… che in nessun modo è lecito                                                                                  profanare, indagare o palesare…, poiché la profonda reverenza per le dee frena la voce”.

Profanare, indagare, palesare, riverire: azioni poste in parallelo che contribuiscono a chiarire lo spirito dei Misteri e fanno capire come il rifiuto di divulgare l’esperienza vissuta nel rito derivasse, più che dal timore delle sanzioni previste, dalla “profonda reverenza” (sèbas = venerazione, meraviglia) che la dea suscitava, un sentimento misto di timore e rispetto che non andava assolutamente banalizzato diffondendolo con parole comuni.

Non si trattava soltanto di mantenere un segreto, ma di difendere l’eccezionalità di un’esperienza che estraniava il mustes dalla quotidianità. Agli occhi di chi l’aveva vissuta, questa esperienza era unica, irripetibile e, come tale, costituiva un tassello fondamentale della propria personalità. Anche questo aspetto può essere visto come indizio di un accresciuto riconoscimento della propria soggettività da parte degli adepti ai Misteri. Essi, come i poeti lirici, si erano messi autonomamente in contatto con l’universo degli dèi.

Non si può non ricordare, a questo proposito, il Prologo del Perì Phùseos parmenideo e il suo racconto, reso in prima persona, del viaggio che lo aveva “trascinato” verso “la porta che divide i sentieri della notte e del giorno”. Un viaggio che lo aveva reso consapevole del fatto che il linguaggio comune “è un sentiero del tutto inindagabile”.

L’impossibilità/divieto imposto dai Misteri di tradurre in parole un’esperienza estrema fa riflettere anche oggi. Dopo secoli di indiscusso assoluto predominio della parola (spesso degenerata in chiacchiera), il “minuto di silenzio”, richiesto per commemorare un evento luttuoso può essere visto come una briciola di quell’antico tacere.

 

Anna Marina Storoni Piazza

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