Koinonia Marzo 2022


Pro-memoria personale tra presente, passato e residuo futuro

 

ATTRAVERSO 50 ANNI DI GRAZIA E DI SOLIDARIETÀ

 

1 - Il presente

La macchina sinodale sembra aver preso il via, ma l’impressione è che si tratti di un carosello: un girare intorno a se stessi e alle proprie faccende domestiche, piuttosto che ritrovare il respiro del Vaticano II. È stato proposto il “metodo di consultazione capillare”, incentrato su strutture, organismi già esistenti, che dovrebbero dare vita a gruppi sinodali al loro interno e attivarsi per coinvolgere altri dall’esterno: l’ottica rimane quella ad intra. Dove appare che la sinodalità è ridotta a metodo che diventa per se stesso valore, indipendentemente dai contenuti e soprattutto dai soggetti. Difficile capire dove si voglia e si possa arrivare in questo modo, al di là della gratificazione per un senso di partecipazione e di protagonismo conclamato.

Se non nelle indicazioni e sollecitazioni di Papa Francesco alla CEI, nella impostazione organizzativa del Sinodo nella chiesa italiana manca un’anima, un principio ispiratore, una prospettiva comune. Si direbbe che il sinodo non è un processo vitale, ma piuttosto una macchina organizzativa elevata a valore: riconquistare spazi! Si rimane un po’ vittime delle parole, e quando “sinodo” equivale ormai a “camminare insieme”, tutta l’attenzione è monopolizzata da questo “insieme”, dove diventa secondario che qualcuno muova i piedi per  andare avanti in una direzione piuttosto che nell’altra, e dove risulta accessorio che a muoversi siano delle persone in carne ed ossa, chiamate a diventare nuovo Popolo di Dio. Mentre sarebbe proprio questa l’ipotesi di lavoro per tutti: ridare  nuova soggettività al Popolo di Dio nella storia, intento certamente difficile da realizzare, se non formalisticamente, a partire da un progetto frammentario e disincarnato come il “metodo di consultazione” proposto in chiave alquanto populista.

Questa impresa richiederebbe tra altro un ricambio strutturale difficilmente praticabile sulla base di organismi storicamente consolidati: una conversione delle strutture non può essere un esercizio di ingegneria pastorale, ma dovrebbe scaturire da una modificazione interna di coscienza, di mentalità, di cultura, qualcosa che non si ottiene attraverso sondaggi: alla fine, quanto conteranno le risposte della base e quanto le interpretazioni e finalizzazioni pratiche da parte dei vertici? Al convegno di Firenze, in cui l’idea sinodale è nata ed è stata lanciata, non si trattava appunto di nuovo umanesimo e di trasformazione culturale in epoca di cambiamento? Tutto questo è ancora presente e perseguito, o ci si contenta di rimettere in qualche modo in ordine la casa in un nuovo assetto?

Per dire semplicemente che il sinodo non può essere una protesi, un accessorio, rispetto ai luoghi e ai modi in cui la fede va vissuta, annunciata, celebrata e testimoniata, che restano la predicazione del vangelo e l’assemblea eucaristica. Non possiamo pensare ad un sinodo impalcatura dell’edificio chiesa in attesa di restauri di facciata! O si entra nel vivo delle situazioni e si esce dal guscio di mentalità, prassi e abitudini inveterate che riciclano l’esistente, o si continua a girare intorno al vero problema di una mutazione genetica, che ha avuto inizio col Vaticano II, e ha avuto anche le sue gemme, ma che deve ancora fiorire e portare i suoi frutti.

E per dire anche che, se un siffatto sinodo non è da disattendere, è semplicemente perché rappresenta per noi la volontà di ripresa del Vaticano II, non solo come sfondo lontano ma nel suo spirito e come rivoluzione copernicana. Del resto, se si afferma che proprio grazie al Concilio “sinodo” è il nome nuovo della chiesa per il terzo millennio, non possiamo non immetterci nella sua corrente viva attraverso la storia nelle sue potenzialità e attese di salvezza per tutto il genere umano nei tempi.

Se le cose stanno così, non è da pensare a “gruppi sinodali” paralleli alla vita reale della chiesa, là dove una trasformazione deve avvenire; diversamente sarebbe come mettere toppe nuove su vestiti consunti. Da parte nostra quindi c’è solo da continuare ad andare avanti come abbiamo sempre fatto, in quanto lo spirito sinodale ci ha ispirato e guidato fin dal primo momento in risposta alle consegne e agli orientamenti del Concilio. Se questo è vero in partenza per l’impostazione mentale e pratica dell’esperienza fatta, non è mancata neanche la consapevolezza e l’attenzione al tema della sinodalità. Nel maggio del 2010, ad esempio,  l’incontro mensile di Koinonia aveva per tema “Chiesa sinodale alla prova”, per diventare poi un “Quaderno di Koinonia” con le relazioni della giornata (opuscolo disponibile  in alcuni esemplari per chi fosse interessato).

 

2 - Sguardo al passato

C’è da dire però che sinodalità per noi non è stata né un programma da attuare né un tema da trattare, ma uno stile di vita, nel senso che in primo piano  o alla base ci sono sempre state le relazioni personali, al di là di ogni formula di aggregazione precostituita, così come del resto continua ad essere, anche se a volte sembra prevalere la comunicazione scritta: la riflessione ci ha sempre accompagnato come discernimento teologico e come strumento di condivisione.  Se pertanto volessimo ripercorrere l’esperienza vissuta, non dovremmo fare altro che ripensare come sono andate via via le cose con quanti sono stati compagni di viaggio nella linea del Vaticano II e di una evangelizzazione giorno per giorno. Ne verrebbe fuori uno spaccato di come il cammino di “aggiornamento” è stato inteso e vissuto.

Con questa costatazione: che in troppi si sono accasati e accomodati prima del tempo, o per stanchezza o perché sicuri di aver raggiunto lo scopo! Per la verità, ci sono state troppe risposte settoriali e appaganti per continuare a cercare una soluzione  al problema di fondo! Ma ciò che importa è come portare a termine in qualche modo la corsa nella buona battaglia della fede, perché di questo sostanzialmente si tratta. E se pure non sono mancate le battaglie del momento,  l’importante era rimanere in campo aperto, perché la causa  è sempre aperta.

La condizione rimane sempre quella di chi non ha una collocazione istituzionale riconosciuta e riconoscibile, se non quella di soffrire insieme per il vangelo. Ciò non toglie che tutto sia avvenuto e avvenga dentro perimetri istituzionali, quali sono l’Ordine dei frati Predicatori come appartenenza e la vita domenicana come esperienza di vita. Ma qui il discorso prende una piega personale, per dire come l’esperienza  è stata vissuta interiormente. E questo  non per evidenziare fatti e avanzare meriti, ma semplicemente per riprendere il filo conduttore di tutto il cammino,  all’unico scopo di condividere  cosa rimane ancora in gioco. Certamente ad utilità e verifica propria, ma anche come consegna a chi voglia dare seguito a questo tipo di impegno.

Anche se non ho mai fatto valere alcuna altra qualifica rispetto al compito primario del “vangelo sine glossa” da servire, ciò non toglie che ad orientare e incanalare l’impegno  sia stata la tradizione spirituale e l’impostazione istituzionale dell’Ordine dei Predicatoti, in tutta la sua pregnanza e  attualità. Nel linguaggio di santa Caterina da Siena (vedi Koinonia di febbraio), potremmo chiederci quale sia stata o possa ancora essere la navigazione nella “navicella del Padre Domenico”, in rotte non convenzionali o già tracciate, ma tutte da esplorare: verso i Cumani?

Se di “navicella” si tratta, questa non è fatta per rimanere attraccata in un porto, magari per svernarci dentro; ma deve prendere il largo, sapendo che c’è il mare del mondo e della vita da attraversare, tra le tempeste che agitano la barca di Pietro, ed evitando di arenarsi nelle secche in cui sembra versare la vita religiosa ai nostri giorni. Inutile dire che una configurazione e andatura sinodale sarebbe connaturale a questa “navicella”, che però dimostra a volte di aver trovato qualche isola felice  in cui attardarsi.

Stando così le cose, nasce necessariamente il quesito: è possibile essere partecipi del cammino sinodale da fermi? Basta affiancare alla propria condizione di vita religiosa alquanto bloccata un impegno sinodale altrove, in qualche zattera di salvataggio? Si può anche fare, ma sarebbe un cortocircuito inconcludente. Questo sarebbe in contraddizione con la convinzione che la sinodalità andrebbe vissuta non come pratica aggiuntiva, ma dentro i luoghi naturali della fede. E quindi anche dentro  gli spazi vitali della propria esistenza.

Ed allora, se impegno deve essere, è giocoforza ritrovare la sinodalità connaturale alla “navicella di Domenico” e rimetterla in acqua, almeno come processo ideale. Ma è chiaro che tutto questo può essere solo proposto ma non preteso da nessuno:  rimane allora in solido la responsabilità di trovare la giusta convergenza tra la sinodalità intrinseca a questa “navicella” e il movimento sinodale in atto nella chiesa italiana e nella chiesa universale. Quale può essere a questo punto la partecipazione attiva al sinodo di Koinonia in quanto strumento che si ispira ad una tradizione spirituale nella chiesa, quella appunto di Domenico, in modo da avere un minimo di convergenza tra le due sfere? E anche considerando il fatto che un impegno in questo senso è già in atto nell’ambito delle riviste collegate con i “Viandanti”?

Per le ragioni già dette, non si tratta certamente di creare gruppi sinodali a parte, facendo appello alla disponibilità di alcuni e operando in maniera avulsa. Non è questa la nostra scelta. Quello che ci sembra giusto fare è enucleare la sinodalità insita in Koinonia stessa e fonderla con quella congenita nella struttura dell’Ordine dei Predicatori per immetterla criticamente nella sinodalità ecclesiale di base. Non posso impedirmi di dire che è quanto si è cercato di praticare e di pensare da sempre, anche in vista di un ripensamento della stessa vita religiosa in generale e di quella domenicana in particolare. In verità, l’accostamento della vita religiosa al sinodo sembra del tutto disatteso, ma ho la fortuna di vedere che è preso in considerazione da un puntuale articolo del numero 4118 (15 genn/5 febbr) de “La civiltà cattolica” da cui riportiamo il paragrafo relativo al tema, per avere una visione della sinodalità e una valutazione meno funzionalistica della vita religiosa.

Per quanto riguarda invece la specifica dimensione domenicana - di cui non voglio appropriarmi ma da cui neanche escludermi, sempre in una visione globale - mi sia lecito ricordare ad onor del vero che nella richiesta formale per ottenere l’autorizzazione ad intraprendere un’esperienza di evangelizzazione al di fuori di una struttura convento, tra i motivi e gli intenti fondamentali c’era anche questo: “Il desiderio di portare un contributo di esperienza e di riflessione alla riscoperta pratica di una più adeguata collocazione sacerdotale e domenicana all’interno della Chiesa e tra gli uomini”. Qualcosa che rimane del tutto valido e necessario a distanza esattamente di 50 anni a partire dal 1972!

 

3 - Residuo futuro

A questo proposito, proprio per ricordare il 50° dall’inizio di una esperienza sempre aperta, “rileggere” la motivazioni e i propositi di quella scelta nel clima  del primo dopo-concilio, mi porta a dire che sarebbe quella da fare anche oggi: nel variare del clima ecclesiale e delle situazioni storiche, la barra della piccola navicella è rimasta orientata verso gli orizzonti iniziali, fino ad immettersi nella corrente sinodale della chiesa.

Con questa differenza: che mentre in tutti questi lunghi anni tutto procedeva in subordine e all’ombra  di una delegittimazione di fatto, ora che la chiesa è entrata in “cammino sinodale”, autorizza ad uscire allo scoperto, ad assumersi la propria responsabilità e prendere il largo, in fedeltà ed autonomia, nella obbedienza sostanziale ma senza più sudditanze di altro genere. Senza ripromettersi nulla, ma anche senza ulteriori cedimenti. È come sentirsi dire: “Questa è la strada, percorretela, caso mai andiate a destra o a sinistra” (Isaia 30,21).

Se di fatto la vita ci porta a continue necessarie mediazioni e limitazioni, c’è però un momento in cui liberare se stessi ed esprimere quanto ci è dato di maturare dentro: che è quanto è stato espresso a suo tempo, ma che vale anche per l’oggi e per il breve domani che ci potrà essere o meno. Mi sia lecito tornare a quella convinzione di partenza per misurarla col presente e per misurarsi col futuro. Si dirà che questo misurarsi, soprattutto in tempo di sinodo ma anche nello spirito dell’Ordine del Predicatori, non può essere qualcosa di personale ma deve essere appunto sinodale, comunitario, “conventuale”. Sì, proprio così, con piena convinzione e ben volentieri, ma è chiaro che la condivisibilità è qualcosa di obiettivo prima che di soggettivo, è fatta di contenuti prima che di forme.

E se ora arrivo a pronunciarmi in una certa maniera, è perché la responsabilità a cui far fronte nella vita non può rimanere nascosta dietro l’appartenenza scheletrica ad una istituzione, della quale peraltro sposare lo spirito e i principi, nel pieno rispetto delle condizioni di fatto. Per questo sarebbe ormai sterile cercare ancora un discernimento tra posizionamenti diversi in orizzontale - dove la legittimità sembra essere esclusivo valore - se prima non si accetta una convergenza in verticale, e cioè un ripensamento del proprio modo di essere alla luce  della verità di fondo che libera, in ordine alle sfide del momento: un vero e proprio rovesciamento di prospettiva che ci metterebbe a confronto con la storia della chiesa in senso centrifugo, senza facili ripiegamenti in senso autoreferenziale. 

Sollecitato dal rilancio del Vaticano II in chiave sinodale, sono stato indotto - quasi a mia insaputa - a rivivere sollecitazioni, sogni, scelte, impegno nella navigazione di questi tanti anni, non usando il metro di realizzazioni e mete raggiunte, ma unicamente in base alla risposta da dare alla “conversione pastorale” voluta dal Concilio e al “cambiamento d’epoca” (“aggiornamento”?) che la richiede più che mai. Tutto questo operando con continuità tra le pieghe dell’esistente e riflettendo senza sosta per mantenere in rotta la “navicella di Domenico”, “ché volse che attendessero solo a l’onore di me e salute de l’anime col lume della scienzia. Sopra questo lume volse fare il principio suo, non essendo però privato della povertà vera e volontaria” (Dialogo della divina Provvidenza, cap. 158). Qui, santa Caterina ci porterebbe a prefigurare l’apporto che il carisma di Domenico ci richiede e ci consente di dare al sinodo in continuità appunto col Vaticano II. La stessa santa Caterina ci sta davanti come l’icona vivente di una esperienza teologale profonda, di un approfondimento dottrinale e teologico costante, in ordine ad una testimonianza e predicazione del vangelo senza sosta e senza limiti.  Non ci rimane che riprendere il largo, confidando in venti favorevoli!

 

P.Alberto Bruno Simoni op

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