Koinonia Marzo 2022


GEREMIA, UN PROFETA ANCHE PER NOI (II)

 

Parte seconda: Una speranza contro ogni speranza

 

Siamo nel regno di Ioiakìm (605-604 a.C.). Il Signore suggerì a Geremia di prendere un rotolo per scriverci qualcosa. Geremia chiamò allora Baruc, che scrisse sotto dettatura un messaggio riguardo a ciò che sarebbe accaduto a Gerusalemme e Giuda. Poi dirà a Baruc: ‘Adesso va’ tu a leggere ciò che hai scritto, nel Tempio del Signore, perché io ne sono impedito. Leggerai ad alta voce, forse si umilieranno e abbandoneranno la loro condotta perversa’.

 

In fondo è questo che vuole il Signore, la conversione. Certo c’è un culmine oltre il quale non c’è più rimedio, ma fino a quel culmine nessuno più di Dio e del suo profeta desiderano il cambiamento in bene di tutto. Se gli abitanti di Ninive si convertono hai voglia Giona a protestare: Dio perdona, Dio non lascia in preda al dolore coloro che ascoltano il profeta e si pentono del male che hanno fatto.

 

Dunque Baruc andò e lesse ad alta voce al popolo quel che aveva scritto. Poi qualcuno tra gli ascoltatori andrà a riferire tutto ai capi. I capi a loro volta chiameranno Baruc dicendogli: ‘Adesso siediti e leggi anche davanti a noi quello che hai appena letto al popolo’. Dopo averlo ascoltato cominciarono ad avere paura, dicendo tra loro: ‘Dobbiamo far sapere anche al re queste cose’. Poi chiederanno a Baruc: ‘Senti, ma come hai fatto a scrivere tutto ciò?’ E quello: ‘Me le ha dettate Geremia con la sua bocca’. E i capi a lui: “Va’ e nasconditi insieme a Geremia, nessuno sappia dove siete”.

Andarono dunque a riferire tutto al re, il quale si fece leggere il rotolo mentre sedeva “nel palazzo d’inverno, con un braciere acceso davanti”. Mano a mano che il rotolo gli veniva letto egli lo faceva a pezzi con un taglierino gettandolo nel fuoco con tranquilla indifferenza, “finché l’intero rotolo non fu distrutto nel fuoco del braciere. Il re e tutti i suoi ministri non tremarono né si strapparono le vesti all’udire tutte quelle parole”, anzi, ordinarono di arrestare Baruc e Geremia, che nel frattempo “il Signore aveva nascosti”. Non solo ma ordinando a Geremia di prendere “un altro rotolo e scriverci tutte le parole che erano nel primo rotolo bruciato da Ioiakìm re di Giuda” (Ger 36,1-28).

Qui per la prima volta - ha fatto notare Claus Westermann (Mille anni e un giorno) - “viene mostrata l’azione nella storia della parola scritta di Dio”, letta ad alta voce al di fuori del consueto uso liturgico e capace di influire con una certa forza nelle pieghe della storia. Qualcuno non ascolta o addirittura brucia la parola scritta di Dio? E allora verrà riscritta: nulla potrà mai soffocarla o eliminarla. Non è trascurabile il fatto che ancora a noi oggi sia data la possibilità di leggere le parole che quel re aveva bruciato e il modo in cui lo aveva fatto. La parola di Dio deve lottare fino ad essere disprezzata, ridotta a pezzi, come il cuore dei suoi fedeli. E tuttavia durerà fino al suo compiersi, anche grazie a coloro che hanno la forza di leggerla e annunciarla, aderendovi con la propria fede.

 

Altro episodio. Siamo sotto il regno di Sedecia questa volta (598-587 a.C.), e Il Signore comanda a Geremia di mettersi un giogo sul collo, un segno per dire che il giogo babilonese sarebbe durato ancora per molto. Ma ecco nel frattempo presentarsi un altro profeta, Ananìa, che dirà: “Così dice il Signore degli eserciti, Dio d’Israele: ‘Io romperò il giogo del re di Babilonia’”. E Geremia, da parte sua: “Così sia! Così faccia il Signore!”. Ananìa strapperà allora il giogo dal collo di Geremia, lo romperà. E Geremia intanto se ne andrà, “per la sua strada”.

Ma il Signore interviene e dice a Geremia: “Va’ e riferisci ad Ananìa: ‘Così dice il Signore: tu hai rotto un giogo di legno ma io, al suo posto, ne farò uno di ferro’”. E Ananìa addirittura morirà, perché aveva indotto il “popolo a confidare nella menzogna (Ger 27,1-28,1-15).

Di seguito, mentre Gerusalemme è sotto l’assedio ultimo e decisivo di Nabucodonosor, Geremia si trova in galera, dove lo aveva fatto sbattere il re Sedecia a causa delle parole di sventura pronunciate contro di lui. Ed ecco arrivare qualcuno lì a proporgli di comprare il campo di un suo zio in Anatot per il quale a lui spettava il diritto di prelazione. Ci aspetteremmo che il profeta dicesse: ‘Ma come, tutto sta precipitando e io, mentre sono qui in galera, dovrei occuparmi di un campicello da comprare in quella stessa città che mi ha odiato per tutta la vita, in quella città dove ormai ci sono Caldei ovunque a comandare? Al diavolo voi e il vostro campo!’.

E invece no. Geremia stende con calma il documento di contratto, lo sigilla, fa chiamare i testimoni, paga il prezzo che vale e compra quel campo: il profeta si agita quando gli altri sono tranquilli ed è tranquillo quando tutti intorno a lui si agitano. Poi dà a Baruc questo ordine: “Prendi questi documenti, quest’atto di acquisto, la copia sigillata e quella aperta, e mettili in un vaso di terracotta perché si conservino a lungo. Poiché dice il Signore degli eserciti, Dio d’Israele: Ancora si compreranno case, campi e vigne in questo paese” (Ger 32,1-15). Qui si ha una speranza che nasce nel cuore della catastrofe, una speranza che ha un grande legame con la vita, con le cose più semplici e quotidiane del vivere, con le esigenze dei poveri soprattutto, che da sempre aspettano riscatto e giustizia.

“Pertanto dice il Signore: Ecco io darò questa città in mano ai Caldei e a Nabucodonosor… bruceranno questa città con il fuoco e la daranno alle fiamme, con le case sulle cui terrazze si offriva incenso a Baal e si facevano libagioni agli altri dèi per provocarmi”, i suoi capi, i suoi re, i suoi sacerdoti, i suoi profeti e tutti i suoi abitanti mi “rivolsero le spalle non la faccia”. Tuttavia, “li radunerò da tutti i paesi nei quali li ho dispersi nella mia ira,… li farò tornare in questo luogo e li farò abitare tranquilli. Essi saranno il mio popolo ed io sarò il loro Dio… come ho mandato su questo popolo tutto questo grande male, così io manderò su di loro tutto il bene che ho loro promesso. E compreranno campi in questa terra… stenderanno contratti e li sigilleranno… perché cambierò la loro sorte” (Ger 32, 28-44).

André Neher dice che “è straziante leggere nel libro biblico di Geremia i capitoli della gioia e della salvezza”. Perché? Perché Geremia, lungi dal trovare consolazione resterà vittima e, alla fine, dopo essere stato torturato, odiato, incarcerato e abbandonato da tutti, dovrà scappare in Egitto come profeta fallito, travolto dagli eventi più terribili e, probabilmente, lì morire. Ma la gioia e la consolazione che sprigionano le sue parole restano “canto sugli scogli” (L’essenza del profetismo) anche per noi che le leggiamo oggi, con eventi altrettanto terribili che accadono sotto i nostri occhi.

 Geremia reca nel profondo del suo cuore due realtà contrapposte e congiunte: il dolore della catastrofe e la speranza di salvezza. Si potrebbe quasi dire che solo desiderando la salvezza si ha il coraggio di guardare fino in fondo la realtà della catastrofe in cui si sta precipitando, e solo patendo fino in fondo la realtà della catastrofe, senza eluderla, si può davvero credere e aspettare la salvezza promessa dal Signore.

Prendiamo il capitolo 31, scritto molto probabilmente nell’anno della caduta di Gerusalemme, dunque dal fondo della catastrofe. Ebbene, è proprio da lì che Geremia ci dona parole di consolazione e di speranza, parlandoci di un “resto d’Israele” (31,7) che il Signore salverà. In modo che il lutto si trasformerà in gioia, e siano così resi felici e senza afflizioni i figli d’Israele.

Alla fine, dopo essere passato attraverso queste visioni di consolazione e di gioia come in un sonno, Geremia si sveglia e dice: “era stato un bel sogno” (31,26). E non può che tornare qui in mente il canto di coloro che tornano a Gerusalemme dopo il terribile esilio di Babilonia: “Ci sembrava di sognare” (Sal 126,1). La salvezza è come un sogno: troppo bella per essere vera, eppure sarà vera. Non ha nulla a che spartire con la speranza politica e sociale di Giosia, col suo sogno di ristabilire in qualche modo l’unità del regno davidico alla luce del libro della legge che era stato riscoperto, alla luce della grande riforma già avviata. La speranza che ha nel cuore Geremia è molto diversa da quella che ha nel cuore Giosia, che pure è un re buono e dagli ottimi propositi, e però umani, troppo umani. La speranza che ha in cuore Geremia è messianica, egli parla del Signore che “crea una cosa nuova sulla terra” (31,22), e per la prima volta tramite lui l’umanità sente parlare di  “alleanza nuova”, di legge che Dio scriverà “sul loro cuore” (31,31.33).

 

Il teologo giapponese, Kazoh Kitamori, durante la seconda guerra mondiale  ha scritto un libro intitolato Teologia del dolore di Dio. Lì ad un certo punto dice di avere “riflettuto giorno e notte” proprio su un versetto del cap. 31 di Geremia: “Non è un figlio carissimo per me Efraim, / il mio bambino prediletto? / Ogni volta che lo minaccio, / me ne ricordo sempre con affetto. / Per questo il mio cuore si commuove per lui, / e sento per lui profonda tenerezza” (31,20). Si badi bene, dice Kitamori, qui non si parla soltanto della tenerezza di Dio, ma anche del dolore di Dio. Hamu mehaj significa: “il mio cuore mi duole”. A Dio fa male il cuore quando vede che l’uomo soffre. Noi parliamo fin troppo di “amore di Dio”, dimenticando - dice Kitamori – che proprio“Il ‘dolore di Dio’ sta in una dimensione superiore a quella dell’‘amore di Dio’”.

Kitamori rileva che se queste fossero, come sembra che siano, le ultime parole che Geremia ci ha lasciato della sua attività profetica, “possiamo ammettere tranquillamente che la verità qui enunciata è la verità ultima e suprema che sia stata rivelata al profeta Geremia… Dall’inizio alla fine Geremia non fa che annunciare l’ira di Dio – fino al capitolo 31. Soltanto nel capitolo 31 l’ira di Dio è sparita completamente, e al suo posto è subentrato il dominio dell’amore”. Ora Dio vuole farci comprendere quanto ci ama dicendoci quanto soffre per noi. Ed è proprio quando ci parla di questo suo infinito dolore che ci parla anche della cosa del tutto nuova, mai vista e mai udita prima sulla faccia della terra: “Dopo l’annuncio del ‘dolore di Dio’, ora udiamo il meraviglioso annuncio della verità, che è stata definita il ‘vertice massimo della religione veterotestamentaria’, cioè la verità della ‘nuova alleanza’ (31,32)”.

 

Davanti alle cose terribili di cui ci parlano i nostri telegiornali, possiamo scegliere due strade: quella del tutto rimuovere e minimizzare perché tanto prima o poi tutto si sistema; oppure quella di guardare in faccia la realtà senza perdere le staffe. E in questo secondo caso, leggere Geremia con tutte quelle cose terribili che dice, anzi proprio grazie a quelle cose terribili che dice, ci aiuta a sperare “contro ogni speranza” (Rm 4,18), proprio come fece il nostro padre Abramo.

In fondo è un profeta fallito Geremia, inascoltato, travolto dagli eventi più tremendi. Eppure la sua parola di speranza riesce ad arrivare fino alla “nuova alleanza” del Messia Gesù, anch’egli fallito, crocifisso, sconfitto, fino al “sangue” (Lc 22,20). Ma ancora l’unico a darci speranza dopo millenni. “Infatti proprio per essere stato messo alla prova ed aver sofferto personalmente, egli è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova” (Eb 2,18).

Agli esiliati di Babilonia Geremia scrive una lettera in cui parla di “un futuro pieno di speranza” (Ger 29,11). Il regno di Dio è “come un uomo che getta il seme sul terreno; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come egli stesso non lo sa… E quando il frutto è maturo, subito egli manda la falce, perché è arrivata la mietitura” (Mc 4,26-29).

 

Daniele Garota

(2. fine)

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