Koinonia Febbraio 2022


SPERANZA E POVERTÀ DELLA CHIESA OGGI DI FRONTE ALLA PAROLA DI DIO

 

<…> Segni di consolazione e di speranza

Dobbiamo essere grati a Dio di vivere in questo tempo. Il Concilio ci ha dato una abbondanza e una facilità di accesso alla Sacra Scrittura che era inaudita in tempi passati. Il cristiano ne ha bisogno oggi più che mai, sollecitato come è da contrastanti provocazioni culturali. La fede per risplendere, per non essere soffocata, deve essere nutrita costantemente dalla Parola.

Uno sguardo alle nostre comunità ci riempie dunque di consolazione. L’uso della lingua italiana nelle celebrazioni sacramentali, sebbene non costituisca da solo un punto di arrivo, rappresenta comunque per tutto il popolo cristiano una acquisizione felice, che favorisce un contatto più diretto e frequente con la parola di Dio.

Per un numero sempre crescente di cristiani, poi, questo contatto si prolunga nella Liturgia delle Ore, che sta diventando una benefica consuetudine di tanti fedeli, di famiglie, gruppi, movimenti, associazioni.

Attraverso la liturgia, la parola di Dio si assicura un ingresso più largo nella esistenza dei cristiani, secondo l’auspicio del Concilio Vaticano II (“Dei Verbum” n. 25). Infatti, anche alri momenti della vita personale e comunitaria, come la meditazione, la catechesi, le riunioni e le discussioni, si ispirano sempre più alle pagine bibliche.

Mentre si consolida il contatto vitale del popolo cristiano con la parola di Dio, si vanno perfezionando gli strumenti di accesso alla Bibbia. La ricerca scientifica in campo biblico registra anche in Italia risultati di rilievo. Alle scuole accademiche e seminaristiche, sempre più serie e rigorose, si vanno affiancando per religiosi, religiose e laici, corsi di introduzione sia agli aspetti storico-esegetici, sia al messaggio teologico, sia al valore spirituale delle Sacre Scritture. Il testo biblico è accessibile in svariate traduzioni con buoni commenti. La produzione sia scientifica sia divulgativa si fa sempre più vasta, anche se si avverte ancora fortemente in Italia l’esigenza di una letteratura che stia a metà tra l’indagine specialistica e l’applicazione troppo divulgativa.

 

Le difficoltà della predicazione

Questi segni di speranza, per poter dare pienamente i loro frutti, richiedono l’umile consapevolezza delle lacune che accompagnano il nostro incontro con la parola di Dio.

Riferendoci all’episodio dei discepoli di Emmaus, dobbiamo riconoscere che non sappiamo accogliere pienamente in noi la forza di conversione, che è propria della Parola. Quante volte possiamo dire che nell’ascolto e nella meditazione della Parola “ci ardeva il cuore” (Lc 24, 32)? E soprattutto, vale questo per tutta la comunità cristiana? All’abbondanza e al progressivo perfezionamento degli strumenti di accesso alla Bibbia non corrisponde sempre la loro utilizzazione da parte della massa dei fedeli, né sono sempre evidenti i frutti: un progressivo affiatamento con i pensieri di Dio e con i suoi progetti, una resa alla sua potente azione di salvezza, una purificazione della fede. Si può dire che ogni generazione di credenti registra questo scarto tra le potenzialità presenti nella parola di Dio e la loro effettiva attuazione in una vita cristiana pienamente disponibile al disegno divino della salvezza.

“Come ci sembra difficile essere cristiani!” diceva Mons. Lustiger, Arcivescovo di Parigi, iniziando il suo discorso al recente Congresso Eucaristico di Lourdes. E continuava: “Come sopportare questa distanza schiacciante tra la parola del Vangelo, che ci sembra portare in sé tutta la speranza del mondo, e questa realtà nella quale ci ritroviamo con un senso di tanta mediocrità”? Il cammino della Parola nei nostri cuori è lento e faticoso, e questa nostra generazione sente in tante sue difficoltà lo scarto tra Vangelo e vita.

Un sintomo significativo di questo scarto può essere offerto dalle sofferenze della stessa predicazione. Tra le molte cose che si potrebbero dire in proposito, accenno a due difficoltà di cui sono consci per primi i predicatori stessi. È ancora presente un certo atteggiamento occasionalistico. Il ricorso ai testi biblici è una occasione per parlare di tante cose, anche importanti e pertinenti, ma che vengono affrontate secondo l’urgenza e il peso delle circostanze, senza raggiungere quella prospettiva radicalmente nuova che è dischiusa solo da un accostamento più originale e organico alle Sacre Scritture. La Parola non viene prima ascoltata per se stessa, per essere capita, assimilata e poi applicata. Essa è invece chiamata rapidamente in causa per offrire la risposta ai quesiti che noi poniamo a partire dalle nostre mutevoli situazioni e dalle nostre visioni problematiche della realtà. Questo atteggiamento rischia di eludere la prerogativa del primato della parola di Dio, per cui essa ci interroga, ci mette in questione e ci offre delle risposte solo dopo aver messo in crisi e verificato il nostro modo di porre le domande.

Per mettersi in sintonia con questo “primato della Parola” è necessario avvicinarsi ad essa con una certa umile e disarmata semplicità, congiunta con una maggiore attenzione al tenore del testo biblico, alla sua struttura, alla sua interiore organicità, così come insegnano le acquisizioni dei recenti studi biblici.

Fortunatamente la predicazione si va sempre più orientando in questo senso. Ma può sorgere qui un nuovo rischio: ci si accosta al testo biblico con un certo atteggiamento didascalico, quasi per fare una bella lezione, attenta alle finezze delle pagine scritturistiche, ma astratta e chiusa in se stessa. Soggiace a questo atteggiamento una concezione un po’ semplicistica della efficacia della parola di Dio: che basti, cioè, rendere presente la Parola nella sua nuda oggettività, perché si renda presente la potenza stessa di Dio.

In realtà la Parola, pur recando in sé la realtà stessa di Dio, non cessa di essere una realtà storica, un segno umano di Dio. La sua efficacia si manifesta nel suscitare, interpretare, purifìcare, salvare la vicenda storica della libertà umana, che deve essere sempre tenuta presente con le sue aspirazioni, i suoi problemi, i suoi peccati, le sue nostalgie di salvezza, le sue realizzazioni nel campo personale e sociale. Essa agisce nello Spirito e per la forza dello Spirito, e il puro risuonare delle parole, anche se accuratamente elaborate, rischia di divenire semplicemente “un bronzo che risuona” (1 Cor 13, 1).

Le oscillazioni, le incertezze, le lacune della nostra normale predicazione nel proclamare 1’ assolutezza divina e la concretezza storica della parola di Dio non si possono semplicemente imputare all’impreparazione o all’imperizia dei predicatori. Sarebbe ingiusto e superficiale. Occorre mettere in luce profondi collegamenti con una più generale situazione sia della comunità cristiana, sia della cultura attuale.

 

La crisi della comunicazione della fede

Per quanto riguarda la comunità cristiana, dobbiamo constatare, non senza dolore, che la predicazione ufficiale, anche quando è ben curata, rischia di essere inefficace perché è isolata da altre forme di comunicazione della fede. L’annuncio della parola di Dio, fatto nei momenti ufficiali, per raggiungere capillarmente le intricate situazioni storiche, richiede di intrecciarsi con molte altre forme di comunicazione nella famiglia, nei gruppi di amici, negli ambiti di impegno comunitario.

Pensiamo alla ammonitrice sapienza cristiana che aleggia in quella pagina de “I Promessi Sposi”, in cui il buon sarto di un paese non nominato rievoca dinanzi alla famiglia, raccolta a tavola, la predica tenuta dal Cardinal Federigo durante la visita pastorale. Egli sminuzza ai figli le parole dell’Arcivescovo; e proprio il ricordo di quelle parole, invitanti alla condivisione delle altrui sofferenze, produce il gesto della elemosina, nel senso semplice e commovente di prendersi a cuore la povertà degli altri: il sarto invia una figlioletta con un po’ di cibo alla casa vicina di una vedova. La parola proclamata dall’Arcivescovo è diventata viva ed efficace attraverso la mediazione del dialogo familiare.

Purtroppo non è facile oggi che la nostra comune conversazione quotidiana tocchi con semplicità e serietà i temi relativi alla fede. Si tratta talvolta di un istintivo senso di rispetto di fronte alle realtà cristiane o di un atteggiamento di riserbo dinanzi ai propri o altrui sentimenti profondi. Ma spesso è anche questione di pigrizia, di disimpegno, di rispetto umano: ci pare “sconveniente” parlare di Gesù, del nostro misterioso rapporto con Dio, delle esigenze evangeliche, dei problemi della vita ecclesiale, perché intuiamo che questo discorso ci chiede sincerità e fatica o contravviene a quella specie di congiura del silenzio, che la mentalità corrente ordisce attorno agli argomenti religiosi e cristiani.

La predicazione ufficiale, allora, priva di un intenso contesto di fede quotidianamente vissuta, parlata, comunicata, a cui attingere e in cui con-cretarsi, rischia o di chiudersi in un astratto isolamento o di tentare raccordi frettolosi e impacciati con la vita concreta.

Anche qui sarebbe semplicistico imputare questa situazione alla cattiva volontà dei credenti. Bisogna tener conto delle condizioni culturali in cui siamo chiamati a testimoniare la nostra fede.

 

Card. Carlo Maria Martini

dalla Lettera pastorale “In principio la Parola”

(8 settembre 1981)

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