Koinonia Febbraio 2022


CHE COSA POSSIAMO SPERARE (II)

 

Ma voler davvero il cambiamento significa innanzitutto esporsi al proprio cambiamento, credere davvero per primi nella speranza, approfondire la propria umanizzazione affinché la nostra azione sia davvero un servizio per il bene comune, senza trincerarsi dietro a frasi come: “Ma io che ci posso fare?”. “Trovo una grande saggezza - dice Mancini - nella scelta di muoversi mentre ci si trova nell'impotenza, verso una maggiore integrità, anziché verso la conquista di strumenti di potenza...Ci vuole una costante conversione, conversione per fecondità, non per la perfezione individuale”. Bisogna sperare “con pazienza e passione, facendosi carico senza fuggire, cercando appassionatamente come superare la sofferenza e il male in direzione della felicità per tutti. La forza di sperare per i cristiani è sempre la risposta a un appello, a una promessa, a qualcuno il cui amore suscita appunto, come corrispondenza, la speranza”. Ma questo, secondo Mancini, vale anche sul piano della laicità. “Occorre assumere la propria prospettiva di speranza nell'unità della speranza umana. Occorre quindi che ognuno verifichi le radici ultime del suo sperare, rinunciando alla pretesa che la propria configurazione del senso e della speranza sia vincolante per tutti... è necessaria la costante consapevolezza dei limti del proprio progetto e la disponibilità a non assolutizzare analisi, mezzi, finalità”.

 

Per convertirsi veramente, le religioni devono riscoprire il valore della libertà. La libertà, dice Mancini, “come nucleo essenziale della Verità Vivente... qualcosa di costitutivo sia dell'identità divina, sia della qualità della relazione uomo-Dio e uomo-uomo: mettersi sulle tracce della libertà significa porsi in ascolto più attento dell'invisibile 'modo di essere' di Dio, significa soprattutto scoprire che proveniamo da un Dio d'amore... amore che può sorgere, dispiegarsi e compiersi solo nell'elemento vitale della libertà”. Su questo punto, non c'è bisogno di sottolineare quanta strada tutte le religioni, e lo stesso cristianesimo, abbiano da compiere. Basta ricordare il famoso Grande Inquisitore di Dostoijewskj, anche se da quando scriveva lo scrittore russo sono stati indubbiamente fatti dei passi avanti, ma certamente non abbastanza. Mancini si premura di distinguere la libertà dal libero arbitrio. La libertà, egli dice, “non trova il suo criterio in se stessa, per cui saremmo 'condannati' alla libertà come nell'esistenzialismo sartriano”. Si può pensare questo solo se si dà per scontato che “il soggetto sia in sé neutro e che la libertà sia un potere. Il soggetto  umano invece è relazione originaria col bene... co-essenziale in ciascuno con la sua identità più profonda... impronta viva in ognuno della libertà creatrice di Dio... nucleo sorgivo e permanente dell'unicità della persona”. Qual è il posto del libero arbitrio allora? Esso è indispensabile, se “inteso come costante ricollocarsi del soggetto a distanza da ciò che lo interpella per avere lo spazio di dire il proprio sì o il proprio no a ogni provocazione o possibilità che lo raggiunge... Il soggetto non si lascia inglobare dall'altro da sé, ma è sempre 'relazione con' che richiede strutturalmente un margine di distanza”.

 

Il domenicano Joseph Collin riflette sul rapporto fra fede e speranza, come fare cioè della speranza l'oggetto della fede. Anzi la speranza, egli dice, non è l'oggetto della fede, ma il suo 'come': l'unico modo di credere è sperare. Collin riporta un testo di Kierkegaard a proposito dei miracoli di Gesù che si lasciava conquistare dal fatto che le persone malate che si rivolgevano a lui sperassero ancora, anche dopo anni, a volte l'intera vita di sofferenza. E in quei casi diceva: “La tua fede ti ha salvato”.

 

Anche il cardinal Martini ha molto scritto e predicato sulla speranza. Ho in mente soprattutto Itinerario di preghiera, dove ricorda due figure bibliche, esempi di speranza: Maria, nel Magnificat “parla guardando la storia dalla parte della speranza... e in un’umanità piena di mali, di sofferenze e di ingiustizie, contempla la venuta di Dio che sta trasformando la povera esistenza umana”; Simeone ha sperato, ha creduto (ancora il rapporto strettissimo tra speranza e fede): egli “rappresenta ciascuno di noi di fronte alla novità di Dio... lasceremo che questa novità entri davvero nella nostra vita o tenteremo di mettere insieme vecchio e nuovo (vino nuovo in otri vecchi), cercando di lasciarsi disturbare il meno possibile dalla presenza della novità di Dio?”. Martini si mette nei panni di coloro che hanno bisogno della speranza come del ‘pane quotidiano’, un “respiro di forza che permette di vivere la giornata accogliendola”. E ancora, nella lettera pastorale Sto alla porta, rifacendosi a Giovanni 11,9-10: “Le 12 ore del giorno sono vissute pienamente nella luce quando sono vissute nella speranza... La speranza non è soltanto l’attesa di un bene futuro... ma il terreno d’avvento dove il domani di Dio viene a prendere corpo nel presente degli uomini... Nella speranza l’oggi si apre all’orizzonte dell’eternità e l’eternità viene a mettere le sue tende nell’oggi”. Quale illustrazione migliore del concetto di ‘tempiternità’, tanto caro a Raimon Panikkar? Il quale nei suoi Diari così si esprime: “Come mantenere l’ottimismo di fronte alla terribile situazione mondiale? Ottimismo per il futuro: nessuno. Speranza per il futuro però sì, perché il mondo non è soltanto quello visibile... Tutta la nostra vita è un processo per dare vita al divino che è in noi... Siamo semplicemente esseri che aspettano di essere Dio. Il nostro essere è una speranza di Dio”.

 

Enzo Bianchi poi in un suo articolo su Repubblica del settembre 2020, dopo aver costatato che oggi si teme più il vivere del morire, afferma che “la speranza non è un atteggiamento da assumere o rifiutare tout court, ma il frutto di un discernimento, di un’attesa fondata sul pensare, sull’ascoltare, sul confrontarsi ed è anche un esercizio di grande responsabilità” e cita a sua volta Dostoevskij quando afferma che “vivere senza speranza è impossibile” perché le persone alle quali è sottratta la speranza diventano “aggressive, violente, apatiche, fino a cadere in una sorta di angoscia autodistruttiva”. Quale situazione può essere più terribile di Auschwitz? Eppure una 97enne sta raccontando sui social (e sembra sia seguita da un milione e mezzo di persone) di essere sopravvissuta perché ogni giorno le sembrava tanto brutto che il seguente non poteva che essere migliore.

“La ragione dell’azione liturgica - dice padre Balducci in una sua omelia - è stata coperta, velata dalle forme sacrali... ma se appena noi liberiamo il senso di questo evento che accompagna la nostra esistenza... ci accorgiamo che esso ha a che fare con la nostra speranza... è un rito con cui noi ricordiamo a quale speranza siamo stati chiamati... È qui che noi dobbiamo accendere la luce della nostra speranza (la lucerna che ci permetterà di entrare con lo sposo alle nozze), capire le ragioni del nostro andare verso il futuro, vincere le pigrizie interiori, dissipare le nebbie che oscurano il nostro spirito, allargare i vincoli della solidarietà fino ai confini della terra”.

 

Al termine del suo volume, Lafont riassume la sua ricerca dicendo: “Siamo alla ricerca, oggi come nel passato, di una risposta che dia un senso positivo al mondo, alla società, all’uomo e che fondi un ‘voler vivere’ comune e personale”. Questa risposta deve “scoprire la ricerca simbolica dell’uomo, manifestata in ciò che, a prima vista, ha a che fare con l’inutile, mentre il suo ruolo è di fatto considerevole: il gioco, la letteratura, l’arte, i rituali e gli spettacoli e, in ultimo, ma non per importanza, la religione”. Si pensi ai grandi cicli pittorici che nelle chiese medievali accompagnavano, anzi illustravano la predicazione. Ma anche, per quel che riguarda l’oggi, a teologi come Timothy Radcliffe che articola il suo pensiero attraverso citazioni di testi letterari anche modernissimi, film, canzoni popolari e altro. Egli ha evidentemente riscoperto il valore del simbolico, della parola e dell’immagine, che incide sull’immaginazione e sulla capacità emozionale dell’uomo contemporaneo molto più dell’insegnamento dottrinale. Penso anche ai testi della scrittrice americana  Marylinne Robinson e alla sua quadrilogia di romanzi ambientati in una cittadina del Midwest americano, dove il dramma del figliol prodigo rivive con accenti di drammatica attualità, quasi una parabola in cui ciascuno può trovare motivo di riflessione e di conversione.       

 

Dovremmo cercare allora, dice Lafont, di “determinare un nuovo paradigma” secondo cui “il pensiero del vero non ha il primo posto nell’uomo, né cronologicamente, né essenzialmente... È piuttosto un linguaggio simbolico a essere in realtà fondamentale mentre gli altri due (il “Che cosa sapere” e “Che cosa fare” kantiani) devono essere articolati su di esso. “Il simbolico, come indica il termine, afferra ed esprime relazioni, corrispondenze, distanze. Si esprime nell’invocazione, si distende nel racconto e nel gesto, è abitato dalla morte a se stesso e dalla resurrezione  con e negli altri”.

In conclusione egli si chiede per tre volte: “Che cosa possiamo sperare?” dando ogni volta una risposta diversa. La prima volta risponde ‘realisticamente’ ponendosi anche la domanda corrispettiva “Che cosa dobbiamo temere?”. “Da parte mia - egli dice - temo che nulla possa opporsi alla hybris del sapere e alla passione del fare...temo le conseguenze di scoperte e di capacità che sviluppiamo senza avere un minimo ragionevole di certezza circa la nostra possibilità di padroneggiarne l’uso e la gestione... guardo con timore poi all’eventualità che anche il cristianesimo finisca per trincerarsi nei valori assiali della ‘dottrina’ e che non capisca la lezione del VaticanoII...”.

Che cosa possiamo sperare? si chiede ancora. “La pace, la giustizia, la salvaguardia del creato... per mezzo di una rinascita intelligente del teologico-politico...  attraverso una comunione con Dio di cui si sente e si ascolta la Parola e che, a partire dal momento in cui l’ha pronunciata, resta in attesa di una risposta che solo la libertà dell’uomo può offrire”.

E infine speriamo nella conoscenza di Gesù Cristo “la cui vicenda è esemplare...  Entrato nella profondità del dramma umano, rimasto costantemente nell’ascolto di Dio, nell’invocazione e nella risposta, egli ha anticipato ciò che la fede cristiana spera”.  La fede dunque come speranza, speranza possibile nell’ottica dell’amore di Dio per noi e nell’amore nostro per gli uomini e le donne in cui Lui, come in noi, vive e si manifesta, uomini e donne che oggi più che mai hanno bisogno che ‘diamo testimonianza della speranza che è in noi’. Ancora una volta, dunque, sulla sua parola, non  stanchiamoci di buttare le reti!

 

Donatella Coppi

(2. fine)

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